15 agosto 2025

La terra delle quotes - 205

Nessun commento:

  1. Ho letto da qualche parte che è proprio il mondo che ti dice che l’impegno non tradisce mai a farci soffrire di più. – Oh My Ghost Clients (2025)
  2. Quando le persone sono con le spalle al muro, non riescono a ragionare. Sai perché? Perché non ne hanno la forza mentale. Ti sembra che sia tutta colpa tua, pensi che vivrai così per sempre. E col tempo, ti convinci che morire sarebbe meglio. Ma è solo tutto nella tua testa. – Oh My Ghost Clients (2025)
  3. Quando pensi che potresti morire, se ti lasci semplicemente trasportare dalla vita, in qualche modo trovi una via d’uscita. – Oh My Ghost Clients (2025)
  4. Le tue conquiste sono parte di te. Hai solo ricevuto un “no, ecco. Non dubitare del tuo potenziale. – Our Unwritten Seoul (2025) 
  5. Oggi va meglio di ieri. Ed è sui nostri oggi che costruiamo la promessa di un domani. – Our Unwritten Seoul (2025)
  6. Fai ciò per cui sei nata… bussare alla porta del cuore altrui. “Sono qui. Se apri, mi trovi fuori”. – Our Unwritten Seoul (2025)
  7. Se sono solo mi limito ad avere paura. Se sono in compagnia… faccio soffrire anche gli altri. – Our Unwritten Seoul (2025)
  8. In amore non si vince ne si perde. In amore si resta uniti fino alla fine, anche quando si perde. Amare è stare insieme nonostante le centinaia, le migliaia di sconfitte. – Our Unwritten Seoul (2025)
  9. La promessa di un futuro non nasce dalla speranza, ma dalla determinazione.  Dietro di me, ho un mare di rimpianti. Davanti a me, ho un mare di paura. Abbiamo deciso di affrontare questo ignoto percorso insieme. Anche se non ci aspetta un lieto fine, cammineremo fianco a fianco sino alla fine. – Our Unwritten Seoul (2025)
  10. Appena inizi a prenderci la mano, il capitolo che conosci termina… e ne inizia uno sconosciuto. Alcuni preferisco saltare all’ultima pagina, ma io, dalla fine, mi sono sempre tenuta lontana. Amavo i protagonisti dei fumetti e non aprivo l’ultimo volume. Non battevo un boss finale così che il videogioco non si concludesse. Forse perché, in cuor mio, lo sapevo già, per quanto avessi resistito, la fine sarebbe arrivata lo stesso. – Our Unwritten Seoul (2025)
  11. Per quanto dura sia la giornata ridere un secondo può fartela superare. Quindi non lasciar andare la persona che ti fa ridere.  – Our Unwritten Seoul (2025)
  12. Possiamo preoccuparci proprio perché siamo vivi.– Our Unwritten Seoul (2025)
  13. La laurea è “la fine”? La gente si laurea per avere più possibilità di lavorare. Hai detto che lavorerai. Ce l’hai fatta fino alla fine.– Our Unwritten Seoul (2025)
  14. Non resti sull’autobus fino all’ultima fermata. Scendi quando arriva la tua. E chi dice che la fine è importante? E’ l’inizio che importa.– Our Unwritten Seoul (2025)
  15. Le persone vanno sempre avanti. Potresti inciampare e cadere o fermarti un attimo, ma non torni mai indietro. Anche se non te ne accorgi, ti muovi sempre in avanti.– Our Unwritten Seoul (2025)

Cose che i K-Drama ci hanno fatto credere (ma non sono vere)

Nessun commento:

Ci sono bugie dolci, che accettiamo volentieri. Come quelle che si nascondono sotto le luci soffuse dei drama coreani, mentre ci illudono che la vita lì sia più semplice, più bella, più romantica. Ma la verità, lo sappiamo bene, non è sempre quella che passa dallo schermo. E questo articolo nasce proprio da qui: da quella distanza sottile e ingannevole tra finzione e realtà, tra ciò che i K-drama ci fanno credere e ciò che, nella Corea del Sud reale, è molto diverso.

