2 settembre 2025

Corea del Sud: guida alla beach etiquette coreana

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Lo so, siamo a settembre. L’estate volge al termine, le giornate si fanno più brevi e qualcuno ha già fatto il cambio di stagione. Ma il tempo per la spiaggia – per fortuna – non è ancora finito. E allora, complice il caldo persistente e quel pizzico di malinconia tipica di fine estate, ho deciso di portare sul blog un argomento che, sorprendentemente, non avevamo mai approfondito prima: la buona etichetta coreana su come vivere la spiaggia… da vero coreano.

Sì, perché anche quando si parla di mare e relax, la Corea ha il suo modo tutto particolare di approcciarsi al concetto di “estate”, fatto di norme implicite, differenze culturali e abitudini ben radicate. Non è solo una questione di costumi da bagno o teli da mare: è uno sguardo diverso sul corpo, sul tempo libero, sull’idea stessa di vacanza.

Cominciamo da un fatto che, per molti occidentali, può risultare spiazzante: in Corea non esiste il culto dell’abbronzatura. Anzi, il più delle volte si cerca in tutti i modi di evitarla. Cappelli, ombrelli, mascherine, occhiali da sole e persino maniche lunghe fanno parte dell’equipaggiamento standard anche nei giorni più afosi. La pelle chiara continua a essere considerata sinonimo di bellezza e delicatezza, e quindi ci si protegge. Sempre.

Allo stesso modo, i coreani non sono grandi fan del “mettersi in mostra” in spiaggia. A differenza di ciò che avviene in molte culture occidentali, dove il costume è spesso minimal e l’esibizione del corpo fa parte dell’esperienza estiva, in Corea si tende a coprire molto di più. Rash guard, pantaloncini lunghi, leggings da nuoto e t-shirt impermeabili sono la norma, anche per chi sa nuotare benissimo. E questo vale per uomini, donne, giovani e meno giovani. Non si tratta solo di pudore, ma anche di rispetto per gli altri e per sé stessi, e di una concezione del corpo più privata e protetta.

Un’altra cosa da sapere è che le spiagge coreane, soprattutto nei mesi centrali dell’estate, possono essere incredibilmente affollate. Le zone più famose, come Haeundae a Busan o Gwangalli, attirano turisti da tutto il paese. Ecco perché è fondamentale rispettare lo spazio altrui, non invadere le aree comuni e mantenere sempre un comportamento educato. Non troverete musica a tutto volume, tuffi spericolati o giochi rumorosi in acqua. Tutto è più silenzioso, controllato, e in qualche modo… composto.

Anche le regole sulle piscine pubbliche meritano una menzione. In molte strutture è obbligatorio indossare la cuffia, fare una doccia prima di entrare in acqua e indossare un costume adatto. In certi casi, è richiesto anche un certificato medico recente. E se pensate di poter sguazzare liberamente come in un parco acquatico occidentale… beh, forse è meglio rivedere le aspettative: anche qui, la parola d’ordine è moderazione.

Ma allora, come si rilassano davvero i coreani in spiaggia? La risposta è semplice: all’ombra. Letteralmente. Le spiagge sono punteggiate di grandi tende colorate, ombrelloni fittissimi e materassini gonfiabili su cui si riposa, si mangia, si conversa. Più che “fare il bagno”, spesso ci si gode la vista del mare stando seduti o sdraiati, bevendo qualcosa di fresco o assaporando uno dei tanti street food estivi disponibili sul posto. Per molti, il mare è una pausa dalla routine, non un’occasione per sfoggiare il fisico o tuffarsi per ore.

E parlando di cibo, va detto che picnic e delivery sono parte integrante dell’esperienza: non è raro vedere famiglie intere che si organizzano con pasti completi direttamente sotto l’ombrellone. I rifiuti vengono poi raccolti con ordine, lasciando la spiaggia pulita per chi verrà dopo.

Infine, c’è un aspetto culturale che mi ha colpita in modo particolare. In Corea, andare al mare non è solo un momento per sé stessi, ma spesso un’occasione per condividere. Si va con la famiglia, con gli amici, con i colleghi. Si scattano foto, si ride, si mangia insieme. C’è un forte senso di comunità, anche nei momenti di relax. E forse è proprio questo a rendere così diverso – e affascinante – il modo coreano di vivere la spiaggia.

Perciò, che tu stia ancora progettando una gita fuori porta o semplicemente stia già contando i giorni all’estate prossima, spero che questo piccolo viaggio tra le onde coreane ti abbia incuriosito tanto quanto ha incuriosito me. Perché, in fondo, ogni cultura ha un suo modo unico di avvicinarsi alla leggerezza. E conoscerlo ci insegna qualcosa in più non solo sugli altri… ma anche su noi stessi.


Fonti

  1. https://koreangirlexplains.com/swimming-pool-beach-etiquette-in-korea
  2. https://frenchmaninkorea.blogspot.com/2019/03/introduction-to-korean-beach-culture.html
  3. https://gwangjunewsgic.com/community/expat-living/swimming-in-korea/

1 settembre 2025

Quando l'amore ferisce: la genitorialità tossica nei K-Drama

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Ci sono temi che ritornano, silenziosi ma potenti, in molte delle storie che amiamo. Temi che ci colpiscono perché sanno parlare alla parte più nascosta di noi. La genitorialità tossica è uno di questi. Nei K-Drama, è come un’eco sommessa che risuona dietro le trame romantiche, gli intrecci scolastici e le battaglie interiori dei personaggi. Non sempre è protagonista, ma spesso è lì. Invisibile, ma presente. Ed è proprio questa presenza costante a renderla tanto rilevante.

Le serie coreane non hanno paura di mettere in scena il lato più oscuro dell’amore genitoriale. Mostrano famiglie apparentemente perfette che crollano sotto il peso delle aspettative, genitori che si trasformano in carnefici emotivi, figli che non possono essere altro che proiezioni di un sogno che non hanno scelto. È un ritratto duro, a volte difficile da guardare. Ma necessario. Perché attraverso quelle storie, molti spettatori ritrovano frammenti della propria.

Il volto severo dell'autorità

L’immagine del genitore autoritario è una delle più frequenti. Un volto serio, parole fredde, sguardi che non ammettono replica. Nei K-Drama, questo tipo di genitorialità assume spesso tratti estremi: padri e madri che controllano ogni aspetto della vita dei figli, imponendo scelte universitarie, carriere e perfino relazioni. I desideri dei figli? Relegati all’irrilevanza.

SKY Castle è il manifesto di questa visione. I genitori, ossessionati dal successo accademico, trasformano i loro figli in pedine di un gioco crudele, dove l’affetto è condizionato dai risultati e l’umanità sacrificata sull’altare dell’eccellenza. È un mondo che non lascia spazio all’errore. Dove un figlio che crolla non viene abbracciato, ma rimproverato. E la frattura che si crea non è solo familiare: è esistenziale.

