ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER
L'incipit
ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER
L'incipit
Ci sono temi che ritornano, silenziosi ma potenti, in molte delle storie che amiamo. Temi che ci colpiscono perché sanno parlare alla parte più nascosta di noi. La genitorialità tossica è uno di questi. Nei K-Drama, è come un’eco sommessa che risuona dietro le trame romantiche, gli intrecci scolastici e le battaglie interiori dei personaggi. Non sempre è protagonista, ma spesso è lì. Invisibile, ma presente. Ed è proprio questa presenza costante a renderla tanto rilevante.
Le serie coreane non hanno paura di mettere in scena il lato più oscuro dell’amore genitoriale. Mostrano famiglie apparentemente perfette che crollano sotto il peso delle aspettative, genitori che si trasformano in carnefici emotivi, figli che non possono essere altro che proiezioni di un sogno che non hanno scelto. È un ritratto duro, a volte difficile da guardare. Ma necessario. Perché attraverso quelle storie, molti spettatori ritrovano frammenti della propria.
Il volto severo dell'autorità
L’immagine del genitore autoritario è una delle più frequenti. Un volto serio, parole fredde, sguardi che non ammettono replica. Nei K-Drama, questo tipo di genitorialità assume spesso tratti estremi: padri e madri che controllano ogni aspetto della vita dei figli, imponendo scelte universitarie, carriere e perfino relazioni. I desideri dei figli? Relegati all’irrilevanza.
SKY Castle è il manifesto di questa visione. I genitori, ossessionati dal successo accademico, trasformano i loro figli in pedine di un gioco crudele, dove l’affetto è condizionato dai risultati e l’umanità sacrificata sull’altare dell’eccellenza. È un mondo che non lascia spazio all’errore. Dove un figlio che crolla non viene abbracciato, ma rimproverato. E la frattura che si crea non è solo familiare: è esistenziale.
Quando l’amore diventa ferita
Al di là del controllo, c’è anche qualcosa di più sottile, ma altrettanto devastante: l’abuso emotivo. I genitori, anziché proteggere, possono diventare la prima fonte di dolore. Nei K-Drama questo viene raccontato con coraggio. Madri e padri che gridano, umiliano, manipolano. Che mettono al primo posto se stessi, lasciando i figli a raccogliere i cocci di una fragilità che non è mai stata ascoltata.
Ci sono anche i genitori assenti, quelli che non ci sono proprio. Né fisicamente, né emotivamente. The Glory ne è un esempio incisivo: le famiglie dei bulli non solo chiudono gli occhi di fronte alla violenza dei propri figli, ma sono talvolta complici, quando non del tutto disinteressate. E la mancanza di una guida diventa lo specchio di una società che preferisce voltarsi dall’altra parte.
In Something in the Rain, invece, l’attenzione si sposta sul controllo affettivo: una madre che disapprova la relazione della figlia non per il suo bene, ma per mantenere il controllo sulla sua vita. E allora l’amore, quello vero, deve combattere contro le catene invisibili dell’approvazione familiare.
E poi c’è chi, come in Come and Hug Me, cresce con un padre che è l’incarnazione del male: un serial killer. Una realtà estrema che però simbolizza una verità più comune di quanto si pensi – che il dolore inflitto da chi dovrebbe amarci è il più difficile da superare.
La maschera del genitore perfetto
Toxic Parents (2023) racconta una storia diversa, ma complementare: quella di una madre che affronta il dolore più grande, la morte della figlia, e che indaga sul passato alla ricerca della verità. Ma ciò che emerge non è solo un mistero da risolvere: è il peso delle aspettative che, anche senza violenza, possono spezzare. Il genitore tossico, in questo caso, non è solo quello che urla. È anche quello che pretende in silenzio, che guarda con delusione, che non accetta la fragilità.
Riflessioni che lasciano il segno
Molti spettatori, guardando questi drammi, sentono qualcosa muoversi dentro. Perché è facile riconoscersi. Forse non del tutto. Ma in un gesto, in una frase, in un pianto soffocato… c’è qualcosa che suona familiare. I K-Drama riescono a toccare corde intime, quelle che spesso restano mute per anni. Ed è in questo che risiede la loro forza.
Queste storie non solo commuovono, ma accendono riflessioni. Su cosa significhi essere genitori. Su quanto possa costare essere figli. E su come sia possibile, anche dopo tanta oscurità, provare a riscrivere il proprio destino.
Perché non tutti i K-Drama finiscono con una redenzione. Non tutti offrono un lieto fine. Ma molti mostrano la resilienza. La capacità di reagire, di sopravvivere, di rinascere. Anche da soli. Anche senza scuse. Anche solo per se stessi.
E se invece parlassimo d’amore?
Non quello fatto di fiori e frasi dolci. Ma quello che accoglie, che non impone, che chiede “Come stai?” senza aspettarsi una risposta felice. I K-Drama, nel mostrarci cosa non dovrebbe essere un genitore, ci ricordano anche cosa potrebbe essere. Un rifugio. Un appoggio. Una presenza.
E forse è per questo che, anche se fanno male, queste storie ci restano dentro. Perché parlano di una speranza che non smette mai di esistere: quella di essere visti, ascoltati, accettati. Per davvero.
Fonti
Ci sono drammi che ti intrattengono. E poi ci sono quelli che ti scuotono. “Squid Game 3” non fa sconti. Non cerca di piacere. Ti guarda in faccia e ti chiede: “Tu da che parte stai?”