Non si tratta di smascherare la magia – quella la teniamo stretta – ma di guardare con rispetto e curiosità a un Paese che spesso conosciamo solo attraverso gli occhi di una telecamera. E se imparassimo a conoscere anche l’altro lato? Quello meno luccicante, ma più autentico?

“Honjok”: la solitudine scelta

I drama ci mostrano spesso gruppi affiatati, famiglie invadenti, amici onnipresenti, relazioni sentimentali sempre in fermento. Ma esiste una fetta crescente di popolazione sudcoreana che ha scelto l’opposto: vivere da sola. Il fenomeno si chiama honjok, e descrive uno stile di vita in cui si decide di mangiare, viaggiare, vivere in totale solitudine. Non è tristezza, ma indipendenza. In Corea, questo è diventato quasi un movimento culturale: ci si emancipa dal dovere di socializzare e si abbraccia una quotidianità fatta di libertà personale.

Eppure, i drama ci restituiscono un’altra immagine. L’essere soli è spesso trattato come qualcosa da curare, da risolvere, da evitare. Ma nella realtà, l’honjok è sempre più accettato, e riflette un cambiamento sociale profondo, legato allo stress urbano, all’ipercompetitività e al desiderio di proteggere la propria salute mentale.

L’amore non è sempre a portata di OST

Nei K-drama l’amore è ovunque. Ti urta per strada, ti salva la vita sotto la pioggia, ti aspetta al varco della metropolitana. Eppure, la realtà è molto più sfumata. In Corea del Sud, i tassi di natalità sono tra i più bassi al mondo e sempre più giovani evitano relazioni stabili, matrimonio o figli. Le motivazioni sono tante: dalla pressione economica alla mancanza di tempo, dalla competizione lavorativa alla disillusione nei confronti delle relazioni. Il dating non è sempre rose e petali: a volte è stanchezza, a volte è proprio assenza.

I drama ci insegnano che prima o poi lui o lei arriverà. Ma molti giovani coreani non aspettano nessuno. Hanno scelto di vivere per sé stessi. E se l’amore arriverà, bene. Se non arriverà… va bene lo stesso.

La cultura dell’apparenza

Uno dei miti più diffusi è quello secondo cui tutti i coreani hanno la pelle perfetta. Nei drama non esiste acne, rossore, occhiaia che tenga. Ma la verità è che la pelle perfetta non è un dono genetico, bensì il frutto di una delle industrie cosmetiche più avanzate, competitive e pervasive del mondo.

In realtà, lo stress, l’inquinamento e la pressione sociale contribuiscono a una cura quasi ossessiva dell’aspetto fisico. I drama lo nascondono, ma è impossibile ignorare quanto il culto della bellezza impatti sul quotidiano: chirurgia estetica normalizzata, prodotti di skincare ovunque, standard estetici rigidi e idealizzati. Ciò che appare naturale è spesso costruito con cura estrema.

Bere non è romantico, è un problema sociale

Le scene di sbronze nei drama hanno quasi sempre un sottofondo comico o romantico. Ma nella vita reale, il consumo eccessivo di alcol è una delle problematiche più gravi in Corea del Sud. Si beve molto, e spesso per motivi legati al lavoro, alla pressione sociale o alla necessità di scaricare lo stress. I dati parlano chiaro: alcolismo, dipendenza e problemi di salute legati all’abuso non sono rari, e raramente vengono affrontati nei K-drama con la stessa leggerezza con cui vengono mostrati.

Bere con i colleghi, bere per dimenticare, bere per festeggiare: nei drama tutto ha una cornice brillante. Nella realtà, però, c’è anche la fatica, il senso di colpa, la dipendenza. Non è una questione da ridere o da innamorarsi sotto un lampione.

Seul non è una città piccola e i drama non sono documentari

Un altro stereotipo che si insinua nei drama è la geografia semplificata della Corea del Sud. Seul sembra una città piccola, dove tutti si incontrano per caso, si rincorrono sotto la pioggia e si trovano al momento giusto nel posto giusto. Ma Seul è una metropoli enorme, frenetica, labirintica, dove incrociare per caso qualcuno per strada è quanto di più improbabile possa accadere. Anche questa illusione fa parte della finzione.