Quando l’amore diventa ferita

Al di là del controllo, c’è anche qualcosa di più sottile, ma altrettanto devastante: l’abuso emotivo. I genitori, anziché proteggere, possono diventare la prima fonte di dolore. Nei K-Drama questo viene raccontato con coraggio. Madri e padri che gridano, umiliano, manipolano. Che mettono al primo posto se stessi, lasciando i figli a raccogliere i cocci di una fragilità che non è mai stata ascoltata.

Ci sono anche i genitori assenti, quelli che non ci sono proprio. Né fisicamente, né emotivamente. The Glory ne è un esempio incisivo: le famiglie dei bulli non solo chiudono gli occhi di fronte alla violenza dei propri figli, ma sono talvolta complici, quando non del tutto disinteressate. E la mancanza di una guida diventa lo specchio di una società che preferisce voltarsi dall’altra parte.

In Something in the Rain, invece, l’attenzione si sposta sul controllo affettivo: una madre che disapprova la relazione della figlia non per il suo bene, ma per mantenere il controllo sulla sua vita. E allora l’amore, quello vero, deve combattere contro le catene invisibili dell’approvazione familiare.

E poi c’è chi, come in Come and Hug Me, cresce con un padre che è l’incarnazione del male: un serial killer. Una realtà estrema che però simbolizza una verità più comune di quanto si pensi – che il dolore inflitto da chi dovrebbe amarci è il più difficile da superare.

La maschera del genitore perfetto

Toxic Parents (2023) racconta una storia diversa, ma complementare: quella di una madre che affronta il dolore più grande, la morte della figlia, e che indaga sul passato alla ricerca della verità. Ma ciò che emerge non è solo un mistero da risolvere: è il peso delle aspettative che, anche senza violenza, possono spezzare. Il genitore tossico, in questo caso, non è solo quello che urla. È anche quello che pretende in silenzio, che guarda con delusione, che non accetta la fragilità.

Riflessioni che lasciano il segno

Molti spettatori, guardando questi drammi, sentono qualcosa muoversi dentro. Perché è facile riconoscersi. Forse non del tutto. Ma in un gesto, in una frase, in un pianto soffocato… c’è qualcosa che suona familiare. I K-Drama riescono a toccare corde intime, quelle che spesso restano mute per anni. Ed è in questo che risiede la loro forza.

Queste storie non solo commuovono, ma accendono riflessioni. Su cosa significhi essere genitori. Su quanto possa costare essere figli. E su come sia possibile, anche dopo tanta oscurità, provare a riscrivere il proprio destino.

Perché non tutti i K-Drama finiscono con una redenzione. Non tutti offrono un lieto fine. Ma molti mostrano la resilienza. La capacità di reagire, di sopravvivere, di rinascere. Anche da soli. Anche senza scuse. Anche solo per se stessi.

E se invece parlassimo d’amore?

Non quello fatto di fiori e frasi dolci. Ma quello che accoglie, che non impone, che chiede “Come stai?” senza aspettarsi una risposta felice. I K-Drama, nel mostrarci cosa non dovrebbe essere un genitore, ci ricordano anche cosa potrebbe essere. Un rifugio. Un appoggio. Una presenza.

E forse è per questo che, anche se fanno male, queste storie ci restano dentro. Perché parlano di una speranza che non smette mai di esistere: quella di essere visti, ascoltati, accettati. Per davvero.

Fonti

  1. https://www.researchgate.net/publication/381182491_Authoritarian_Parenting_Practices_on_Korean_Drama_Reception_Analysis_on_SKY_Castle
  2. https://www.idntimes.com/korea/kdrama/7-toxic-parenting-kim-ok-hui-di-drakor-our-unwritten-seoul-c1c2-01-dfccf-m6t44f

17 agosto 2025

Qualche settimana di pausa per ricaricare le batterie

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Buonasera a tutti! Oggi sono qui per informarvi che il blog si prenderà una piccola pausa: dal 18 al 31 agosto non verranno pubblicati nuovi post, ma tornerò alla normale programmazione a partire dal 1° settembre.

Negli ultimi tempi ho finalmente trovato il coraggio di pubblicare tutti quei vecchi post che da troppo tempo “facevano la muffa” in bozza. Nel frattempo, ho anche scritto qualcosa di nuovo. Forse l’avrete notato: i contenuti un po’ datati si sono intrecciati con tematiche più attuali, e so che questo potrebbe aver creato un po’ di disorientamento. Ma ho scelto consapevolmente di farlo, perché non volevo più lasciare nulla in sospeso, se non i post nuovi su cui sto lavorando con calma, nei miei ritagli di tempo.

Può sembrare che io dia più importanza alla quantità che alla qualità, ma in realtà è esattamente il contrario: se non avessi avuto quei vecchi post già pronti, gli aggiornamenti sarebbero stati molto più sporadici. Scrivere un nuovo contenuto, per me, richiede tempo e cura – in media dai due ai tre giorni – perché voglio che ogni parola mi rappresenti davvero, e che il risultato finale mi soddisfi pienamente.

Ora vi saluto… ci ritroviamo qui, a settembre!

La mia estate in drama 2025

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Un tempo, ricordo molto bene, mi piaceva condividere con voi — come in una chiacchierata al bar tra amiche — ciò che avevo intenzione di guardare durante alcuni momenti specifici dell’anno nel mondo di dramaland. Oggi torno un po’ alle origini, per puro senso di nostalgia. Vi propongo una serie di titoli che hanno catturato la mia attenzione e vi spiegherò perché ho deciso di vederli rispetto a tanti altri. Ma attenzione: non prendete esempio da me nella scelta dei drama! Sono diventata incredibilmente selettiva, e non è detto che ciò che troverete in questo articolo possa anche solo minimamente rispecchiare i vostri gusti. Scrivo queste righe con largo anticipo rispetto alla data di pubblicazione, quindi se notate delle dissonanze temporali… ecco spiegato il motivo. Buona lettura!

> S Line (2025)
Perché l’ho scelto? La trama è semplicemente unica. Improvvisamente, delle linee rosse appaiono sopra la testa delle persone. La particolarità? Queste linee collegano individui che hanno avuto rapporti intimi tra loro, rivelando segreti e aspetti imbarazzanti che molti vorrebbero tenere nascosti. Non so di che genere sia, non ho ancora visto poster né scoperto il cast. Ma una trama così inusuale, diversa, unica, è già di per sé un motivo sufficiente per incuriosirmi. Parla di un tema come la sessualità — di cui abbiamo già discusso più volte qui sul blog — che in Corea è ancora profondamente stigmatizzato e nascosto. Sono davvero curiosa di scoprire con quale approccio verrà trattato. Sarà un racconto progressista, al passo con i tempi? Oppure assisteremo all’ennesimo punto di vista conservatore, come spesso accade nella Corea che conosciamo oggi?