Ho finito la terza stagione con il cuore in subbuglio. E non perché non mi aspettassi crudeltà, violenza o tradimenti. Ma perché questa volta, a fare più rumore, non è stato il sangue. È stato il silenzio delle scelte. La freddezza con cui si passa sopra una vita per sopravvivere. L’apatia che nasce dalla disperazione. Il dolore che non fa più notizia.
La storia riparte da lì, da dove ci aveva lasciati: Gi-hun, i capelli rossi, il biglietto. Ma qualcosa è cambiato. Lui è cambiato. Non è più l’uomo smarrito che abbiamo conosciuto nella prima stagione. Ora è un uomo con uno scopo, una rabbia che lo brucia dentro e una certezza incrollabile: deve distruggere quel gioco. O forse… diventarne parte, per capirlo fino in fondo.
Ma ciò che questa terza stagione ci racconta, al di là del filo narrativo, è una verità scomoda e tagliente: non siamo migliori dei personaggi che giudichiamo. Perché anche noi, messi nelle stesse condizioni, potremmo fare scelte simili. O forse peggiori.
Il primo gioco — che a un primo sguardo sembrerebbe una versione assurda di nascondino — ti mette subito davanti al paradosso: per vivere, devi uccidere. Letteralmente. I “Cercatori” devono trovare almeno un “Nascosto” e assassinarlo. Se falliscono, saranno loro a morire. Non esiste alternativa. Non esiste misericordia.
Ed è qui che “Squid Game 3” comincia a parlare davvero. Non del gioco. Ma di noi.
Quante volte, nella vita reale, le persone vengono divise in squadre senza nemmeno rendersene conto? Hanno un colore diverso, un conto in banca diverso, un'origine diversa. E in quel labirinto sociale, o trovi un modo per farti valere… o vieni spazzato via.
Ogni episodio è uno specchio. Ogni gioco è una metafora. Ogni morte è un grido taciuto. E più si va avanti, più diventa chiaro che questa stagione non vuole solo scioccare, ma farci pensare. Non alle regole del gioco, ma alle regole della vita.
L’inganno, la fiducia tradita, le alleanze che si spezzano, gli ideali che crollano uno dopo l’altro: tutto ciò ci viene mostrato senza filtro. Ma non per sadismo. Piuttosto per chiederci: “Dov’eri tu, quando hai smesso di credere nell’umanità?”
Il momento più potente di tutta la stagione, per me, non è stato un’esplosione o un plot twist. È stato il cameo finale. Breve. Silenzioso. Sconvolgente.
Chi ha seguito l’intera serie sa bene di chi si tratta. Ma al di là della sorpresa narrativa, quel cameo è un monito: nessuno è mai veramente uscito dal gioco. Neanche chi ha vinto. Neanche chi ha ucciso. Neanche chi ha scelto di dimenticare.
E così la stagione si chiude come era iniziata: con un uomo solo, Gi-hun, davanti a una scelta impossibile. Morire… o diventare parte del sistema che voleva distruggere?
E noi? Noi spettatori, dove siamo? Davanti allo schermo, a sperare che scelga “il bene”? A consolarci con l’illusione che in fondo, l’eroe ce la farà? Ma siamo davvero così diversi da chi guarda un altro cadere… e tira un sospiro di sollievo perché “questa volta non è toccato a me”?
L’umanità, messa alla prova, non è sempre buona.
La sopravvivenza tira fuori il peggio e il meglio, a seconda di cosa abbiamo dentro.
A volte, l’unica vera scelta libera che abbiamo è decidere chi vogliamo essere, anche se tutto intorno ci spinge a diventare qualcun altro.
“Squid Game 3” non ci regala una morale. Ci regala uno specchio. E ci costringe a guardarci dentro, anche quando vorremmo solo chiudere gli occhi.
Fonti
Ci sono giochi che ci insegnano a stare al mondo. Altri che ce lo tolgono. La terza stagione di Squid Game torna a premere il dito sulla ferita, ricordandoci che a volte le regole più semplici nascondono il lato più spietato dell’essere umano. E lo fa con tre nuovi giochi che, almeno all’apparenza, richiamano l’innocenza dell’infanzia. Ma non lasciatevi ingannare. In questa arena, ogni mossa può essere l’ultima.
Nascondino: quando l'infanzia diventa una
trappola
All’inizio sembra tutto innocuo. Una stanza
d’attesa, un mucchio di grandi gomme da masticare colorate. Ma è qui che inizia
il primo gioco, Hide and Seek, ed è qui che si compie la prima scelta
fatale.
Chi prende una gomma blu entra nella squadra di chi deve nascondersi, chi ne
prende una rossa diventa un Cercatore. E
da quel momento non si torna più indietro. Il labirinto in cui vengono lanciati
i giocatori non è solo disorientante: è una caccia. Chi si nasconde ha mezz’ora
per scappare o trovare un rifugio. I Cercatori hanno lo stesso tempo per
scovare almeno una persona della squadra avversaria e ucciderla. Altrimenti,
saranno loro a morire.
Uno scambio di ruoli è possibile, ma solo se
entrambe le parti sono d’accordo. Un ultimo spiraglio di umanità prima del caos.
Le armi sono simboliche, eppure letali: chi si nasconde riceve chiavi per le
porte del labirinto, chi cerca impugna coltelli “decorativi”. L’atmosfera è
surreale. Il gioco più innocente di tutti si trasforma nel più crudele: non si
vince, si sopravvive.
Jump Rope: salta o muori
Se credevamo di aver visto tutto con il Ponte
di vetro, ci sbagliavamo. Jump Rope è il secondo round, e la posta
in gioco si alza insieme al ritmo del salto. Young-hee — sì, proprio lei, la
bambola terrificante della prima stagione — torna con un alleato, Chul-su.
