2 settembre 2025

Corea del Sud: guida alla beach etiquette coreana

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Lo so, siamo a settembre. L’estate volge al termine, le giornate si fanno più brevi e qualcuno ha già fatto il cambio di stagione. Ma il tempo per la spiaggia – per fortuna – non è ancora finito. E allora, complice il caldo persistente e quel pizzico di malinconia tipica di fine estate, ho deciso di portare sul blog un argomento che, sorprendentemente, non avevamo mai approfondito prima: la buona etichetta coreana su come vivere la spiaggia… da vero coreano.

Sì, perché anche quando si parla di mare e relax, la Corea ha il suo modo tutto particolare di approcciarsi al concetto di “estate”, fatto di norme implicite, differenze culturali e abitudini ben radicate. Non è solo una questione di costumi da bagno o teli da mare: è uno sguardo diverso sul corpo, sul tempo libero, sull’idea stessa di vacanza.

Cominciamo da un fatto che, per molti occidentali, può risultare spiazzante: in Corea non esiste il culto dell’abbronzatura. Anzi, il più delle volte si cerca in tutti i modi di evitarla. Cappelli, ombrelli, mascherine, occhiali da sole e persino maniche lunghe fanno parte dell’equipaggiamento standard anche nei giorni più afosi. La pelle chiara continua a essere considerata sinonimo di bellezza e delicatezza, e quindi ci si protegge. Sempre.

Allo stesso modo, i coreani non sono grandi fan del “mettersi in mostra” in spiaggia. A differenza di ciò che avviene in molte culture occidentali, dove il costume è spesso minimal e l’esibizione del corpo fa parte dell’esperienza estiva, in Corea si tende a coprire molto di più. Rash guard, pantaloncini lunghi, leggings da nuoto e t-shirt impermeabili sono la norma, anche per chi sa nuotare benissimo. E questo vale per uomini, donne, giovani e meno giovani. Non si tratta solo di pudore, ma anche di rispetto per gli altri e per sé stessi, e di una concezione del corpo più privata e protetta.

Un’altra cosa da sapere è che le spiagge coreane, soprattutto nei mesi centrali dell’estate, possono essere incredibilmente affollate. Le zone più famose, come Haeundae a Busan o Gwangalli, attirano turisti da tutto il paese. Ecco perché è fondamentale rispettare lo spazio altrui, non invadere le aree comuni e mantenere sempre un comportamento educato. Non troverete musica a tutto volume, tuffi spericolati o giochi rumorosi in acqua. Tutto è più silenzioso, controllato, e in qualche modo… composto.

Anche le regole sulle piscine pubbliche meritano una menzione. In molte strutture è obbligatorio indossare la cuffia, fare una doccia prima di entrare in acqua e indossare un costume adatto. In certi casi, è richiesto anche un certificato medico recente. E se pensate di poter sguazzare liberamente come in un parco acquatico occidentale… beh, forse è meglio rivedere le aspettative: anche qui, la parola d’ordine è moderazione.

Ma allora, come si rilassano davvero i coreani in spiaggia? La risposta è semplice: all’ombra. Letteralmente. Le spiagge sono punteggiate di grandi tende colorate, ombrelloni fittissimi e materassini gonfiabili su cui si riposa, si mangia, si conversa. Più che “fare il bagno”, spesso ci si gode la vista del mare stando seduti o sdraiati, bevendo qualcosa di fresco o assaporando uno dei tanti street food estivi disponibili sul posto. Per molti, il mare è una pausa dalla routine, non un’occasione per sfoggiare il fisico o tuffarsi per ore.

E parlando di cibo, va detto che picnic e delivery sono parte integrante dell’esperienza: non è raro vedere famiglie intere che si organizzano con pasti completi direttamente sotto l’ombrellone. I rifiuti vengono poi raccolti con ordine, lasciando la spiaggia pulita per chi verrà dopo.

Infine, c’è un aspetto culturale che mi ha colpita in modo particolare. In Corea, andare al mare non è solo un momento per sé stessi, ma spesso un’occasione per condividere. Si va con la famiglia, con gli amici, con i colleghi. Si scattano foto, si ride, si mangia insieme. C’è un forte senso di comunità, anche nei momenti di relax. E forse è proprio questo a rendere così diverso – e affascinante – il modo coreano di vivere la spiaggia.

Perciò, che tu stia ancora progettando una gita fuori porta o semplicemente stia già contando i giorni all’estate prossima, spero che questo piccolo viaggio tra le onde coreane ti abbia incuriosito tanto quanto ha incuriosito me. Perché, in fondo, ogni cultura ha un suo modo unico di avvicinarsi alla leggerezza. E conoscerlo ci insegna qualcosa in più non solo sugli altri… ma anche su noi stessi.


Fonti

  1. https://koreangirlexplains.com/swimming-pool-beach-etiquette-in-korea
  2. https://frenchmaninkorea.blogspot.com/2019/03/introduction-to-korean-beach-culture.html
  3. https://gwangjunewsgic.com/community/expat-living/swimming-in-korea/

1 settembre 2025

Quando l'amore ferisce: la genitorialità tossica nei K-Drama

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Ci sono temi che ritornano, silenziosi ma potenti, in molte delle storie che amiamo. Temi che ci colpiscono perché sanno parlare alla parte più nascosta di noi. La genitorialità tossica è uno di questi. Nei K-Drama, è come un’eco sommessa che risuona dietro le trame romantiche, gli intrecci scolastici e le battaglie interiori dei personaggi. Non sempre è protagonista, ma spesso è lì. Invisibile, ma presente. Ed è proprio questa presenza costante a renderla tanto rilevante.

