23 giugno 2025

Viaggio tra i sapori della Corea: quando la cucina diventa cultura (e conforto per l’anima)

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C’è qualcosa nei piatti coreani che va ben oltre il semplice gusto. Un sapore che si mescola a ricordi, stagioni, gesti antichi, racconti familiari e scene da drama. Che tu stia guardando una scena strappalacrime in cui due protagonisti condividono un pasto caldo sotto la pioggia, o che ti trovi a vagare per le vie di Seul nel cuore dell’inverno, la cucina coreana è lì, pronta ad abbracciarti. Non è solo cibo. È casa, è storia, è emozione. Ed è anche uno dei motivi per cui tantissimi di noi si sono avvicinati alla Corea del Sud: tra un K-drama e una canzone K-pop, alla fine ci siamo ritrovati con l’acquolina in bocca a desiderare di assaggiare ogni piatto visto sullo schermo.

Ma se già la cucina coreana salata ci ha conquistati, i dolci tradizionali sono un mondo a parte. E allora iniziamo proprio da lì. Preparatevi a un viaggio tra dessert che sembrano arrivare da un tempo sospeso, carichi di significato, simbolismo e – ovviamente – gusto.


Songpyeon (송편)

Piccole torte di riso dalla forma semicircolare, ripiene di pasta di castagne, semi di sesamo o fagioli rossi. Tradizionalmente si mangiano durante il Chuseok, la festa del raccolto autunnale coreano. C’è qualcosa di profondamente poetico nel prepararli: si dice che chi crea il Songpyeon più bello avrà una figlia bellissima. E in fondo, ogni torta è una piccola preghiera per la prosperità.

Bungeoppang (붕어빵)

Sembra un pesce, ma è una dolce carezza d’inverno. Pasta soffice, cialda croccante e un ripieno caldo di fagioli rossi dolci: è il comfort food che ti aspetta per strada nelle giornate fredde, con il vapore che si alza dal sacchetto mentre lo addenti.

Bupyeon

Una delizia delicata fatta con farina di riso glutinoso e un cuore dolce, ricoperto di gomul (fagioli cotti e ridotti in polvere). Il contrasto tra il morbido interno e l’esterno leggermente granuloso crea un equilibrio sorprendente.

Yumilgwa (유밀과)

Dolce fritto fatto con farina di grano e miele. Croccante, caramellato, quasi barocco nel sapore, è uno dei dolci reali per eccellenza. Un pezzo tira l’altro.

Gyeongju Bbang (경주 빵)

Un piccolo pane dolce ripieno di fagioli rossi, nato nel 1939 nel cuore di Gyeongju. Non solo un dessert, ma una parte della storia della città, tanto che è conosciuto anche come “Hwangnam bread”. Morbido, essenziale, familiare.

Patbingsu (팥빙수)

Il re dell’estate. Ghiaccio tritato, latte condensato, frutta fresca, sciroppi vari e – naturalmente – fagioli rossi. Un arcobaleno freddo e dolce, che si scioglie lentamente mentre il caldo ti assedia.

Hotteok (호떡)

Una sorta di pancake ripieno di zucchero di canna, cannella, sesamo e arachidi tritate. Una bomba dolce che ti scalda le mani e il cuore nelle giornate gelide. Il rumore del primo morso che rompe la crosta dorata è già poesia.

Kkultarae (꿀타래)

Torta di miele reale, conosciuta anche come “caramella della barba del drago”. Un impasto di miele e maltosio tirato in migliaia di filamenti setosi che racchiudono noci o cioccolato. In passato era riservato alla corte reale, oggi è uno dei simboli della dolcezza coreana.

Tteok (떡)

Gli onnipresenti gnocchi di riso coreani. Ce ne sono decine di varianti, dolci e salate, ma in tutte si ritrova quella consistenza compatta, quel senso di antica ritualità che accompagna le occasioni speciali.

Injeolmi (인절미)

Una variante dei tteok, coperta con polvere di fagioli al vapore. È il tipo di dolce che potresti vedere servito con il tè, in un pomeriggio di chiacchiere lente e memorie condivise.