Insieme azionano una gigantesca corda metallica che ruota senza sosta su una
passerella. Lo scopo? Attraversarla. Tutto qui. Non ci sono strategie da
calcolare, né direzioni da scegliere. C’è solo una via. Una passerella e
un’enorme corda pronta a scagliarti nel vuoto. Il tempo è limitato: 20 minuti.
E ogni secondo passato su quel ponte è un salto nel buio, in tutti i sensi.
Sky Squid Game: la vetta della disperazione
Ogni stagione ha la sua fine. Ma in Squid Game
3, la fine si chiama Sky Squid Game, ed è l’apice del terrore. Tre
torri. Tre simboli. Cerchio, triangolo, quadrato. I giocatori sono piazzati in
cima, sospesi tra il cielo e la fine. Per passare da una torre all’altra
bisogna spingere giù almeno un concorrente. Non è una scelta. È un obbligo. Nei
round successivi, si attiva un pulsante sul pavimento. Parte un conto alla
rovescia. Se allo scadere nessuno viene eliminato, muoiono tutti. Nessuna
eccezione. Qui non c’è spazio per esitazioni, né per nobiltà d’animo. Eppure,
proprio in questo scenario apocalittico, Gi-hun deve decidere chi vuole essere.
Proteggere se stesso… o restare umano. L’ultimo round non è solo una prova di
sopravvivenza. È una prova di coscienza. E forse, anche di redenzione.
Tre giochi, un’unica verità
Se c’è qualcosa che Squid Game ci insegna,
è che nessun gioco è davvero solo un gioco.
C’è sempre un prezzo. Un confine da superare. Una maschera da indossare o da
gettare via.
E stagione dopo stagione, questo confine diventa più sottile, più sporco, più
personale. La terza stagione non è solo l’evoluzione del format. È
un’escalation di crudeltà mascherata da innocenza, una riflessione inquietante
su chi siamo quando nessuno ci guarda… e quando tutto il mondo ci guarda, ma
non ci ascolta. In un mondo dove si gioca per vivere — e si muore per
intrattenere — forse l’unico vero premio è conservare un briciolo di coscienza.
E tu? Che squadra avresti scelto?
Fonti:
https://screenrant.com/squid-game-season-3-all-games-explained/
https://www.netflix.com/tudum/articles/squid-game-games-explained
Il senso di inadeguatezza è uno dei fili conduttori del racconto. Yu Mi Ji si sente spesso inferiore, come se non fosse all’altezza della sorella Yu Mi Rae. Il confronto costante tra loro pesa sul suo cuore e sul suo sguardo su di sé. Mi Ji è tormentata dall’insicurezza per il proprio percorso di studi, interrotto, e per la disoccupazione che l'ha tenuta ferma per anni.
Allo stesso tempo, anche Yu Mi Rae e Lee Ho Su (interpretato da Jinyoung dei GOT7) lottano con un diverso tipo di fragilità: la loro salute fisica, incerta e fonte di preoccupazioni quotidiane.
L’ansia accompagna Mi Rae come un’ombra. Segnata da un passato doloroso, vive costantemente con il timore dei giudizi, delle voci maligne che si diffondono su di lei, alimentando l’insicurezza. Mi Ji, invece, scivola lentamente nella depressione. Dopo un infortunio alla gamba, decide di chiudersi in casa, isolandosi da tutto e da tutti. Nel frattempo, la pressione che grava su Mi Rae diventa insostenibile, tanto da farle maturare pensieri autodistruttivi.
Alcuni eventi scatenano in Mi Ji veri e propri attacchi di panico, legati a ricordi traumatici del passato che riaffiorano improvvisamente e senza pietà.
Anche i personaggi maschili portano il peso delle proprie ferite emotive. Lee Ho Su e Han Se Jin (Ryu Kyung Soo) condividono la stessa paura: quella dell’abbandono. Vivono nell’angoscia costante di non essere abbastanza, di essere lasciati indietro.
E poi c’è il vuoto lasciato dal padre. Yu Mi Ji e Yu Mi Rae desiderano, nel profondo, una figura paterna che possa finalmente dare loro sicurezza, affetto, attenzione. Una presenza stabile, che non hanno mai avuto davvero.
Our Unwritten Seoul dipinge con autenticità il tumulto interiore dei suoi personaggi. Ogni episodio diventa un’occasione per riflettere, per comprendere, per sentirsi meno soli. Un invito potente a guardare con empatia chi lotta in silenzio, ogni giorno. Queste sono alcune riflessioni che ho sentito il bisogno di scrivere durante la visione del drama. Buona lettura.
Ci sono bugie dolci, che accettiamo volentieri. Come quelle che si nascondono sotto le luci soffuse dei drama coreani, mentre ci illudono che la vita lì sia più semplice, più bella, più romantica. Ma la verità, lo sappiamo bene, non è sempre quella che passa dallo schermo. E questo articolo nasce proprio da qui: da quella distanza sottile e ingannevole tra finzione e realtà, tra ciò che i K-drama ci fanno credere e ciò che, nella Corea del Sud reale, è molto diverso.
Non si tratta di smascherare la magia – quella la teniamo stretta – ma di guardare con rispetto e curiosità a un Paese che spesso conosciamo solo attraverso gli occhi di una telecamera. E se imparassimo a conoscere anche l’altro lato? Quello meno luccicante, ma più autentico?