Le serie coreane non hanno paura di mettere in scena il lato più oscuro dell’amore genitoriale. Mostrano famiglie apparentemente perfette che crollano sotto il peso delle aspettative, genitori che si trasformano in carnefici emotivi, figli che non possono essere altro che proiezioni di un sogno che non hanno scelto. È un ritratto duro, a volte difficile da guardare. Ma necessario. Perché attraverso quelle storie, molti spettatori ritrovano frammenti della propria.

Il volto severo dell'autorità

L’immagine del genitore autoritario è una delle più frequenti. Un volto serio, parole fredde, sguardi che non ammettono replica. Nei K-Drama, questo tipo di genitorialità assume spesso tratti estremi: padri e madri che controllano ogni aspetto della vita dei figli, imponendo scelte universitarie, carriere e perfino relazioni. I desideri dei figli? Relegati all’irrilevanza.

SKY Castle è il manifesto di questa visione. I genitori, ossessionati dal successo accademico, trasformano i loro figli in pedine di un gioco crudele, dove l’affetto è condizionato dai risultati e l’umanità sacrificata sull’altare dell’eccellenza. È un mondo che non lascia spazio all’errore. Dove un figlio che crolla non viene abbracciato, ma rimproverato. E la frattura che si crea non è solo familiare: è esistenziale.

Quando l’amore diventa ferita

Al di là del controllo, c’è anche qualcosa di più sottile, ma altrettanto devastante: l’abuso emotivo. I genitori, anziché proteggere, possono diventare la prima fonte di dolore. Nei K-Drama questo viene raccontato con coraggio. Madri e padri che gridano, umiliano, manipolano. Che mettono al primo posto se stessi, lasciando i figli a raccogliere i cocci di una fragilità che non è mai stata ascoltata.

Ci sono anche i genitori assenti, quelli che non ci sono proprio. Né fisicamente, né emotivamente. The Glory ne è un esempio incisivo: le famiglie dei bulli non solo chiudono gli occhi di fronte alla violenza dei propri figli, ma sono talvolta complici, quando non del tutto disinteressate. E la mancanza di una guida diventa lo specchio di una società che preferisce voltarsi dall’altra parte.

In Something in the Rain, invece, l’attenzione si sposta sul controllo affettivo: una madre che disapprova la relazione della figlia non per il suo bene, ma per mantenere il controllo sulla sua vita. E allora l’amore, quello vero, deve combattere contro le catene invisibili dell’approvazione familiare.

E poi c’è chi, come in Come and Hug Me, cresce con un padre che è l’incarnazione del male: un serial killer. Una realtà estrema che però simbolizza una verità più comune di quanto si pensi – che il dolore inflitto da chi dovrebbe amarci è il più difficile da superare.

La maschera del genitore perfetto

Toxic Parents (2023) racconta una storia diversa, ma complementare: quella di una madre che affronta il dolore più grande, la morte della figlia, e che indaga sul passato alla ricerca della verità. Ma ciò che emerge non è solo un mistero da risolvere: è il peso delle aspettative che, anche senza violenza, possono spezzare. Il genitore tossico, in questo caso, non è solo quello che urla. È anche quello che pretende in silenzio, che guarda con delusione, che non accetta la fragilità.

Riflessioni che lasciano il segno

Molti spettatori, guardando questi drammi, sentono qualcosa muoversi dentro. Perché è facile riconoscersi. Forse non del tutto. Ma in un gesto, in una frase, in un pianto soffocato… c’è qualcosa che suona familiare. I K-Drama riescono a toccare corde intime, quelle che spesso restano mute per anni. Ed è in questo che risiede la loro forza.

Queste storie non solo commuovono, ma accendono riflessioni. Su cosa significhi essere genitori. Su quanto possa costare essere figli. E su come sia possibile, anche dopo tanta oscurità, provare a riscrivere il proprio destino.

Perché non tutti i K-Drama finiscono con una redenzione. Non tutti offrono un lieto fine. Ma molti mostrano la resilienza. La capacità di reagire, di sopravvivere, di rinascere. Anche da soli. Anche senza scuse. Anche solo per se stessi.

E se invece parlassimo d’amore?

Non quello fatto di fiori e frasi dolci. Ma quello che accoglie, che non impone, che chiede “Come stai?” senza aspettarsi una risposta felice. I K-Drama, nel mostrarci cosa non dovrebbe essere un genitore, ci ricordano anche cosa potrebbe essere. Un rifugio. Un appoggio. Una presenza.

E forse è per questo che, anche se fanno male, queste storie ci restano dentro. Perché parlano di una speranza che non smette mai di esistere: quella di essere visti, ascoltati, accettati. Per davvero.

Fonti

  1. https://www.researchgate.net/publication/381182491_Authoritarian_Parenting_Practices_on_Korean_Drama_Reception_Analysis_on_SKY_Castle
  2. https://www.idntimes.com/korea/kdrama/7-toxic-parenting-kim-ok-hui-di-drakor-our-unwritten-seoul-c1c2-01-dfccf-m6t44f