- L’unica cosa che ho imparato lottando contro la mia malattia infantile è che ci sono battaglie nella vita che non si possono vincere. Ma so anche che alla fine di ogni lotta, qualcosa si guadagna sempre. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Appartieni al luogo in cui scegli di restare. Possiamo trovare insieme una ragione. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Credo che non sia una questione di destino, ma di cuore. Ecco perché faccio fatica ad aprirmi con gli altri. Perché potrei sentirmi di nuovo come se fossi scappata. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Il vuoto lasciato dal mio dubbio ha cominciato a riempirsi di coraggio. E con quel coraggio, faccio un passo avanti verso una paura che conosco fin troppo bene. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Sono tutti partiti dal basso, quindi anche se cadono di nuovo, credono di poter risalire. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Per sapere amare, devi prima essere amato. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Perché la vita ogni volta che ti dà qualcosa, ti porta via qualcos’altro? – Our Unwritten Seoul (2025)
- La vita è come la poesia. Da lontano sembra un codice indecifrabile, ma se la guardi da vicino, con un cuore pronto a comprendere, solo allora ne cogli il significato. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Incontrerai persone buone. Magari ci vorrà del tempo, ma un giorno, incontrerai chi saprà leggerti per quello che sei. – Our Unwritten Seoul (2025)
- Ironicamente è così. Fingi di essere forte? Ti compatiscono. Sembri triste? Ti giudicano. Se nascondi la verità per evitarlo, diventa un tuo punto debole. Se non è una cosa importante, devi condividerla con nonchalance per evitare che lo diventi. – Gyeon Woo and Fairy (2025)
- Si potrebbe pensare che la sfortuna uccide la gente, no? Non è così. Ciò che uccide è essere insultati perché sfortunati, sentire genitori che urlano ai figli di non frequentarti o dover sopportare le battute di persone terribili che scommettono su quando morirai… Se una persona viene trattata come fosse morta, da quel momento inizia a svanire, a poco a poco. Sono le persone che uccidono. – Gyeon Woo and Fairy (2025)
- Le persone che fanno tanto i duri e parlano a voce alta come lui, in realtà sono i più codardi. – Squid Game (2025)
- In qualunque modo tu la guardi, la vita è semplicemente ingiusta. I cattivi fanno cose cattive, ma danno la colpa agli altri e continuano a vivere in pace. I buoni, invece, si colpevolizzano anche per le cose più piccole. – Squid Game (2025)
- Non è colpa tua. Abbiamo fatto una scelta. Abbiamo scelto da soli. – Squid Game (2025)
- Tante persone ottengono un piccolo successo, si montano la testa e poi si bruciano. – Oh My Ghost Clients (2025)
14 agosto 2025
La terra delle quotes - 204
Chiudersi per rinascere: la nuova frontiera del benessere in Corea del Sud
Ci sono giorni in cui la vita pesa. Giorni in cui anche il respiro sembra un gesto faticoso, e ci si ritrova a desiderare soltanto una cosa: silenzio. Non il silenzio vuoto, quello che fa rumore nell’anima, ma un silenzio che protegge. Uno spazio chiuso, lontano dal rumore del mondo, dove fermarsi, ascoltarsi, magari – per un istante – ricominciare.
È proprio da questo desiderio che nasce una delle esperienze più estreme e singolari della Corea del Sud: “Prison Inside Me”, un centro benessere che, al posto di trattamenti spa, offre una simulazione estrema della prigione. Ma qui, paradossalmente, ci si rinchiude per sentirsi liberi.
A Hongcheon, due ore da Seoul, si può prenotare una cella di cinque metri quadrati. Nessun orologio, nessuno smartphone, nessun contatto con l’esterno. Solo un piccolo tappetino da yoga, una tazza, un quaderno e la propria solitudine. Un’esperienza che, detta così, può sembrare claustrofobica, quasi punitiva. Eppure, per migliaia di sudcoreani, è un atto di cura. Un gesto radicale di ribellione contro una società che chiede troppo, sempre, a tutti. Qui si viene per ritrovare sé stessi. Per imparare a stare soli senza sentirsi soli. Per scappare dalla libertà apparente del mondo esterno che, troppo spesso, si rivela essere una gabbia invisibile.