I drama ci mostrano spesso gruppi affiatati, famiglie invadenti, amici onnipresenti, relazioni sentimentali sempre in fermento. Ma esiste una fetta crescente di popolazione sudcoreana che ha scelto l’opposto: vivere da sola. Il fenomeno si chiama honjok, e descrive uno stile di vita in cui si decide di mangiare, viaggiare, vivere in totale solitudine. Non è tristezza, ma indipendenza. In Corea, questo è diventato quasi un movimento culturale: ci si emancipa dal dovere di socializzare e si abbraccia una quotidianità fatta di libertà personale.
Eppure, i drama ci restituiscono un’altra immagine. L’essere soli è spesso trattato come qualcosa da curare, da risolvere, da evitare. Ma nella realtà, l’honjok è sempre più accettato, e riflette un cambiamento sociale profondo, legato allo stress urbano, all’ipercompetitività e al desiderio di proteggere la propria salute mentale.
Nei K-drama l’amore è ovunque. Ti urta per strada, ti salva la vita sotto la pioggia, ti aspetta al varco della metropolitana. Eppure, la realtà è molto più sfumata. In Corea del Sud, i tassi di natalità sono tra i più bassi al mondo e sempre più giovani evitano relazioni stabili, matrimonio o figli. Le motivazioni sono tante: dalla pressione economica alla mancanza di tempo, dalla competizione lavorativa alla disillusione nei confronti delle relazioni. Il dating non è sempre rose e petali: a volte è stanchezza, a volte è proprio assenza.
I drama ci insegnano che prima o poi lui o lei arriverà. Ma molti giovani coreani non aspettano nessuno. Hanno scelto di vivere per sé stessi. E se l’amore arriverà, bene. Se non arriverà… va bene lo stesso.
Uno dei miti più diffusi è quello secondo cui tutti i coreani hanno la pelle perfetta. Nei drama non esiste acne, rossore, occhiaia che tenga. Ma la verità è che la pelle perfetta non è un dono genetico, bensì il frutto di una delle industrie cosmetiche più avanzate, competitive e pervasive del mondo.
In realtà, lo stress, l’inquinamento e la pressione sociale contribuiscono a una cura quasi ossessiva dell’aspetto fisico. I drama lo nascondono, ma è impossibile ignorare quanto il culto della bellezza impatti sul quotidiano: chirurgia estetica normalizzata, prodotti di skincare ovunque, standard estetici rigidi e idealizzati. Ciò che appare naturale è spesso costruito con cura estrema.
Le scene di sbronze nei drama hanno quasi sempre un sottofondo comico o romantico. Ma nella vita reale, il consumo eccessivo di alcol è una delle problematiche più gravi in Corea del Sud. Si beve molto, e spesso per motivi legati al lavoro, alla pressione sociale o alla necessità di scaricare lo stress. I dati parlano chiaro: alcolismo, dipendenza e problemi di salute legati all’abuso non sono rari, e raramente vengono affrontati nei K-drama con la stessa leggerezza con cui vengono mostrati.
Bere con i colleghi, bere per dimenticare, bere per festeggiare: nei drama tutto ha una cornice brillante. Nella realtà, però, c’è anche la fatica, il senso di colpa, la dipendenza. Non è una questione da ridere o da innamorarsi sotto un lampione.
Un altro stereotipo che si insinua nei drama è la geografia semplificata della Corea del Sud. Seul sembra una città piccola, dove tutti si incontrano per caso, si rincorrono sotto la pioggia e si trovano al momento giusto nel posto giusto. Ma Seul è una metropoli enorme, frenetica, labirintica, dove incrociare per caso qualcuno per strada è quanto di più improbabile possa accadere. Anche questa illusione fa parte della finzione.
E più in generale, i K-drama sono prodotti di intrattenimento. Spesso si prendono libertà creative che falsano la rappresentazione sociale: famiglie ideali, genitori ricchi, studenti impeccabili, rapporti idilliaci con i superiori. È importante saperlo: non sono documentari, non sono specchi fedeli di una nazione. Sono storie. Storie bellissime, a volte importanti, a volte ingenue, ma sempre finzione.
Dietro le luci della fiction si nasconde una realtà più cupa. In Corea, il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo. Lo stress, la pressione familiare, scolastica e lavorativa, uniti allo stigma verso la salute mentale, creano un contesto difficile, spesso taciuto o edulcorato dai media.
I drama accennano a tutto questo solo in parte. Ma la solitudine, in Corea, non è solo scelta: è anche sintomo. Sintomo di una società che corre troppo, che pretende tanto, che spesso dimentica di ascoltare. E non è un caso che sempre più giovani si rifugino in vite parallele, virtuali, solitarie o immaginarie.
Negli ultimi anni, il mondo ha scoperto i K-Drama. Non solo come prodotti da consumare, ma come storie da vivere, episodi da attendere con trepidazione, emozioni che si incollano addosso. Eppure, in questo entusiasmo travolgente, qualcosa si è perso. Forse anche qualcosa di importante.
C’erano giorni in cui bastava un link su un forum, un gruppo di fansub appassionati e tanta voglia di scoprire un mondo diverso. Oggi, invece, guardare un drama può voler dire scegliere un abbonamento, rinunciare a un altro, accettare che non tutto sarà disponibile, e non tutto sarà comprensibile. Non perché manchino le storie, ma perché non ci è più concesso l’accesso come prima. È diventato un privilegio, e non più una passione condivisa.
I grandi colossi dello streaming hanno visto nella Corea un tesoro prezioso, e se lo sono tenuti stretto. Netflix, il primo a scommettere davvero sul potenziale delle produzioni coreane, ha trasformato una nicchia in un fenomeno globale. Con titoli come Love Alarm, Kingdom e poi l’inarrestabile Squid Game, ha scritto un nuovo capitolo dell’intrattenimento. E non si è fermato. Dietro, come in una partita a scacchi, sono arrivati anche Disney+ e Amazon, con strategie diverse ma ugualmente agguerrite.