E ora passiamo ai piatti salati, quelli che trovi nei drama, quelli che fanno sbavare anche chi dice “non mangio piccante”, quelli che sembrano sempre comparire quando i personaggi hanno bisogno di conforto. La cucina coreana non si limita a nutrire lo stomaco: ti consola, ti accompagna, ti parla.

Seolleongtang (설렁탕)

Brodo bianco latteo a base di ossa di bue, servito con tagliatelle e scalogno. È uno dei piatti più amati d’inverno, accompagnato da riso e kimchi. È semplice, ma potente. È come una coperta calda in forma liquida.

Samgyetang (삼계탕)

L’opposto stagionale del Seolleongtang. Un pollo intero farcito con riso glutinoso, bollito con ginseng e aglio. Si mangia in estate, per ricaricarsi nei giorni di afa. L’idea è combattere il caldo con il caldo. E funziona.

Sundubu Jjigae (순두부찌개)

Uno stufato piccante con tofu morbido, funghi, verdure, frutti di mare e un uovo crudo che cuoce direttamente nel brodo fumante. Servito in una ciotola di pietra bollente, è l’essenza stessa del calore. E anche della passione coreana per il cibo che brucia (in tutti i sensi).

Budae Jjigae (부대찌개)

“Stufato dell’esercito”, nato dopo la guerra, quando la fame si affrontava con ciò che si trovava: spam, salsicce, formaggio fuso, ramen. Un mix improbabile ma incredibilmente amato, che oggi è diventato un simbolo di creatività e resilienza.

Naengmyeon (냉면)

Tagliatelle di grano saraceno fredde, servite in brodo ghiacciato. Cetrioli, ravanello, uovo sodo. Dissetante, rinfrescante, il modo coreano per affrontare l’estate con eleganza.

Japchae (잡채)

Tagliatelle di patate dolci saltate con verdure e carne. Un contorno festivo, ma anche uno dei piatti più versatili. Dolce, salato, morbido e croccante insieme. Perfettamente equilibrato.

Haemul Pajeon (해물파전)

Frittelle croccanti di cipolla verde e frutti di mare. Si dice che siano perfette da mangiare nei giorni di pioggia, perché il rumore della frittura ricorda quello delle gocce. Non so voi, ma io ho già voglia di ascoltarle.

Bulgogi (불고기)

Carne di manzo marinata e grigliata, da avvolgere in foglie di lattuga con pasta piccante. Il bulgogi è più di un piatto: è un’esperienza. Da condividere. Da gustare lentamente, mentre si parla, si ride, si vive.

Tteokbokki (떡볶이)

Iconico cibo da strada. Torte di riso piccanti, morbide e masticabili, immerse in una salsa rossa intensa. Aggiungi ramyeon, e diventa un piatto da sogno. O da dipendenza.

Bibimbap (비빔밥)

Una ciotola di riso mescolato con tutto: verdure, carne, uovo, olio di sesamo, pasta piccante. È il simbolo della cucina coreana: armonia degli ingredienti, semplicità e ricchezza insieme. Mescoli tutto, e scopri che ogni boccone è diverso dal precedente.


E allora sì, possiamo dirlo: il cibo coreano non è solo buono. È narrativo. Ogni piatto racconta una storia. Ogni ingrediente ha un’anima. E noi, spettatori incantati, non possiamo fare altro che ascoltare – e assaporare.

il mondo parallelo dei web drama e dei webtoon coreani

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A volte mi chiedo se, dietro l’amore collettivo per i K-drama, ci sia anche il fascino irresistibile dell’incompiuto, di quelle storie che vivono nei ritagli di tempo, tra un viaggio in metro e una pausa pranzo. E se è vero che ci perdiamo nei drama serali da sedici episodi, è altrettanto vero che la Corea ha trovato un modo per farci innamorare anche delle cose brevi. Brevissime, a dire il vero.