> The Defects (conosciuto anche come Child Shopping)
Perché l’ho scelto? La sinossi mi ha lasciata senza fiato. Abbiamo una direttrice di una fondazione benefica, una dottoressa molto stimata… ma con un lato oscuro. E fin qui, nulla di nuovo. Il punto è che il suo lato oscuro consiste nell’essere a capo di un’organizzazione che gestisce adozioni illegali. Se i bambini adottati non soddisfano le aspettative dei genitori adottivi, l’organizzazione offre un rimborso. E quando un bambino viene restituito... viene ucciso, per cancellare ogni prova del crimine. Ma uno di loro è sopravvissuto. E cerca vendetta. Non è la vendetta ad avermi colpita. Non è nemmeno il mistero. È il traffico illegale di esseri umani, di bambini trattati come pacchi o trofei da famiglie facoltose in cerca della perfezione. È questo il motivo che mi ha fatto dire: sì, questo lo devo guardare. Il tema delle adozioni in Corea, tra l’altro, ho deciso di affrontarlo solo poco tempo fa sul blog, era un tema che non avevo mai affrontato e questo drama mi ha dato lo spunto perfetto per cominciare a farlo.

> My Girlfriend Is a Real Man (2025)
Perché l'ho scelto? Dal titolo potrebbe sembrare la solita commedia romantica, ma c’è un gancio narrativo che mi ha fatto esclamare: “Oh mio Dio, che idea assurda e unica devo guardarlo!” A prima vista la trama non ha nulla di rivoluzionario, anzi: c’è persino un triangolo amoroso, espediente narrativo che ho iniziato a detestare anni fa (per fortuna oggi se ne vedono molti meno rispetto al passato). Ma ascoltate bene: i protagonisti sono due studenti universitari che stanno insieme, finché… la ragazza si trasforma improvvisamente in un uomo! Ed è qui che parte il vero spasso: lei (ora lui) lo confessa al fidanzato, e insieme decidono di aspettare il momento in cui tornerà nella sua versione femminile per continuare la relazione. Nel frattempo, lui la aiuta a mimetizzarsi nella nuova identità maschile, insegnandole come comportarsi da uomo per non destare sospetti. Fantasy, comedy e romance tutto insieme: esattamente quello che mi serve per staccare il cervello e godermi lo spettacolo. Non credo sarà una serie da capolavoro… ma who cares? Secondo me mi farò delle gran risate!

> Mary Kills People (2025)
Perchè l'ho scelto? Qui sarò onesta: la presenza dei due attori principali ha avuto un peso determinante nella mia decisione di inserire questo drama nella lista. Ad oggi, però, è l’unico su cui nutro ancora qualche dubbio. Più che la trama in sé, ciò che mi ha colpita è stato il gancio narrativo: un medico che asseconda il desiderio di morte di pazienti terminali, e un detective – anch’egli segretamente malato – che comincia a seguirne le tracce. Trovo interessante il binomio medico-morte, soprattutto se riferito a chi è già destinato a morire. La vera domanda è: questo drama riuscirà ad affrontare un tema così delicato con profondità morale, oppure si rivelerà uno dei soliti thriller un po’ noir, affascinanti in superficie ma poveri di contenuto?

> The Tyrant's Chef (2025)
Perché lo scelto? Datemi un fantasy, datemi un po’ di romance, datemi un drama storico con viaggi nel tempo… e io sarò felice. L’avrei inserito in lista a prescindere, perché i salti temporali e il binomio passato-futuro continuano ad esercitare su di me un fascino irresistibile, anche dopo anni. Quello che però mi ha convinta del tutto sono stati due elementi: chi torna indietro è una chef di alto livello e dovrà cucinare per il re dell’epoca Joseon. Non un re qualunque, ma un tiranno descritto come crudele… eppure con uno dei palati più raffinati del regno. Sarà una favola piena di cliché? Probabile. So già che la cucina aprirà un piccolo spiraglio di bontà nel cuore del re tiranno. Ma ragazzi… non vedo comunque l’ora di scoprire come succederà!

> Twelve (2025)
Perché l'ho scelto? Anche qui tocchiamo un tasto dolente: amo i fantasy in generale, ma quando ci sono esseri sovrannaturali e una battaglia epica tra bene e male per salvare l’umanità… io non resisto. Lo so, è una trama già vista e rivista, ma cosa ci posso fare se sono proprio queste storie a intrattenermi di più? La trama è quanto di più classico si possa immaginare: dodici angeli che, in passato, hanno sigillato le forze del male grazie al loro sacrificio e che ora vivono nascosti tra gli umani. Ma gli spiriti maligni si risvegliano e minacciano la pace, costringendo un nuovo team di angeli a tornare in campo per difendere l’umanità. Sì, è evidente: non c’è nulla di davvero originale o innovativo rispetto ai soliti fantasy distopici. Eppure, mi ha incuriosita il mix tra fantasy, angeli, mitologia zodiacale… e soprattutto il cast scelto. In particolare, sono molto — ma davvero MOLTO — curiosa di vedere Park Hyung‑sik nel ruolo del villain principale. Con quel suo faccino così pulito e giovane… dovrà essere davvero convincente. Vedremo!

Squid Game 3: l’umanità nuda e crudele, ancora una volta davanti allo specchio

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Ci sono drammi che ti intrattengono. E poi ci sono quelli che ti scuotono. “Squid Game 3” non fa sconti. Non cerca di piacere. Ti guarda in faccia e ti chiede: “Tu da che parte stai?”

Ho finito la terza stagione con il cuore in subbuglio. E non perché non mi aspettassi crudeltà, violenza o tradimenti. Ma perché questa volta, a fare più rumore, non è stato il sangue. È stato il silenzio delle scelte. La freddezza con cui si passa sopra una vita per sopravvivere. L’apatia che nasce dalla disperazione. Il dolore che non fa più notizia.


La storia riparte da lì, da dove ci aveva lasciati: Gi-hun, i capelli rossi, il biglietto. Ma qualcosa è cambiato. Lui è cambiato. Non è più l’uomo smarrito che abbiamo conosciuto nella prima stagione. Ora è un uomo con uno scopo, una rabbia che lo brucia dentro e una certezza incrollabile: deve distruggere quel gioco. O forse… diventarne parte, per capirlo fino in fondo.

Ma ciò che questa terza stagione ci racconta, al di là del filo narrativo, è una verità scomoda e tagliente: non siamo migliori dei personaggi che giudichiamo. Perché anche noi, messi nelle stesse condizioni, potremmo fare scelte simili. O forse peggiori.