È stato uno slancio potente, capace di portare attori coreani sulle copertine dei magazine internazionali, di far nascere eventi, fandom, tendenze. Il drama coreano è diventato una bandiera culturale. Eppure, proprio mentre il mondo applaudiva, in Corea qualcosa scricchiolava.
Le piattaforme locali, quelle che per prime hanno nutrito e fatto crescere questo ecosistema narrativo, oggi si trovano a rincorrere. Per resistere alla concorrenza, Tving e Wavve stanno cercando di unirsi. Insieme, vogliono diventare forti abbastanza da non essere travolti. Vogliono riportare a casa una parte di quello che è stato esportato troppo in fretta. Ma non è semplice. I costi sono alti, gli investimenti rischiosi, e il pubblico, abituato ormai alla velocità dello streaming globale, potrebbe non avere più la pazienza di aspettare.
Nel frattempo, Coupang Play prova un'altra strada: quella dei contenuti misti, unendo blockbuster hollywoodiani a serie coreane, per attrarre più pubblico possibile. E sullo sfondo, le nuove tecnologie avanzano: l’intelligenza artificiale aiuta a consigliare i titoli giusti, le esperienze diventano sempre più personalizzate, tutto viene reso fluido, automatico, quasi perfetto. Ma... è davvero quello che vogliamo?
Perché se c’è una cosa che ha reso i K-Drama così amati, non è solo la trama o la regia. È il modo in cui parlano all’anima. Le emozioni sincere, i legami profondi, le pause lente tra una scena e l’altra. Quel modo unico di raccontare che non urla, ma sussurra. Che non mostra tutto, ma lascia spazio per sentire.
E quando queste emozioni vengono tradotte male, o peggio ancora, quando non vengono proprio tradotte, allora si perde qualcosa. Si perde il tono gentile, si perdono le sfumature dei rapporti umani che in Corea passano anche da una semplice particella linguistica. Si perde il significato simbolico di un gioco, il peso culturale di un fiore nazionale trasformato in “green light, red light” per farlo suonare familiare a chi familiare non è.
Questa è la nuova realtà dello streaming. Dove la cultura deve adattarsi al mercato, e non il contrario. Dove molte produzioni restano inaccessibili per chi non sa l’inglese, e i fansub, che un tempo colmavano i vuoti con passione e accuratezza, oggi vengono spinti ai margini da regole, diritti e paure legali.
Guardare un drama, che per tanti era un rifugio quotidiano, è diventato per alcuni un lusso. E questo fa male. Fa male perché esclude. Perché divide. Perché priva del conforto proprio chi ne avrebbe più bisogno. Non è una questione di colpe, né di demonizzare il successo globale. È piuttosto una domanda aperta: è giusto non dare più alternative accessibili? È davvero progresso se lascia indietro chi non può permetterselo?
Nel frattempo, anche il cinema coreano, quello che aveva emozionato il mondo con Parasite, si trova in difficoltà. I registi lamentano una riduzione drastica degli spettatori nelle sale, la difficoltà di finanziare film nuovi, la corsa ai costi più bassi che sta portando altrove anche le grandi produzioni. Alcuni progetti vivono solo grazie a remake americani o co-produzioni internazionali. La voce originale si sta facendo flebile.
Eppure, non tutto è perduto. Perché ci sono ancora creatori che scelgono di raccontare storie diverse, piattaforme che sperimentano modelli più equi, e spettatori che resistono, che cercano, che vogliono capire. C’è ancora chi si emoziona guardando un drama senza sapere tutto, ma sentendo tutto.
I K-Drama continueranno a esistere, ma la direzione che prenderanno dipenderà anche da noi. Da quanto saremo disposti a pretendere rispetto per le culture che amiamo. Da quanto sapremo chiederci se stiamo assistendo a una vera apertura globale, o a una vetrina ben confezionata per chi può permettersela.
E da quanto riusciremo a proteggere quel piccolo spazio sicuro che avevamo trovato in una storia d’amore raccontata sottovoce, in un gesto gentile, in un episodio visto nel cuore della notte.
Prendiamo il caso
di Our Unwritten Seoul, uno dei drama
più intensi e realistici degli ultimi tempi. Yoo Mi Rae (Park Bo Young) lavora
in una grande azienda, è precisa, dedita, competente. Eppure, dietro il suo
sguardo controllato, si nasconde una ferita profonda (che non scriverò per
evitare spoiler). Una verità scomoda, insabbiata con discrezione e chiusa nel
silenzio di un sistema che preferisce voltarsi dall’altra parte. In questo
ambiente, come in tanti altri raccontati nei drama, non c’è spazio per
sbagliare, soprattutto se sei donna. A differenza dei colleghi uomini, per te
non esiste margine di errore. E se scegli di difendere qualcuno, se ti esponi,
diventi tu il bersaglio.
Mi Rae lo scopre quando cerca di supportare
una collega, Su Yeon, vittima di una trappola tesa dal proprio superiore.
Anziché essere riconosciuta per il suo senso di giustizia, viene emarginata,
isolata, affidata a compiti impossibili o umilianti. Il messaggio è chiaro: se
non ti adegui, se non accetti il silenzio, sei fuori.
