17 maggio 2025

Intrattenimento e speranza in The Hymn of Death



Alle 4 del mattino del 4 agosto 1926, due corpi scomparvero tra le onde del mare di Hyunhaetan. Erano quelli di Yun Sim-Deok, una cantante lirica di talento, e Kim Woo-Jin, un drammaturgo brillante e tormentato. Salirono su un traghetto diretto a Busan, ma non per arrivare a destinazione. Il loro viaggio era un addio al mondo, un ultimo gesto in cui la vita si fondeva con la tragedia e l’amore diventava immortale.

Quasi un secolo dopo, la loro storia continua a parlarci. E non solo perché il loro gesto estremo ci scuote, ma perché dietro quel salto nel vuoto c’è un mondo che ancora oggi ci riguarda. La Corea degli anni ’20 era un Paese sotto il dominio coloniale giapponese, e Yun Sim-Deok e Kim Woo-Jin non erano solo amanti clandestini: erano artisti, anime libere in una società che non lasciava spazio né all’amore né alla libertà.
Netflix, con il drama The Hymn of Death (사의 찬미), ha trasformato questa vicenda in una sinfonia visiva struggente e intensa. Interpretati da Shin Hye-Sun e Lee Jong-Suk, i due protagonisti diventano per lo spettatore moderno una sorta di Romeo e Giulietta coreani, ma con una consapevolezza adulta, storica, profondamente umana.

Il drama racconta il loro incontro, il loro legame profondo e la battaglia silenziosa che combattono ogni giorno contro le aspettative familiari, i doveri sociali e un Paese che non è più il loro. Woo-Jin è un uomo sposato, intrappolato in una vita che gli è stata imposta. Sim-Deok è una delle prime donne coreane a studiare musica in Giappone, simbolo di emancipazione e di rottura, ma sempre sul filo di un equilibrio impossibile. Entrambi appartengono a un mondo che li soffoca, ma trovano rifugio l’uno nell’altra, e soprattutto nella loro arte.

Ed è qui che The Hymn of Death smette di essere una semplice storia d’amore tragico. Diventa un inno, come suggerisce il titolo, alla forza dell’arte. Al suo potere di consolare, di resistere, di liberare. Per Sim-Deok, il canto è molto più di una professione: è la voce della sua anima, l’unico spazio in cui può essere se stessa. Per Woo-Jin, la scrittura è un atto rivoluzionario. In un’epoca in cui ogni parola è sorvegliata, lui scrive per esistere, per dire “io sono” anche quando il mondo intorno sembra ignorarlo. L’intrattenimento, per entrambi, è una forma di sopravvivenza. Ma anche una forma di lotta.
La loro musica, i loro testi, le loro performance sono piccoli atti di ribellione, luci accese nel buio di un tempo difficile.

Eppure, The Hymn of Death non edulcora la realtà. Sa che l’arte non basta sempre a salvarci. Che le parole, le note, le emozioni, a volte arrivano troppo tardi. Quando Sim-Deok, alla fine dello show, dice: “Va bene anche se non possiamo cambiare nulla. Quello che conta è il fatto che stiamo provando qualcosa con la speranza”, ci ricorda che il valore non è solo nel risultato, ma nel tentativo stesso. Nell’atto di provarci, nonostante tutto.

C’è qualcosa di struggente nel sapere che questa frase non è solo un’idea poetica scritta per la sceneggiatura, ma una verità che riguarda moltissime persone, ieri come oggi. In un mondo che spesso ci spinge a rinunciare, a scegliere la sopravvivenza al posto della vita vera, l’arte rimane una delle poche possibilità che abbiamo per non spegnerci del tutto.

Guardare The Hymn of Death non è un’esperienza “piacevole”, nel senso più superficiale del termine. È un’immersione lenta in un dolore elegante, in una bellezza malinconica. È un drama che non strappa le lacrime con colpi di scena forzati, ma le fa scendere in silenzio, mentre la musica scorre e i personaggi scompaiono nel mare.
È anche una riflessione sulla responsabilità degli artisti. Su quanto sia difficile, ma necessario, raccontare la verità in tempi di censura e paura. E su quanto sia fragile la linea tra vivere per sé e vivere per gli altri.

La storia di Sim-Deok e Woo-Jin è, in fondo, una storia di scelta. Una scelta disperata, sì, ma anche consapevole. Scelgono l’amore in un mondo che non lo accetta. Scelgono la libertà in un contesto che imprigiona. Scelgono di non essere spettatori passivi della loro vita.
E forse, è proprio per questo che, quasi cento anni dopo, ancora li ricordiamo. Perché la loro fine non è solo una tragedia, ma una dichiarazione.
Un canto.
Un inno.

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