Chi ha provato quest’esperienza racconta di come, paradossalmente, sia proprio quel tempo di “reclusione” a generare un senso profondo di liberazione. Il tempo si dilata, il corpo si ferma, la mente si ascolta. Ci si ritrova – in uno spazio vuoto – a fare i conti con ciò che è rimasto indietro nella corsa frenetica della vita: emozioni, paure, sogni. Un vero e proprio rituale moderno per riconnettersi con sé stessi.
Ma questa tendenza all’introspezione estrema non si ferma qui.
In Corea del Sud esistono anche i “Death Cafè”: caffetterie in cui non si parla di cappuccini e biscotti, ma di morte. Sì, proprio così. Qui si viene per simulare il proprio funerale, scrivere l’elogio funebre, sdraiarsi in una bara, e riflettere sulla propria esistenza. Può sembrare macabro, ma in realtà è uno dei gesti più radicali e poetici che si possano compiere: guardare la morte in faccia per tornare ad abbracciare la vita.
L’obiettivo? Prevenire il suicidio, che in Corea resta uno dei problemi sociali più gravi e silenziosi. Un tema troppo spesso taciuto, nonostante i numeri parlino chiaro: tra i paesi dell’OCSE, la Corea del Sud è tra quelli con il tasso più alto. E mentre il dibattito pubblico arranca, queste esperienze alternative diventano spazi sicuri per esprimere dolore, per fermarsi prima del baratro, per concedersi il tempo di rimettere insieme i pezzi.
Nel cuore di queste iniziative c’è un bisogno urgente: quello di essere ascoltati, capiti, accettati. Un bisogno che forse noi, da lontano, fatichiamo a comprendere nella sua interezza, ma che ci riguarda più di quanto pensiamo. Perché tutti, in fondo, cerchiamo un luogo in cui sentirci liberi di essere fragili.
E forse non serve arrivare in Corea per capirlo. Basta guardarsi dentro e avere il coraggio di ascoltarsi davvero.
Fonti
Quando i K-Drama smettono di essere un rifugio: il volto nascosto dello streaming globale
Negli ultimi anni, il mondo ha scoperto i K-Drama. Non solo come prodotti da consumare, ma come storie da vivere, episodi da attendere con trepidazione, emozioni che si incollano addosso. Eppure, in questo entusiasmo travolgente, qualcosa si è perso. Forse anche qualcosa di importante.
C’erano giorni in cui bastava un link su un forum, un gruppo di fansub appassionati e tanta voglia di scoprire un mondo diverso. Oggi, invece, guardare un drama può voler dire scegliere un abbonamento, rinunciare a un altro, accettare che non tutto sarà disponibile, e non tutto sarà comprensibile. Non perché manchino le storie, ma perché non ci è più concesso l’accesso come prima. È diventato un privilegio, e non più una passione condivisa.
I grandi colossi dello streaming hanno visto nella Corea un tesoro prezioso, e se lo sono tenuti stretto. Netflix, il primo a scommettere davvero sul potenziale delle produzioni coreane, ha trasformato una nicchia in un fenomeno globale. Con titoli come Love Alarm, Kingdom e poi l’inarrestabile Squid Game, ha scritto un nuovo capitolo dell’intrattenimento. E non si è fermato. Dietro, come in una partita a scacchi, sono arrivati anche Disney+ e Amazon, con strategie diverse ma ugualmente agguerrite.
È stato uno slancio potente, capace di portare attori coreani sulle copertine dei magazine internazionali, di far nascere eventi, fandom, tendenze. Il drama coreano è diventato una bandiera culturale. Eppure, proprio mentre il mondo applaudiva, in Corea qualcosa scricchiolava.
Le piattaforme locali, quelle che per prime hanno nutrito e fatto crescere questo ecosistema narrativo, oggi si trovano a rincorrere. Per resistere alla concorrenza, Tving e Wavve stanno cercando di unirsi. Insieme, vogliono diventare forti abbastanza da non essere travolti. Vogliono riportare a casa una parte di quello che è stato esportato troppo in fretta. Ma non è semplice. I costi sono alti, gli investimenti rischiosi, e il pubblico, abituato ormai alla velocità dello streaming globale, potrebbe non avere più la pazienza di aspettare.