È questa la forza
dei drama coreani: riescono a raccontare situazioni che, pur nella finzione,
riflettono con una lucidità spietata la realtà quotidiana. La cultura
lavorativa sudcoreana è notoriamente competitiva, gerarchica, stressante. Ore
di straordinari, cene aziendali obbligatorie (hoesik), rapporti rigidi e spesso
iniqui: tutto questo diventa materiale narrativo. E chi guarda, soprattutto chi
appartiene alla classe lavoratrice, si riconosce. Non solo nei sogni dei
protagonisti, ma nelle loro fatiche, nei loro inciampi, nelle ingiustizie
subite in silenzio.
Anche nei drama più
romantici, il lavoro non è solo un pretesto. È il luogo in cui si definiscono i
rapporti, si giocano le sfide dell’autostima, della dignità, del riscatto. In Start-Up o What’s Wrong with Secretary Kim, vediamo come le dinamiche
aziendali influenzino profondamente la vita affettiva dei protagonisti. Il
posto di lavoro diventa così il teatro in cui i personaggi crescono, cambiano,
cadono e si rialzano. Ma non è mai un percorso facile, e quasi mai giusto.
Our Unwritten Seoul lo ribadisce con forza
anche attraverso la figura di Mi Ji, sorella gemella di Mi Rae, che prende
temporaneamente il suo posto in un progetto urbanistico delicato. Lavora
duramente, ottiene risultati, ma a beneficiarne è un uomo: il capo di Mi Rae,
che si prende tutti i meriti. È l’ennesima declinazione del lavoro invisibile
femminile, quello che non fa rumore, ma regge il peso di interi sistemi.
Ed è proprio qui
che i drama diventano anche uno strumento di critica sociale. Non si limitano
più a rappresentare il sistema, lo mettono in discussione. In titoli come My Liberation Notes o Summer Strike, i protagonisti scelgono di allontanarsi dalla
corsa al successo, sfidano l’idea che il valore di una persona sia legato al
ruolo professionale o al conto in banca. E questa consapevolezza è universale:
la fatica di vivere per lavorare, l’ansia da prestazione, il desiderio di
un’esistenza più autentica sono condivisi da spettatori di ogni parte del
mondo.
Il lavoro, nei
drama, è anche un potente simbolo di riscatto sociale. In Itaewon Class, il protagonista costruisce il proprio impero
imprenditoriale per ribellarsi a un sistema che lo aveva umiliato. In Sky Castle, l’ossessione per il successo
scolastico è una proiezione del desiderio dei genitori di garantire ai figli un
futuro migliore, qualunque sia il prezzo. Ma più alta è la posta in gioco, più
devastante è la caduta. Il fallimento, anche minimo, viene vissuto come una
catastrofe.
E poi c’è il divario di genere, che attraversa
trasversalmente quasi ogni racconto. Le donne, come Mi Rae, sono costrette a
lavorare il doppio per ottenere la metà. Devono sopportare pregiudizi,
molestie, isolamento. Devono stare attente a ogni parola, a ogni scelta. E se
qualcosa va storto, diventano subito colpevoli. Mi Rae viene persino accusata
di aver rovinato una famiglia, dopo che la moglie del suo capo la affronta
facendola passare per l’amante. Nessuno indaga, nessuno ascolta. Il colpevole
viene trasferito, la vittima resta. E resta sola.
Attraverso queste storie, i drama non offrono
solo intrattenimento. Offrono uno specchio. Riflettono le contraddizioni della
società coreana, ma anche quelle del nostro mondo. Raccontano le lotte
invisibili dietro le scrivanie, la forza silenziosa di chi resiste, la bellezza
di chi sceglie di non piegarsi. Sono voci che chiedono rispetto, verità,
cambiamento.
E tu? Quante volte hai rivisto la tua realtà
nelle loro battaglie quotidiane?
Già, i baci.
Non quelli perfetti delle commedie americane, ma quelli che ti fanno palpitare, stringere le mani tra le coperte o trattenere il fiato come una ragazzina al suo primo amore. I baci dei K-Drama hanno un ritmo diverso. Si prendono il loro tempo. Non arrivano mai per caso. Quando succedono, è perché tutto dentro i personaggi – e dentro di noi – è pronto.
E io, ogni volta, torno bambina.
Mi scopro a sorridere da sola, a trattenere un “oh Dio, finalmente”, a immaginare un amore così per me. Un amore timido, esitante, ma assoluto. Un amore che si costruisce nel silenzio, negli sguardi rubati, in una carezza che dura un istante di più. Un amore che – anche se so che è solo fiction – mi fa sentire viva.
Per questo avevo creato questa pagina.
Per conservare quelle scene.
A volte un drama può non conquistarmi del tutto. Può avere falle nella trama, personaggi dimenticabili, un ritmo che non decolla. Eppure… basta una singola scena. Quella in cui tutto si ferma, si accende, si incide nel cuore.
Come non menzionare Alchemy of Souls Season 2?
Jang Uk e Naksu. Una coppia che ha camminato nel dolore, nella separazione, nella rinascita. E poi... quel bacio. Quello che non è solo amore, ma anche guarigione.
Oppure Call it Love.
Una storia delicata, spezzata, piena di sguardi trattenuti e di parole non dette. Ma quel momento tra Han Dong Jin e Shim Woo Jo, sotto la pioggia dei sentimenti repressi, mi ha disarmata.
E poi c’è Celebrity.
Non è tra i miei preferiti, lo ammetto. Ma Seo Ah Ri e Han Joon Kyung hanno regalato momenti visivi potentissimi. Scene cariche di tensione emotiva, come quadri pieni di malinconia e desiderio.
Perché ogni album, anche quello più caro, prima o poi si completa.
