Ci sono giorni in cui la vita pesa. Giorni in cui anche il respiro sembra un gesto faticoso, e ci si ritrova a desiderare soltanto una cosa: silenzio. Non il silenzio vuoto, quello che fa rumore nell’anima, ma un silenzio che protegge. Uno spazio chiuso, lontano dal rumore del mondo, dove fermarsi, ascoltarsi, magari – per un istante – ricominciare.
È proprio da questo desiderio che nasce una delle esperienze più estreme e singolari della Corea del Sud: “Prison Inside Me”, un centro benessere che, al posto di trattamenti spa, offre una simulazione estrema della prigione. Ma qui, paradossalmente, ci si rinchiude per sentirsi liberi.
A Hongcheon, due ore da Seoul, si può prenotare una cella di cinque metri quadrati. Nessun orologio, nessuno smartphone, nessun contatto con l’esterno. Solo un piccolo tappetino da yoga, una tazza, un quaderno e la propria solitudine. Un’esperienza che, detta così, può sembrare claustrofobica, quasi punitiva. Eppure, per migliaia di sudcoreani, è un atto di cura. Un gesto radicale di ribellione contro una società che chiede troppo, sempre, a tutti. Qui si viene per ritrovare sé stessi. Per imparare a stare soli senza sentirsi soli. Per scappare dalla libertà apparente del mondo esterno che, troppo spesso, si rivela essere una gabbia invisibile.
Chi ha provato quest’esperienza racconta di come, paradossalmente, sia proprio quel tempo di “reclusione” a generare un senso profondo di liberazione. Il tempo si dilata, il corpo si ferma, la mente si ascolta. Ci si ritrova – in uno spazio vuoto – a fare i conti con ciò che è rimasto indietro nella corsa frenetica della vita: emozioni, paure, sogni. Un vero e proprio rituale moderno per riconnettersi con sé stessi.
Ma questa tendenza all’introspezione estrema non si ferma qui.
In Corea del Sud esistono anche i “Death Cafè”: caffetterie in cui non si parla di cappuccini e biscotti, ma di morte. Sì, proprio così. Qui si viene per simulare il proprio funerale, scrivere l’elogio funebre, sdraiarsi in una bara, e riflettere sulla propria esistenza. Può sembrare macabro, ma in realtà è uno dei gesti più radicali e poetici che si possano compiere: guardare la morte in faccia per tornare ad abbracciare la vita.
L’obiettivo? Prevenire il suicidio, che in Corea resta uno dei problemi sociali più gravi e silenziosi. Un tema troppo spesso taciuto, nonostante i numeri parlino chiaro: tra i paesi dell’OCSE, la Corea del Sud è tra quelli con il tasso più alto. E mentre il dibattito pubblico arranca, queste esperienze alternative diventano spazi sicuri per esprimere dolore, per fermarsi prima del baratro, per concedersi il tempo di rimettere insieme i pezzi.
Nel cuore di queste iniziative c’è un bisogno urgente: quello di essere ascoltati, capiti, accettati. Un bisogno che forse noi, da lontano, fatichiamo a comprendere nella sua interezza, ma che ci riguarda più di quanto pensiamo. Perché tutti, in fondo, cerchiamo un luogo in cui sentirci liberi di essere fragili.
E forse non serve arrivare in Corea per capirlo. Basta guardarsi dentro e avere il coraggio di ascoltarsi davvero.
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