E più in generale, i K-drama sono prodotti di intrattenimento. Spesso si prendono libertà creative che falsano la rappresentazione sociale: famiglie ideali, genitori ricchi, studenti impeccabili, rapporti idilliaci con i superiori. È importante saperlo: non sono documentari, non sono specchi fedeli di una nazione. Sono storie. Storie bellissime, a volte importanti, a volte ingenue, ma sempre finzione.

L’ombra della solitudine e la pressione invisibile

Dietro le luci della fiction si nasconde una realtà più cupa. In Corea, il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo. Lo stress, la pressione familiare, scolastica e lavorativa, uniti allo stigma verso la salute mentale, creano un contesto difficile, spesso taciuto o edulcorato dai media.

I drama accennano a tutto questo solo in parte. Ma la solitudine, in Corea, non è solo scelta: è anche sintomo. Sintomo di una società che corre troppo, che pretende tanto, che spesso dimentica di ascoltare. E non è un caso che sempre più giovani si rifugino in vite parallele, virtuali, solitarie o immaginarie.

Figli invisibili: cosa significa davvero adottare in Corea del Sud

Nessun commento:

Ci sono storie che si fanno spazio dentro di noi con una forza inaspettata. Storie che ci entrano sottopelle, non perché raccontino qualcosa che abbiamo vissuto in prima persona, ma perché toccano corde universali: il senso di appartenenza, il desiderio di essere scelti, la paura dell’abbandono. È quello che mi è successo leggendo la trama di The Defects, un drama coreano che mette al centro le vite di ragazzi nati in circostanze oscure, cresciuti nell’ombra di un passato che non hanno scelto. E proprio da quelle poche righe – secche, misteriose, crude – è nato il bisogno di approfondire una realtà tanto delicata quanto ignorata: quella dell’adozione in Corea del Sud.

Parlare di adozione significa, in ogni angolo del mondo, toccare una sfera intima, umana, spesso dolorosa. Ma in Corea, questo tema assume sfumature ancora più complesse, frutto di una storia lunga, stratificata, a tratti disturbante. Non si tratta solo di un percorso burocratico o familiare: è un fenomeno profondamente intrecciato alla cultura nazionale, alla guerra, alla povertà, alla vergogna sociale, alla politica e, in alcuni casi, alla violazione dei diritti umani.

Adozione internazionale: un’eredità della guerra

La Corea del Sud è stato il primo paese al mondo per numero di adozioni internazionali. Questo primato, che potrebbe sembrare nobile a uno sguardo superficiale, affonda le radici in una ferita collettiva: la guerra di Corea. Negli anni Cinquanta, migliaia di bambini rimasti orfani o nati da relazioni tra donne coreane e soldati stranieri vennero dati in adozione, per lo più a famiglie americane. Il governo coreano, anziché costruire un sistema di protezione nazionale, facilitò per decenni la cessione di questi bambini all’estero, trattandoli come “esportazioni” da gestire con l’aiuto di agenzie religiose o private.

La narrativa ufficiale parlava di carità, di necessità, di soluzioni per i piccoli abbandonati. Ma la verità che è emersa con il tempo è molto più amara: molti di quei bambini non erano affatto orfani. Alcuni venivano separati con la forza dalle loro famiglie, altri sottratti con l’inganno o dichiarati “senza genitori” grazie a documenti manipolati. Si è trattato, in moltissimi casi, di veri e propri abusi sistematici.

Tra i casi più emblematici emersi con il tempo, vi è quello della struttura religiosa Brothers Home, coinvolta in una delle vicende più oscure: tra il 1979 e il 1986, almeno 19 bambini risultano essere stati vittime di traffico, un fatto che getta ulteriore ombra sul sistema di affidamenti e istituzionalizzazioni dell’epoca.