Il primo gioco — che a un primo sguardo sembrerebbe una versione assurda di nascondino — ti mette subito davanti al paradosso: per vivere, devi uccidere. Letteralmente. I “Cercatori” devono trovare almeno un “Nascosto” e assassinarlo. Se falliscono, saranno loro a morire. Non esiste alternativa. Non esiste misericordia.

Ed è qui che “Squid Game 3” comincia a parlare davvero. Non del gioco. Ma di noi.

Quante volte, nella vita reale, le persone vengono divise in squadre senza nemmeno rendersene conto? Hanno un colore diverso, un conto in banca diverso, un'origine diversa. E in quel labirinto sociale, o trovi un modo per farti valere… o vieni spazzato via.


Ogni episodio è uno specchio. Ogni gioco è una metafora. Ogni morte è un grido taciuto. E più si va avanti, più diventa chiaro che questa stagione non vuole solo scioccare, ma farci pensare. Non alle regole del gioco, ma alle regole della vita.

L’inganno, la fiducia tradita, le alleanze che si spezzano, gli ideali che crollano uno dopo l’altro: tutto ciò ci viene mostrato senza filtro. Ma non per sadismo. Piuttosto per chiederci: “Dov’eri tu, quando hai smesso di credere nell’umanità?”


Il momento più potente di tutta la stagione, per me, non è stato un’esplosione o un plot twist. È stato il cameo finale. Breve. Silenzioso. Sconvolgente.

Chi ha seguito l’intera serie sa bene di chi si tratta. Ma al di là della sorpresa narrativa, quel cameo è un monito: nessuno è mai veramente uscito dal gioco. Neanche chi ha vinto. Neanche chi ha ucciso. Neanche chi ha scelto di dimenticare.

E così la stagione si chiude come era iniziata: con un uomo solo, Gi-hun, davanti a una scelta impossibile. Morire… o diventare parte del sistema che voleva distruggere?

E noi? Noi spettatori, dove siamo? Davanti allo schermo, a sperare che scelga “il bene”? A consolarci con l’illusione che in fondo, l’eroe ce la farà? Ma siamo davvero così diversi da chi guarda un altro cadere… e tira un sospiro di sollievo perché “questa volta non è toccato a me”?


L’umanità, messa alla prova, non è sempre buona.

La sopravvivenza tira fuori il peggio e il meglio, a seconda di cosa abbiamo dentro.

A volte, l’unica vera scelta libera che abbiamo è decidere chi vogliamo essere, anche se tutto intorno ci spinge a diventare qualcun altro.

“Squid Game 3” non ci regala una morale. Ci regala uno specchio. E ci costringe a guardarci dentro, anche quando vorremmo solo chiudere gli occhi.


Fonti

  1. https://www.idntimes.com/korea/kdrama/daftar-lengkap-ost-squid-game-3-00-dt824-grmd5r
  2. https://www.idntimes.com/korea/kdrama/sutradara-ungkap-awalnya-gi-hun-tidak-mati-di-squid-game-3-c1c2-01-mlsfx-xcht51
  3. https://www.comingsoon.it/serietv/news/squid-game-3-cosa-significa-quel-cameo-finale-tutti-i-retroscena-e-le/n203783/
  4. https://www.netflix.com/tudum/articles/squid-game-season-3-ending-explained

16 agosto 2025

Sfondi per cellulare - Gyeon Woo and Fairy

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Lo sapete, quando un drama mi ossessiona diventa parte di me per giorni. Ascolto in loop l’OST, riguardo le foto, rivivo i momenti salienti nella mente... e ovviamente cambio anche la lockscreen del telefono. Se avete amato Gyeon Woo and Fairy quanto me, allora sapete esattamente di cosa parlo. Ecco, allora, una selezione di lockscreen creati da me. Qui sotto potete vederli in anteprima: se qualcosa vi colpisce, vi basta cliccare sull’immagine per salvarla direttamente nella vostra galleria, con un semplice click. Buona ossessione a tutti!





Squid Game 3: il ritorno dei giochi mortali tra infanzia e crudeltà

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Ci sono giochi che ci insegnano a stare al mondo. Altri che ce lo tolgono. La terza stagione di Squid Game torna a premere il dito sulla ferita, ricordandoci che a volte le regole più semplici nascondono il lato più spietato dell’essere umano. E lo fa con tre nuovi giochi che, almeno all’apparenza, richiamano l’innocenza dell’infanzia. Ma non lasciatevi ingannare. In questa arena, ogni mossa può essere l’ultima.


Nascondino: quando l'infanzia diventa una trappola

All’inizio sembra tutto innocuo. Una stanza d’attesa, un mucchio di grandi gomme da masticare colorate. Ma è qui che inizia il primo gioco, Hide and Seek, ed è qui che si compie la prima scelta fatale.

Chi prende una gomma blu entra nella squadra di chi deve nascondersi, chi ne prende una rossa diventa un Cercatore. E da quel momento non si torna più indietro. Il labirinto in cui vengono lanciati i giocatori non è solo disorientante: è una caccia. Chi si nasconde ha mezz’ora per scappare o trovare un rifugio. I Cercatori hanno lo stesso tempo per scovare almeno una persona della squadra avversaria e ucciderla. Altrimenti, saranno loro a morire.

Uno scambio di ruoli è possibile, ma solo se entrambe le parti sono d’accordo. Un ultimo spiraglio di umanità prima del caos. Le armi sono simboliche, eppure letali: chi si nasconde riceve chiavi per le porte del labirinto, chi cerca impugna coltelli “decorativi”. L’atmosfera è surreale. Il gioco più innocente di tutti si trasforma nel più crudele: non si vince, si sopravvive.

Jump Rope: salta o muori

Se credevamo di aver visto tutto con il Ponte di vetro, ci sbagliavamo. Jump Rope è il secondo round, e la posta in gioco si alza insieme al ritmo del salto. Young-hee — sì, proprio lei, la bambola terrificante della prima stagione — torna con un alleato, Chul-su. Insieme azionano una gigantesca corda metallica che ruota senza sosta su una passerella. Lo scopo? Attraversarla. Tutto qui. Non ci sono strategie da calcolare, né direzioni da scegliere. C’è solo una via. Una passerella e un’enorme corda pronta a scagliarti nel vuoto. Il tempo è limitato: 20 minuti. E ogni secondo passato su quel ponte è un salto nel buio, in tutti i sensi.