Questa pagina è nata nel 2023 con l’idea di raccogliere emozioni. E le ha raccolte. Ha custodito frammenti di bellezza e malinconia. Ma ora sento che è arrivato il momento di salutarla con gratitudine, e lasciar andare i ricordi per fare spazio a nuovi.
Non smetterò certo di emozionarmi davanti a un bacio.
Continuerò a tremare per una scena romantica, a commuovermi per una frase sussurrata.
Ma lo farò altrove. In nuovi spazi. In nuovi post. Con nuovi occhi.
Perché il cuore, quando si emoziona davvero, non ha bisogno di una pagina.
Si ricorda da solo. Sempre.
Con tutto l’amore e l’emozione che questa sezione ha portato con sé…
grazie, Ricordi del mio cuore.
È questo tipo di magia che mi ha spinta a
scrivere questo post. Perché certe canzoni non si possono semplicemente
“ascoltare e andare oltre”. Alcune vanno raccontate. E io, oggi, voglio
raccontarvi cosa ha significato per me ascoltare per la prima volta “Remember”, una delle tracce dell’OST
del drama See You in My 19th Life
(2023), interpretata da Jin Ah Kim.
Un ricordo fragile, agrodolce, che mi ha fatto piangere senza capire del tutto
il perché… Ma che sapevo, nel profondo, proveniva da un posto importante del
mio cuore.
C’è qualcosa di incredibilmente affascinante nel guardare una serie come Squid Game. Non solo per il ritmo serrato, la brutalità ipnotica o le scenografie al limite tra incubo e fiaba. Ma per ciò che succede fuori dallo schermo. Dietro le quinte. Tra le parole spezzate del cast e le scelte faticose del regista. Cose che non vediamo, ma che — una volta scoperte — non possiamo dimenticare.
In questo articolo, ho voluto raccogliere gli aneddoti più interessanti e curiosi legati a tutte e tre le stagioni: la prima (2021), la seconda (2024) e la terza (in arrivo il 27 giugno 2025). Perché ogni capitolo di questa saga ha qualcosa da dire, non solo come spettacolo, ma come riflesso tagliente di una realtà che, a volte, ci somiglia troppo. N.B. questo articolo è stato scritto PRIMA della messa in onda della terza stagione.
La prima stagione di Squid Game è diventata un fenomeno globale. Ma quello che pochi sanno è il prezzo altissimo pagato dal suo creatore, Hwang Dong-hyuk. Durante le riprese, lo stress era tale da farlo ammalare.
“Ho perso sei denti durante la scrittura e la produzione della prima stagione,” ha confessato.
Un dettaglio piccolo e crudo, che racconta molto più di quanto sembri. Hwang non era solo l’autore: era un uomo che stava letteralmente sacrificando pezzi di sé per una storia che nessuno voleva produrre inizialmente.
Anche il cast ha raccontato esperienze intense. L’attrice Jung Ho-yeon (Kang Sae-byeok) ha ammesso di piangere davvero durante alcune scene:
“Non stavo recitando. Stavo vivendo quel dolore. Avevo fame, ero stanca, ero spaventata. Era tutto reale.”
E per chi si fosse chiesto se i giochi fossero davvero così assurdi: tutti i set sono stati costruiti dal vivo, senza effetti in CGI. Il labirinto di scale colorate, il gigantesco robot di “Red Light, Green Light”… tutto era reale. E quindi, ancora più inquietante.
Ci sono drammi che scorrono via come acqua, e altri che restano incastrati tra le costole come spine. Pyramid Game è uno di questi. Non per la spettacolarità della trama, non per la tensione psicologica – che pure non manca – ma per ciò che smuove dentro. Per quello che ci obbliga a guardare, e a riconoscere.
La storia parte da un contesto scolastico apparentemente comune. Baek Ha-rin è una studentessa tranquilla, introversa, che cerca solo di sopravvivere nella nuova scuola, quella Daehan Girls’ High School, un liceo per ragazze dall’aspetto rispettabile. Ma dietro la facciata si nasconde un gioco crudele, nascosto in bella vista. Ogni mese, le studentesse sono costrette a votare in segreto le compagne, classificandole in una gerarchia invisibile ma letale. Chi finisce in fondo alla piramide – la classe F – ha un solo destino: diventare il bersaglio di ogni tipo di abuso, con la giustificazione implicita che “lo merita”. Nessuno può opporsi al sistema. Chi si ribella, diventa automaticamente l'ultima della lista.
“Perché sono sempre le persone che non hanno fatto nulla di male a essere ferite?”
Questa domanda, che emerge in uno dei momenti più crudi del drama, è la chiave di lettura di tutta la serie. Pyramid Game non è solo una storia di bullismo: è un’indagine brutale sulle strutture di potere e sull’apatia sociale. Sui meccanismi silenziosi che trasformano l’indifferenza in complicità.
Il gioco della piramide è crudele nella sua semplicità. Nessuna punizione visibile, nessun insegnante complice, nessun adulto da incolpare. Tutto parte dalle studentesse stesse. La violenza è socialmente accettata perché viene camuffata da democrazia, da gioco. Ma non c'è nulla di ludico nel decidere chi può essere umiliato senza conseguenze.
“Non è che mi piace farle del male. Ma se non lo faccio, sarà lei a farlo a me.”
Dietro questa frase si nasconde una delle dinamiche più tossiche che permeano la società: la paura di essere esclusi, l’istinto di sopravvivenza che ci porta ad accettare l’ingiustizia se serve a salvarci la pelle. E così, le stesse vittime diventano carnefici. La linea tra il male e il bene si sfuma, diventa grigia, confusa.
La prima lezione che mi ha lasciato questo drama è che non basta non fare del male per essere nel giusto. A volte, il solo non intervenire è già una scelta.