Nel frattempo, Coupang Play prova un'altra strada: quella dei contenuti misti, unendo blockbuster hollywoodiani a serie coreane, per attrarre più pubblico possibile. E sullo sfondo, le nuove tecnologie avanzano: l’intelligenza artificiale aiuta a consigliare i titoli giusti, le esperienze diventano sempre più personalizzate, tutto viene reso fluido, automatico, quasi perfetto. Ma... è davvero quello che vogliamo?
Perché se c’è una cosa che ha reso i K-Drama così amati, non è solo la trama o la regia. È il modo in cui parlano all’anima. Le emozioni sincere, i legami profondi, le pause lente tra una scena e l’altra. Quel modo unico di raccontare che non urla, ma sussurra. Che non mostra tutto, ma lascia spazio per sentire.
E quando queste emozioni vengono tradotte male, o peggio ancora, quando non vengono proprio tradotte, allora si perde qualcosa. Si perde il tono gentile, si perdono le sfumature dei rapporti umani che in Corea passano anche da una semplice particella linguistica. Si perde il significato simbolico di un gioco, il peso culturale di un fiore nazionale trasformato in “green light, red light” per farlo suonare familiare a chi familiare non è.
Questa è la nuova realtà dello streaming. Dove la cultura deve adattarsi al mercato, e non il contrario. Dove molte produzioni restano inaccessibili per chi non sa l’inglese, e i fansub, che un tempo colmavano i vuoti con passione e accuratezza, oggi vengono spinti ai margini da regole, diritti e paure legali.
Guardare un drama, che per tanti era un rifugio quotidiano, è diventato per alcuni un lusso. E questo fa male. Fa male perché esclude. Perché divide. Perché priva del conforto proprio chi ne avrebbe più bisogno. Non è una questione di colpe, né di demonizzare il successo globale. È piuttosto una domanda aperta: è giusto non dare più alternative accessibili? È davvero progresso se lascia indietro chi non può permetterselo?
Nel frattempo, anche il cinema coreano, quello che aveva emozionato il mondo con Parasite, si trova in difficoltà. I registi lamentano una riduzione drastica degli spettatori nelle sale, la difficoltà di finanziare film nuovi, la corsa ai costi più bassi che sta portando altrove anche le grandi produzioni. Alcuni progetti vivono solo grazie a remake americani o co-produzioni internazionali. La voce originale si sta facendo flebile.
Eppure, non tutto è perduto. Perché ci sono ancora creatori che scelgono di raccontare storie diverse, piattaforme che sperimentano modelli più equi, e spettatori che resistono, che cercano, che vogliono capire. C’è ancora chi si emoziona guardando un drama senza sapere tutto, ma sentendo tutto.
I K-Drama continueranno a esistere, ma la direzione che prenderanno dipenderà anche da noi. Da quanto saremo disposti a pretendere rispetto per le culture che amiamo. Da quanto sapremo chiederci se stiamo assistendo a una vera apertura globale, o a una vetrina ben confezionata per chi può permettersela.
E da quanto riusciremo a proteggere quel piccolo spazio sicuro che avevamo trovato in una storia d’amore raccontata sottovoce, in un gesto gentile, in un episodio visto nel cuore della notte.
Fonti
- https://www.soapcentral.com/shows/from-niche-global-k-dramas-reshaped-streaming-wars
- https://www.ainvest.com/news/streaming-future-south-korean-domestic-platforms-poised-overtake-netflix-2505/
- https://www.linkedin.com/pulse/south-korea-over-top-tv-video-market-size-ai-growth-key-owc0c/
- https://pressinsider.com/lifestyle/streaming-giants-took-k-dramas-global-but-much-is-lost-in-translation/
- https://www.theguardian.com/film/2024/nov/04/korean-cinema-precarious-period-netflix-director-jang-joon-hwan