Sky Squid Game: la vetta della disperazione

Ogni stagione ha la sua fine. Ma in Squid Game 3, la fine si chiama Sky Squid Game, ed è l’apice del terrore. Tre torri. Tre simboli. Cerchio, triangolo, quadrato. I giocatori sono piazzati in cima, sospesi tra il cielo e la fine. Per passare da una torre all’altra bisogna spingere giù almeno un concorrente. Non è una scelta. È un obbligo. Nei round successivi, si attiva un pulsante sul pavimento. Parte un conto alla rovescia. Se allo scadere nessuno viene eliminato, muoiono tutti. Nessuna eccezione. Qui non c’è spazio per esitazioni, né per nobiltà d’animo. Eppure, proprio in questo scenario apocalittico, Gi-hun deve decidere chi vuole essere.
Proteggere se stesso… o restare umano. L’ultimo round non è solo una prova di sopravvivenza. È una prova di coscienza. E forse, anche di redenzione.

Tre giochi, un’unica verità

Se c’è qualcosa che Squid Game ci insegna, è che nessun gioco è davvero solo un gioco.
C’è sempre un prezzo. Un confine da superare. Una maschera da indossare o da gettare via.
E stagione dopo stagione, questo confine diventa più sottile, più sporco, più personale. La terza stagione non è solo l’evoluzione del format. È un’escalation di crudeltà mascherata da innocenza, una riflessione inquietante su chi siamo quando nessuno ci guarda… e quando tutto il mondo ci guarda, ma non ci ascolta. In un mondo dove si gioca per vivere — e si muore per intrattenere — forse l’unico vero premio è conservare un briciolo di coscienza. E tu? Che squadra avresti scelto?


Fonti:
https://screenrant.com/squid-game-season-3-all-games-explained/
https://www.netflix.com/tudum/articles/squid-game-games-explained

Our Unwritten Seoul life lesson - Gemelle, ma distanti: il viaggio emotivo di Mi Ji e Mi Rae

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Our Unwritten Seoul racconta il viaggio di scoperta e guarigione delle gemelle Yu Mi Rae e Yu Mi Ji, entrambe interpretate da Park Bo Young. Attraverso la loro storia, il drama affronta con delicatezza ma realismo numerosi aspetti legati alla salute mentale: dall’insicurezza al trauma, dalla depressione all’ansia, mostrando quanto sia difficile – ma necessario – imparare ad accettare le proprie ferite.

Il senso di inadeguatezza è uno dei fili conduttori del racconto. Yu Mi Ji si sente spesso inferiore, come se non fosse all’altezza della sorella Yu Mi Rae. Il confronto costante tra loro pesa sul suo cuore e sul suo sguardo su di sé. Mi Ji è tormentata dall’insicurezza per il proprio percorso di studi, interrotto, e per la disoccupazione che l'ha tenuta ferma per anni.

Allo stesso tempo, anche Yu Mi Rae e Lee Ho Su (interpretato da Jinyoung dei GOT7) lottano con un diverso tipo di fragilità: la loro salute fisica, incerta e fonte di preoccupazioni quotidiane.

L’ansia accompagna Mi Rae come un’ombra. Segnata da un passato doloroso, vive costantemente con il timore dei giudizi, delle voci maligne che si diffondono su di lei, alimentando l’insicurezza. Mi Ji, invece, scivola lentamente nella depressione. Dopo un infortunio alla gamba, decide di chiudersi in casa, isolandosi da tutto e da tutti. Nel frattempo, la pressione che grava su Mi Rae diventa insostenibile, tanto da farle maturare pensieri autodistruttivi.

Alcuni eventi scatenano in Mi Ji veri e propri attacchi di panico, legati a ricordi traumatici del passato che riaffiorano improvvisamente e senza pietà.

Anche i personaggi maschili portano il peso delle proprie ferite emotive. Lee Ho Su e Han Se Jin (Ryu Kyung Soo) condividono la stessa paura: quella dell’abbandono. Vivono nell’angoscia costante di non essere abbastanza, di essere lasciati indietro.

E poi c’è il vuoto lasciato dal padre. Yu Mi Ji e Yu Mi Rae desiderano, nel profondo, una figura paterna che possa finalmente dare loro sicurezza, affetto, attenzione. Una presenza stabile, che non hanno mai avuto davvero.

Our Unwritten Seoul dipinge con autenticità il tumulto interiore dei suoi personaggi. Ogni episodio diventa un’occasione per riflettere, per comprendere, per sentirsi meno soli. Un invito potente a guardare con empatia chi lotta in silenzio, ogni giorno. Queste sono alcune riflessioni che ho sentito il bisogno di scrivere durante la visione del drama. Buona lettura. 

15 agosto 2025

La terra delle quotes - 205

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  1. Ho letto da qualche parte che è proprio il mondo che ti dice che l’impegno non tradisce mai a farci soffrire di più. – Oh My Ghost Clients (2025)
  2. Quando le persone sono con le spalle al muro, non riescono a ragionare. Sai perché? Perché non ne hanno la forza mentale. Ti sembra che sia tutta colpa tua, pensi che vivrai così per sempre. E col tempo, ti convinci che morire sarebbe meglio. Ma è solo tutto nella tua testa. – Oh My Ghost Clients (2025)
  3. Quando pensi che potresti morire, se ti lasci semplicemente trasportare dalla vita, in qualche modo trovi una via d’uscita. – Oh My Ghost Clients (2025)
  4. Le tue conquiste sono parte di te. Hai solo ricevuto un “no, ecco. Non dubitare del tuo potenziale. – Our Unwritten Seoul (2025) 
  5. Oggi va meglio di ieri. Ed è sui nostri oggi che costruiamo la promessa di un domani. – Our Unwritten Seoul (2025)
  6. Fai ciò per cui sei nata… bussare alla porta del cuore altrui. “Sono qui. Se apri, mi trovi fuori”. – Our Unwritten Seoul (2025)
  7. Se sono solo mi limito ad avere paura. Se sono in compagnia… faccio soffrire anche gli altri. – Our Unwritten Seoul (2025)
  8. In amore non si vince ne si perde. In amore si resta uniti fino alla fine, anche quando si perde. Amare è stare insieme nonostante le centinaia, le migliaia di sconfitte. – Our Unwritten Seoul (2025)
  9. La promessa di un futuro non nasce dalla speranza, ma dalla determinazione.  Dietro di me, ho un mare di rimpianti. Davanti a me, ho un mare di paura. Abbiamo deciso di affrontare questo ignoto percorso insieme. Anche se non ci aspetta un lieto fine, cammineremo fianco a fianco sino alla fine. – Our Unwritten Seoul (2025)
  10. Appena inizi a prenderci la mano, il capitolo che conosci termina… e ne inizia uno sconosciuto. Alcuni preferisco saltare all’ultima pagina, ma io, dalla fine, mi sono sempre tenuta lontana. Amavo i protagonisti dei fumetti e non aprivo l’ultimo volume. Non battevo un boss finale così che il videogioco non si concludesse. Forse perché, in cuor mio, lo sapevo già, per quanto avessi resistito, la fine sarebbe arrivata lo stesso. – Our Unwritten Seoul (2025)
  11. Per quanto dura sia la giornata ridere un secondo può fartela superare. Quindi non lasciar andare la persona che ti fa ridere.  – Our Unwritten Seoul (2025)
  12. Possiamo preoccuparci proprio perché siamo vivi.– Our Unwritten Seoul (2025)
  13. La laurea è “la fine”? La gente si laurea per avere più possibilità di lavorare. Hai detto che lavorerai. Ce l’hai fatta fino alla fine.– Our Unwritten Seoul (2025)
  14. Non resti sull’autobus fino all’ultima fermata. Scendi quando arriva la tua. E chi dice che la fine è importante? E’ l’inizio che importa.– Our Unwritten Seoul (2025)
  15. Le persone vanno sempre avanti. Potresti inciampare e cadere o fermarti un attimo, ma non torni mai indietro. Anche se non te ne accorgi, ti muovi sempre in avanti.– Our Unwritten Seoul (2025)

Cose che i K-Drama ci hanno fatto credere (ma non sono vere)

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Ci sono bugie dolci, che accettiamo volentieri. Come quelle che si nascondono sotto le luci soffuse dei drama coreani, mentre ci illudono che la vita lì sia più semplice, più bella, più romantica. Ma la verità, lo sappiamo bene, non è sempre quella che passa dallo schermo. E questo articolo nasce proprio da qui: da quella distanza sottile e ingannevole tra finzione e realtà, tra ciò che i K-drama ci fanno credere e ciò che, nella Corea del Sud reale, è molto diverso.

Non si tratta di smascherare la magia – quella la teniamo stretta – ma di guardare con rispetto e curiosità a un Paese che spesso conosciamo solo attraverso gli occhi di una telecamera. E se imparassimo a conoscere anche l’altro lato? Quello meno luccicante, ma più autentico?

“Honjok”: la solitudine scelta

I drama ci mostrano spesso gruppi affiatati, famiglie invadenti, amici onnipresenti, relazioni sentimentali sempre in fermento. Ma esiste una fetta crescente di popolazione sudcoreana che ha scelto l’opposto: vivere da sola. Il fenomeno si chiama honjok, e descrive uno stile di vita in cui si decide di mangiare, viaggiare, vivere in totale solitudine. Non è tristezza, ma indipendenza. In Corea, questo è diventato quasi un movimento culturale: ci si emancipa dal dovere di socializzare e si abbraccia una quotidianità fatta di libertà personale.

Eppure, i drama ci restituiscono un’altra immagine. L’essere soli è spesso trattato come qualcosa da curare, da risolvere, da evitare. Ma nella realtà, l’honjok è sempre più accettato, e riflette un cambiamento sociale profondo, legato allo stress urbano, all’ipercompetitività e al desiderio di proteggere la propria salute mentale.

L’amore non è sempre a portata di OST

Nei K-drama l’amore è ovunque. Ti urta per strada, ti salva la vita sotto la pioggia, ti aspetta al varco della metropolitana. Eppure, la realtà è molto più sfumata. In Corea del Sud, i tassi di natalità sono tra i più bassi al mondo e sempre più giovani evitano relazioni stabili, matrimonio o figli. Le motivazioni sono tante: dalla pressione economica alla mancanza di tempo, dalla competizione lavorativa alla disillusione nei confronti delle relazioni. Il dating non è sempre rose e petali: a volte è stanchezza, a volte è proprio assenza.

I drama ci insegnano che prima o poi lui o lei arriverà. Ma molti giovani coreani non aspettano nessuno. Hanno scelto di vivere per sé stessi. E se l’amore arriverà, bene. Se non arriverà… va bene lo stesso.

La cultura dell’apparenza

Uno dei miti più diffusi è quello secondo cui tutti i coreani hanno la pelle perfetta. Nei drama non esiste acne, rossore, occhiaia che tenga. Ma la verità è che la pelle perfetta non è un dono genetico, bensì il frutto di una delle industrie cosmetiche più avanzate, competitive e pervasive del mondo.

In realtà, lo stress, l’inquinamento e la pressione sociale contribuiscono a una cura quasi ossessiva dell’aspetto fisico. I drama lo nascondono, ma è impossibile ignorare quanto il culto della bellezza impatti sul quotidiano: chirurgia estetica normalizzata, prodotti di skincare ovunque, standard estetici rigidi e idealizzati. Ciò che appare naturale è spesso costruito con cura estrema.

Bere non è romantico, è un problema sociale

Le scene di sbronze nei drama hanno quasi sempre un sottofondo comico o romantico. Ma nella vita reale, il consumo eccessivo di alcol è una delle problematiche più gravi in Corea del Sud. Si beve molto, e spesso per motivi legati al lavoro, alla pressione sociale o alla necessità di scaricare lo stress. I dati parlano chiaro: alcolismo, dipendenza e problemi di salute legati all’abuso non sono rari, e raramente vengono affrontati nei K-drama con la stessa leggerezza con cui vengono mostrati.

Bere con i colleghi, bere per dimenticare, bere per festeggiare: nei drama tutto ha una cornice brillante. Nella realtà, però, c’è anche la fatica, il senso di colpa, la dipendenza. Non è una questione da ridere o da innamorarsi sotto un lampione.

Seul non è una città piccola e i drama non sono documentari

Un altro stereotipo che si insinua nei drama è la geografia semplificata della Corea del Sud. Seul sembra una città piccola, dove tutti si incontrano per caso, si rincorrono sotto la pioggia e si trovano al momento giusto nel posto giusto. Ma Seul è una metropoli enorme, frenetica, labirintica, dove incrociare per caso qualcuno per strada è quanto di più improbabile possa accadere. Anche questa illusione fa parte della finzione.

E più in generale, i K-drama sono prodotti di intrattenimento. Spesso si prendono libertà creative che falsano la rappresentazione sociale: famiglie ideali, genitori ricchi, studenti impeccabili, rapporti idilliaci con i superiori. È importante saperlo: non sono documentari, non sono specchi fedeli di una nazione. Sono storie. Storie bellissime, a volte importanti, a volte ingenue, ma sempre finzione.

L’ombra della solitudine e la pressione invisibile

Dietro le luci della fiction si nasconde una realtà più cupa. In Corea, il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo. Lo stress, la pressione familiare, scolastica e lavorativa, uniti allo stigma verso la salute mentale, creano un contesto difficile, spesso taciuto o edulcorato dai media.

I drama accennano a tutto questo solo in parte. Ma la solitudine, in Corea, non è solo scelta: è anche sintomo. Sintomo di una società che corre troppo, che pretende tanto, che spesso dimentica di ascoltare. E non è un caso che sempre più giovani si rifugino in vite parallele, virtuali, solitarie o immaginarie.

Figli invisibili: cosa significa davvero adottare in Corea del Sud

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Ci sono storie che si fanno spazio dentro di noi con una forza inaspettata. Storie che ci entrano sottopelle, non perché raccontino qualcosa che abbiamo vissuto in prima persona, ma perché toccano corde universali: il senso di appartenenza, il desiderio di essere scelti, la paura dell’abbandono. È quello che mi è successo leggendo la trama di The Defects, un drama coreano che mette al centro le vite di ragazzi nati in circostanze oscure, cresciuti nell’ombra di un passato che non hanno scelto. E proprio da quelle poche righe – secche, misteriose, crude – è nato il bisogno di approfondire una realtà tanto delicata quanto ignorata: quella dell’adozione in Corea del Sud.

Parlare di adozione significa, in ogni angolo del mondo, toccare una sfera intima, umana, spesso dolorosa. Ma in Corea, questo tema assume sfumature ancora più complesse, frutto di una storia lunga, stratificata, a tratti disturbante. Non si tratta solo di un percorso burocratico o familiare: è un fenomeno profondamente intrecciato alla cultura nazionale, alla guerra, alla povertà, alla vergogna sociale, alla politica e, in alcuni casi, alla violazione dei diritti umani.

Adozione internazionale: un’eredità della guerra

La Corea del Sud è stato il primo paese al mondo per numero di adozioni internazionali. Questo primato, che potrebbe sembrare nobile a uno sguardo superficiale, affonda le radici in una ferita collettiva: la guerra di Corea. Negli anni Cinquanta, migliaia di bambini rimasti orfani o nati da relazioni tra donne coreane e soldati stranieri vennero dati in adozione, per lo più a famiglie americane. Il governo coreano, anziché costruire un sistema di protezione nazionale, facilitò per decenni la cessione di questi bambini all’estero, trattandoli come “esportazioni” da gestire con l’aiuto di agenzie religiose o private.

La narrativa ufficiale parlava di carità, di necessità, di soluzioni per i piccoli abbandonati. Ma la verità che è emersa con il tempo è molto più amara: molti di quei bambini non erano affatto orfani. Alcuni venivano separati con la forza dalle loro famiglie, altri sottratti con l’inganno o dichiarati “senza genitori” grazie a documenti manipolati. Si è trattato, in moltissimi casi, di veri e propri abusi sistematici.

Tra i casi più emblematici emersi con il tempo, vi è quello della struttura religiosa Brothers Home, coinvolta in una delle vicende più oscure: tra il 1979 e il 1986, almeno 19 bambini risultano essere stati vittime di traffico, un fatto che getta ulteriore ombra sul sistema di affidamenti e istituzionalizzazioni dell’epoca.

La macchina delle adozioni e le sue fratture

Per decenni, le adozioni internazionali hanno rappresentato per la Corea anche un’industria redditizia. Alcuni report parlano di incentivi economici, rimborsi per le agenzie e una vera e propria politica del “lasciare andare” per non dover affrontare il problema dei bambini indesiderati. In particolare, venivano spinti verso l’adozione all’estero i figli nati da madri single, da relazioni extraconiugali, o semplicemente ritenuti “di troppo” in famiglie numerose e povere. L’aborto era illegale, il welfare inesistente: l’unica via per le donne era spesso quella dell’abbandono, o peggio, della rinuncia forzata.

Nel tempo, l’immagine pubblica del fenomeno è cambiata. La Corea ha iniziato a promuovere l’adozione domestica e a porre limiti sempre più rigidi all’adozione internazionale. Ma i numeri sono rimasti inquietanti. Fino al 2007, erano ancora più i bambini spediti all’estero che quelli adottati in patria. E anche quando le leggi si sono fatte più stringenti, i problemi non sono spariti. I sistemi di registrazione, ad esempio, hanno continuato a contenere errori, omissioni, falsificazioni. Alcuni bambini sono cresciuti senza conoscere la verità sulle proprie origini, e ancora oggi migliaia di adulti coreani adottati all’estero cercano invano i loro genitori biologici, trovandosi spesso davanti a un muro di silenzi, dati mancanti e storie cancellate.

Le sfide dell’adozione oggi: tra stigma e burocrazia

Oggi, adottare in Corea del Sud è molto difficile. Le restrizioni sono severe, e per chi vive nel paese da straniero, il processo è quasi impossibile. Anche i cittadini coreani devono affrontare ostacoli enormi: lunghi tempi di attesa, controlli estenuanti e un forte stigma sociale, specialmente nei confronti delle madri biologiche. In Corea, la famiglia biologica resta ancora un valore sacro, e l’adozione è vista da molti come un’“ultima spiaggia” o qualcosa da nascondere. I bambini adottati vengono spesso discriminati, e molte famiglie scelgono di non dire nulla neanche al figlio stesso.

Inoltre, trovare informazioni aggiornate e corrette sul processo è complicato. Chi prova a documentarsi online spesso si scontra con esperienze discordanti, lunghe attese, risposte vaghe dalle autorità. Anche sui forum di espatriati, chi vuole adottare esprime frustrazione, confusione, e un forte senso di impotenza.

La voce degli adottati

Negli ultimi anni, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. Un numero crescente di adulti adottati – soprattutto quelli cresciuti negli Stati Uniti e in Europa – ha iniziato a parlare. A denunciare. A condividere le proprie esperienze di identità spezzata, di razzismo, di mancanza di radici. Alcuni hanno intrapreso viaggi verso la Corea per cercare la verità, altri si sono uniti in gruppi e associazioni che chiedono maggiore trasparenza, accesso ai documenti, scuse ufficiali.

Queste voci stanno cambiando la narrazione. Non si parla più solo di “bambini salvati”, ma anche di “vite rubate”. Di adozioni che non sono state scelte, ma imposte. Di famiglie separate per sempre, spesso senza motivo. Di traumi invisibili che durano una vita.

Un dolore collettivo, una riflessione necessaria

The Defects non racconta direttamente questa storia. Ma la sfiora, la evoca, la incarna. La presenza di bambini segnati da ferite invisibili, cresciuti in istituti, segnati dal rifiuto e dalla vergogna, ci obbliga a guardare oltre la superficie. A chiederci cosa significhi davvero essere figli in un mondo che sceglie chi è degno e chi no.

Scrivere questo articolo è stato un percorso emotivo ma anche lucido. Perché la storia dell’adozione in Corea del Sud è troppo complessa per essere ridotta a uno slogan. È fatta di scelte politiche, di ingiustizie sociali, di silenzi culturali, di leggi ambigue, di tragedie personali.