La macchina delle adozioni e le sue fratture

Per decenni, le adozioni internazionali hanno rappresentato per la Corea anche un’industria redditizia. Alcuni report parlano di incentivi economici, rimborsi per le agenzie e una vera e propria politica del “lasciare andare” per non dover affrontare il problema dei bambini indesiderati. In particolare, venivano spinti verso l’adozione all’estero i figli nati da madri single, da relazioni extraconiugali, o semplicemente ritenuti “di troppo” in famiglie numerose e povere. L’aborto era illegale, il welfare inesistente: l’unica via per le donne era spesso quella dell’abbandono, o peggio, della rinuncia forzata.

Nel tempo, l’immagine pubblica del fenomeno è cambiata. La Corea ha iniziato a promuovere l’adozione domestica e a porre limiti sempre più rigidi all’adozione internazionale. Ma i numeri sono rimasti inquietanti. Fino al 2007, erano ancora più i bambini spediti all’estero che quelli adottati in patria. E anche quando le leggi si sono fatte più stringenti, i problemi non sono spariti. I sistemi di registrazione, ad esempio, hanno continuato a contenere errori, omissioni, falsificazioni. Alcuni bambini sono cresciuti senza conoscere la verità sulle proprie origini, e ancora oggi migliaia di adulti coreani adottati all’estero cercano invano i loro genitori biologici, trovandosi spesso davanti a un muro di silenzi, dati mancanti e storie cancellate.

Le sfide dell’adozione oggi: tra stigma e burocrazia

Oggi, adottare in Corea del Sud è molto difficile. Le restrizioni sono severe, e per chi vive nel paese da straniero, il processo è quasi impossibile. Anche i cittadini coreani devono affrontare ostacoli enormi: lunghi tempi di attesa, controlli estenuanti e un forte stigma sociale, specialmente nei confronti delle madri biologiche. In Corea, la famiglia biologica resta ancora un valore sacro, e l’adozione è vista da molti come un’“ultima spiaggia” o qualcosa da nascondere. I bambini adottati vengono spesso discriminati, e molte famiglie scelgono di non dire nulla neanche al figlio stesso.

Inoltre, trovare informazioni aggiornate e corrette sul processo è complicato. Chi prova a documentarsi online spesso si scontra con esperienze discordanti, lunghe attese, risposte vaghe dalle autorità. Anche sui forum di espatriati, chi vuole adottare esprime frustrazione, confusione, e un forte senso di impotenza.

La voce degli adottati

Negli ultimi anni, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. Un numero crescente di adulti adottati – soprattutto quelli cresciuti negli Stati Uniti e in Europa – ha iniziato a parlare. A denunciare. A condividere le proprie esperienze di identità spezzata, di razzismo, di mancanza di radici. Alcuni hanno intrapreso viaggi verso la Corea per cercare la verità, altri si sono uniti in gruppi e associazioni che chiedono maggiore trasparenza, accesso ai documenti, scuse ufficiali.

Queste voci stanno cambiando la narrazione. Non si parla più solo di “bambini salvati”, ma anche di “vite rubate”. Di adozioni che non sono state scelte, ma imposte. Di famiglie separate per sempre, spesso senza motivo. Di traumi invisibili che durano una vita.

Un dolore collettivo, una riflessione necessaria

The Defects non racconta direttamente questa storia. Ma la sfiora, la evoca, la incarna. La presenza di bambini segnati da ferite invisibili, cresciuti in istituti, segnati dal rifiuto e dalla vergogna, ci obbliga a guardare oltre la superficie. A chiederci cosa significhi davvero essere figli in un mondo che sceglie chi è degno e chi no.

Scrivere questo articolo è stato un percorso emotivo ma anche lucido. Perché la storia dell’adozione in Corea del Sud è troppo complessa per essere ridotta a uno slogan. È fatta di scelte politiche, di ingiustizie sociali, di silenzi culturali, di leggi ambigue, di tragedie personali.

Ma è anche una storia che merita di essere ascoltata. Perché ogni figlio invisibile, in fondo, ha il diritto di essere visto.


Fonti: