Ci sono temi che ritornano, silenziosi ma potenti, in molte delle storie che amiamo. Temi che ci colpiscono perché sanno parlare alla parte più nascosta di noi. La genitorialità tossica è uno di questi. Nei K-Drama, è come un’eco sommessa che risuona dietro le trame romantiche, gli intrecci scolastici e le battaglie interiori dei personaggi. Non sempre è protagonista, ma spesso è lì. Invisibile, ma presente. Ed è proprio questa presenza costante a renderla tanto rilevante.
Le serie coreane non hanno paura di mettere in scena il lato più oscuro dell’amore genitoriale. Mostrano famiglie apparentemente perfette che crollano sotto il peso delle aspettative, genitori che si trasformano in carnefici emotivi, figli che non possono essere altro che proiezioni di un sogno che non hanno scelto. È un ritratto duro, a volte difficile da guardare. Ma necessario. Perché attraverso quelle storie, molti spettatori ritrovano frammenti della propria.
Il volto severo dell'autorità
L’immagine del genitore autoritario è una delle più frequenti. Un volto serio, parole fredde, sguardi che non ammettono replica. Nei K-Drama, questo tipo di genitorialità assume spesso tratti estremi: padri e madri che controllano ogni aspetto della vita dei figli, imponendo scelte universitarie, carriere e perfino relazioni. I desideri dei figli? Relegati all’irrilevanza.
SKY Castle è il manifesto di questa visione. I genitori, ossessionati dal successo accademico, trasformano i loro figli in pedine di un gioco crudele, dove l’affetto è condizionato dai risultati e l’umanità sacrificata sull’altare dell’eccellenza. È un mondo che non lascia spazio all’errore. Dove un figlio che crolla non viene abbracciato, ma rimproverato. E la frattura che si crea non è solo familiare: è esistenziale.
Quando l’amore diventa ferita
Al di là del controllo, c’è anche qualcosa di più sottile, ma altrettanto devastante: l’abuso emotivo. I genitori, anziché proteggere, possono diventare la prima fonte di dolore. Nei K-Drama questo viene raccontato con coraggio. Madri e padri che gridano, umiliano, manipolano. Che mettono al primo posto se stessi, lasciando i figli a raccogliere i cocci di una fragilità che non è mai stata ascoltata.
Ci sono anche i genitori assenti, quelli che non ci sono proprio. Né fisicamente, né emotivamente. The Glory ne è un esempio incisivo: le famiglie dei bulli non solo chiudono gli occhi di fronte alla violenza dei propri figli, ma sono talvolta complici, quando non del tutto disinteressate. E la mancanza di una guida diventa lo specchio di una società che preferisce voltarsi dall’altra parte.
In Something in the Rain, invece, l’attenzione si sposta sul controllo affettivo: una madre che disapprova la relazione della figlia non per il suo bene, ma per mantenere il controllo sulla sua vita. E allora l’amore, quello vero, deve combattere contro le catene invisibili dell’approvazione familiare.
E poi c’è chi, come in Come and Hug Me, cresce con un padre che è l’incarnazione del male: un serial killer. Una realtà estrema che però simbolizza una verità più comune di quanto si pensi – che il dolore inflitto da chi dovrebbe amarci è il più difficile da superare.
La maschera del genitore perfetto
Toxic Parents (2023) racconta una storia diversa, ma complementare: quella di una madre che affronta il dolore più grande, la morte della figlia, e che indaga sul passato alla ricerca della verità. Ma ciò che emerge non è solo un mistero da risolvere: è il peso delle aspettative che, anche senza violenza, possono spezzare. Il genitore tossico, in questo caso, non è solo quello che urla. È anche quello che pretende in silenzio, che guarda con delusione, che non accetta la fragilità.
Riflessioni che lasciano il segno
Molti spettatori, guardando questi drammi, sentono qualcosa muoversi dentro. Perché è facile riconoscersi. Forse non del tutto. Ma in un gesto, in una frase, in un pianto soffocato… c’è qualcosa che suona familiare. I K-Drama riescono a toccare corde intime, quelle che spesso restano mute per anni. Ed è in questo che risiede la loro forza.
Queste storie non solo commuovono, ma accendono riflessioni. Su cosa significhi essere genitori. Su quanto possa costare essere figli. E su come sia possibile, anche dopo tanta oscurità, provare a riscrivere il proprio destino.
Perché non tutti i K-Drama finiscono con una redenzione. Non tutti offrono un lieto fine. Ma molti mostrano la resilienza. La capacità di reagire, di sopravvivere, di rinascere. Anche da soli. Anche senza scuse. Anche solo per se stessi.
E se invece parlassimo d’amore?
Non quello fatto di fiori e frasi dolci. Ma quello che accoglie, che non impone, che chiede “Come stai?” senza aspettarsi una risposta felice. I K-Drama, nel mostrarci cosa non dovrebbe essere un genitore, ci ricordano anche cosa potrebbe essere. Un rifugio. Un appoggio. Una presenza.
E forse è per questo che, anche se fanno male, queste storie ci restano dentro. Perché parlano di una speranza che non smette mai di esistere: quella di essere visti, ascoltati, accettati. Per davvero.
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