Ma è anche una storia che merita di essere ascoltata. Perché ogni figlio invisibile, in fondo, ha il diritto di essere visto.


Fonti:

14 agosto 2025

La terra delle quotes - 204

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  1. L’unica cosa che ho imparato lottando contro la mia malattia infantile è che ci sono battaglie nella vita che non si possono vincere. Ma so anche che alla fine di ogni lotta, qualcosa si guadagna sempre. – Our Unwritten Seoul (2025)
  2. Appartieni al luogo in cui scegli di restare. Possiamo trovare insieme una ragione. – Our Unwritten Seoul (2025)
  3. Credo che non sia una questione di destino, ma di cuore. Ecco perché faccio fatica ad aprirmi con gli altri. Perché potrei sentirmi di nuovo come se fossi scappata.  – Our Unwritten Seoul (2025)
  4. Il vuoto lasciato dal mio dubbio ha cominciato a riempirsi di coraggio. E con quel coraggio, faccio un passo avanti verso una paura che conosco fin troppo bene. – Our Unwritten Seoul (2025)
  5. Sono tutti partiti dal basso, quindi anche se cadono di nuovo, credono di poter risalire. – Our Unwritten Seoul (2025)
  6. Per sapere amare, devi prima essere amato. – Our Unwritten Seoul (2025)
  7. Perché la vita ogni volta che ti dà qualcosa, ti porta via qualcos’altro? – Our Unwritten Seoul (2025)
  8. La vita è come la poesia. Da lontano sembra un codice indecifrabile, ma se la guardi da vicino, con un cuore pronto a comprendere, solo allora ne cogli il significato. – Our Unwritten Seoul (2025)
  9. Incontrerai persone buone. Magari ci vorrà del tempo, ma un giorno, incontrerai chi saprà leggerti per quello che sei. – Our Unwritten Seoul (2025)
  10. Ironicamente è così. Fingi di essere forte? Ti compatiscono. Sembri triste? Ti giudicano. Se nascondi la verità per evitarlo, diventa un tuo punto debole. Se non è una cosa importante, devi condividerla con nonchalance per evitare che lo diventi. – Gyeon Woo and Fairy (2025)
  11. Si potrebbe pensare che la sfortuna uccide la gente, no? Non è così. Ciò che uccide è essere insultati perché sfortunati, sentire genitori che urlano ai figli di non frequentarti o dover sopportare le battute di persone terribili che scommettono su quando morirai… Se una persona viene trattata come fosse morta, da quel momento inizia a svanire, a poco a poco. Sono le persone che uccidono.  – Gyeon Woo and Fairy (2025)
  12. Le persone che fanno tanto i duri e parlano a voce alta come lui, in realtà sono i più codardi.  – Squid Game (2025)
  13. In qualunque modo tu la guardi, la vita è semplicemente ingiusta. I cattivi fanno cose cattive, ma danno la colpa agli altri e continuano a vivere in pace. I buoni, invece, si colpevolizzano anche per le cose più piccole.  – Squid Game (2025)
  14. Non è colpa tua. Abbiamo fatto una scelta. Abbiamo scelto da soli.  – Squid Game (2025)
  15. Tante persone ottengono un piccolo successo, si montano la testa e poi si bruciano. – Oh My Ghost Clients (2025)

Chiudersi per rinascere: la nuova frontiera del benessere in Corea del Sud

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Ci sono giorni in cui la vita pesa. Giorni in cui anche il respiro sembra un gesto faticoso, e ci si ritrova a desiderare soltanto una cosa: silenzio. Non il silenzio vuoto, quello che fa rumore nell’anima, ma un silenzio che protegge. Uno spazio chiuso, lontano dal rumore del mondo, dove fermarsi, ascoltarsi, magari – per un istante – ricominciare.

È proprio da questo desiderio che nasce una delle esperienze più estreme e singolari della Corea del Sud: “Prison Inside Me”, un centro benessere che, al posto di trattamenti spa, offre una simulazione estrema della prigione. Ma qui, paradossalmente, ci si rinchiude per sentirsi liberi.

A Hongcheon, due ore da Seoul, si può prenotare una cella di cinque metri quadrati. Nessun orologio, nessuno smartphone, nessun contatto con l’esterno. Solo un piccolo tappetino da yoga, una tazza, un quaderno e la propria solitudine. Un’esperienza che, detta così, può sembrare claustrofobica, quasi punitiva. Eppure, per migliaia di sudcoreani, è un atto di cura. Un gesto radicale di ribellione contro una società che chiede troppo, sempre, a tutti. Qui si viene per ritrovare sé stessi. Per imparare a stare soli senza sentirsi soli. Per scappare dalla libertà apparente del mondo esterno che, troppo spesso, si rivela essere una gabbia invisibile.

Chi ha provato quest’esperienza racconta di come, paradossalmente, sia proprio quel tempo di “reclusione” a generare un senso profondo di liberazione. Il tempo si dilata, il corpo si ferma, la mente si ascolta. Ci si ritrova – in uno spazio vuoto – a fare i conti con ciò che è rimasto indietro nella corsa frenetica della vita: emozioni, paure, sogni. Un vero e proprio rituale moderno per riconnettersi con sé stessi.

Ma questa tendenza all’introspezione estrema non si ferma qui.

In Corea del Sud esistono anche i “Death Cafè”: caffetterie in cui non si parla di cappuccini e biscotti, ma di morte. Sì, proprio così. Qui si viene per simulare il proprio funerale, scrivere l’elogio funebre, sdraiarsi in una bara, e riflettere sulla propria esistenza. Può sembrare macabro, ma in realtà è uno dei gesti più radicali e poetici che si possano compiere: guardare la morte in faccia per tornare ad abbracciare la vita.

L’obiettivo? Prevenire il suicidio, che in Corea resta uno dei problemi sociali più gravi e silenziosi. Un tema troppo spesso taciuto, nonostante i numeri parlino chiaro: tra i paesi dell’OCSE, la Corea del Sud è tra quelli con il tasso più alto. E mentre il dibattito pubblico arranca, queste esperienze alternative diventano spazi sicuri per esprimere dolore, per fermarsi prima del baratro, per concedersi il tempo di rimettere insieme i pezzi.

Nel cuore di queste iniziative c’è un bisogno urgente: quello di essere ascoltati, capiti, accettati. Un bisogno che forse noi, da lontano, fatichiamo a comprendere nella sua interezza, ma che ci riguarda più di quanto pensiamo. Perché tutti, in fondo, cerchiamo un luogo in cui sentirci liberi di essere fragili.

E forse non serve arrivare in Corea per capirlo. Basta guardarsi dentro e avere il coraggio di ascoltarsi davvero.


Fonti