Uno degli aspetti più disturbanti di Pyramid Game è quanto tutto avvenga in modo metodico, regolare, “istituzionalizzato”. Le ragazze votano, compilano il modulo, partecipano ai pestaggi come se fossero parte di un rituale scolastico.
“Pensavo che se avessi ignorato tutto, alla fine sarebbe passato. Ma il silenzio non ferma niente. Lo alimenta.”
Ogni volta che nella nostra vita quotidiana scegliamo di voltare lo sguardo, stiamo partecipando. Non serve alzare le mani per diventare responsabili. Basta scegliere di non vedere.
E qui arriva una delle riflessioni più amare: viviamo in una società che premia la neutralità, anche quando è moralmente ingiusta. Non importa cosa pensi, importa cosa fai. E non fare nulla è fare qualcosa.
Il drama mette in scena una delle illusioni più diffuse e pericolose: l’idea che il merito – o la popolarità – possa giustificare tutto. Chi sta in alto è in alto perché se lo merita, chi è in basso “deve aver fatto qualcosa”.
“Se sei ultima, è perché te lo sei cercata.”
Questa frase, pronunciata con glaciale naturalezza, mi ha fatto rabbrividire. Perché l’ho sentita tante volte anche nella vita reale, mascherata da frasi come “forse è troppo sensibile” o “se non si difende è colpa sua”. In realtà, queste parole sono solo una coperta con cui nascondere la nostra pigrizia morale.
La realtà è che nessuno merita la violenza. Mai. Non ci sono giustificazioni, non ci sono “se” o “ma”. Chi è al potere, se sceglie di usarlo per distruggere, è responsabile. E chi guarda senza fermare, è complice.
Nel gioco della piramide, l’aspetto più crudele non è il dolore fisico, ma l’annullamento psicologico. Chi finisce in F non è solo isolata: viene cancellata. Nessuno la saluta, nessuno le parla, nessuno ne riconosce più l’umanità.
“A volte, essere ignorati fa più male che essere picchiati.”
E così ti convinci di non valere nulla. Di non esistere davvero. Di essere un peso, una presenza indesiderata. Questo drama mi ha ricordato che la solitudine non nasce solo dall’assenza, ma anche dalla presenza fredda di chi non ti vede.
Ogni volta che riconosciamo qualcuno, con uno sguardo, una parola, stiamo facendo una piccola rivoluzione. Stiamo dicendo: “Tu esisti. E questo conta.”
Ha-rin, la protagonista, ha una scelta difficile davanti a sé: unirsi al sistema per salvarsi, oppure opporsi e rischiare tutto. Ma la sua lotta non è solo esterna. È soprattutto interna. Ogni volta che si difende, che reagisce, che si ribella, sente il peso del dubbio: e se diventassi come loro?
“Non voglio vincere questo gioco. Voglio distruggerlo.”
La vera forza di questo drama sta nel ricordarci che la vittoria non è sempre sinonimo di giustizia. E a volte, l’unico modo per vincere davvero è rifiutare le regole del gioco.
La lezione più potente che ho imparato da Ha-rin è che puoi perdere tutto, ma se mantieni intatta la tua umanità, allora non sei davvero sconfitto.
Pyramid Game non è solo una critica al bullismo scolastico. È una metafora spietata della società. La scuola è il microcosmo, il riflesso di un mondo che insegna a classificare, dividere, etichettare.
“Chiunque può essere F. Serve solo un click.”
In un mondo dominato dai social, dalla popolarità, dai giudizi rapidi e violenti, ci troviamo tutti dentro un gioco simile. E ogni like, ogni commento, ogni silenzio, è un voto. La lezione qui è sottile ma profonda: forse la piramide non è una scuola, forse è la nostra realtà quotidiana.
Eppure, nonostante tutto, questo drama lascia uno spiraglio. Perché ci mostra che l’empatia è possibile. Che anche tra la crudeltà c’è chi si ferma, chi si fa domande, chi sceglie di non calpestare. Che si può dire basta.
“Non sono l’unica ad avere paura. Ma se anche una sola persona resiste, allora non tutto è perduto.”
Ed è questo che voglio portare con me: non basta essere gentili, bisogna anche essere coraggiosi. Perché solo chi ha il coraggio di difendere ciò che è giusto, anche quando è solo, può davvero cambiare qualcosa.
Pyramid Game ci sbatte in faccia una verità scomoda: ognuno di noi è parte di un sistema. Possiamo essere complici, vittime o ribelli. Ma scegliere è inevitabile. Possiamo chiuderci gli occhi, dire che “non ci riguarda”, ma alla fine anche il silenzio ha un peso.
Io ho capito che non voglio vivere in una piramide. Non voglio salire calpestando, né restare ferma a guardare. Voglio essere quella persona che tende la mano, che rompe il silenzio, che non accetta l’ingiustizia come una regola del gioco.
Perché nessuno merita di essere votato all’inferno.
Fonti:
Questo articolo nasce come naturale continuazione del mio post precedente, in cui riflettevo su una dinamica che ho notato spesso nell’industria dei K-Drama: quando un attore maschile partecipa a un progetto di successo, la sua popolarità esplode. Ma quando è un’attrice a farlo, anche se il drama è un trionfo, il clamore resta spesso circoscritto al personaggio e alla storia.
E oggi voglio raccontarvele.
E anche per noi spettatrici.
Sì, perché noi abbiamo bisogno di personaggi che ci somiglino, che ci raccontino senza filtri, che non siano solo principesse da salvare ma regine, soldatesse, avvocate, ribelli, attiviste, anime complicate e reali.