Parlo dei web drama, quei mini-drammi da 5 a 20 minuti a episodio, spesso distribuiti direttamente su internet. Ne bastano sei, otto, massimo dieci episodi, eppure sanno colpirti in pieno petto. Non hanno bisogno di grandi budget né di lunghi script per raccontare qualcosa di intimo, divertente, tenero, o addirittura surreale. E soprattutto, parlano il linguaggio dei giovani. Quello veloce, mobile-friendly, da smartphone sempre in mano. Come se le emozioni dovessero stare nei pochi minuti che separano una notifica da un’altra.

Uno dei primi che mi ha colpito, tempo fa, è stato After School: Lucky or Not (방과 후 복불복), un racconto scanzonato su un club doposcuola che ha totalizzato 10 milioni di visualizzazioni su Sohu.com in Cina. Oppure Aftermath (후유증), dove un adolescente scopre di avere poteri soprannaturali – e boom, 4 milioni di views in pochissimo tempo. Non c’è da stupirsi se le grandi aziende ci hanno messo gli occhi sopra: KBS, il colosso radiotelevisivo coreano, ha cominciato a distribuire contenuti originali proprio attraverso il suo portale web. Ma non è da meno neanche Samsung, che ha prodotto serie proprie. Non è più solo intrattenimento: è un ecosistema narrativo pensato apposta per un pubblico abituato a sfogliare vite, amori e colpi di scena col pollice.

Eppure, non si tratta solo di lanciare contenuti nuovi. A volte, il web drama è anche un esperimento narrativo. Prendiamo The Search for Battle (간서치열전): un episodio unico da 70 minuti, che però è stato inizialmente diviso in sette mini-episodi da 10 minuti ciascuno, caricati a scaglioni su Naver TV Cast. Prima sei episodi sul web, poi l’episodio intero in TV, e infine il settimo rilasciato online. Una strategia precisa: incuriosire, catturare, fidelizzare. E lo fanno raccontando storie profondamente coreane, come quella di Hong Gil-dong, il Robin Hood della dinastia Joseon. Un po’ leggenda, un po’ giustiziere sociale, completamente inserito in quel tipo di narrazione che i coreani sanno gestire così bene: affondo emotivo e respiro epico, anche in dieci minuti.

Il successo è tale che anche le star più famose non disdegnano il passaggio nei web drama. Kim Woo-bin e Jang Hyuk, nomi noti ai fan dei drama mainstream, sono apparsi in Love Cells (연애세포), una storia a metà tra romanticismo e sci-fi, ispirata – guarda caso – a un webtoon. E qui si apre un altro capitolo.

Se i web drama sono pillole di fiction, i webtoon sono romanzi illustrati che si leggono con un dito sullo schermo. Non più carta e inchiostro, ma scroll verticali e colori accesi. Nati alla fine degli anni ’90, i webtoon sono esplosi nel 2003 con piattaforme come Naver e Daum, che hanno iniziato a pubblicarli regolarmente, trasformandoli in una nuova forma d’arte digitale. Brevi, rapidi, ma capaci di toccare ogni genere narrativo: dal romantico al thriller, dal comico al tragico. E soprattutto, interattivi. Perché ogni lettore può commentare, dire la sua, stabilire un legame diretto con gli autori.

Nel 2014, Naver contava 128 webtoon settimanali, Daum 85. Solo da PC, oltre 6,2 milioni di persone al giorno leggevano webtoon su Naver – e questo senza contare smartphone e app. È una cifra che parla da sola, e racconta un popolo che legge, sente, vive storie digitali quotidianamente.

Questa popolarità ha innescato un fenomeno interessante: la trasformazione dei webtoon in film, drama e merchandising. Il successo di Secretly Greatly (은밀하게 위대하게), per esempio – la storia di tre bellissime spie nordcoreane in incognito in Corea del Sud – nasce proprio da un webtoon. Così come Misaeng, la serie che ha fatto impazzire mezza Corea raccontando le frustrazioni e i sogni di impiegati normali, è riuscita addirittura a spostare il pubblico dei webtoon: non più solo giovani uomini, ma anche donne e adulti tra i 30 e i 40 anni. Una rivoluzione silenziosa ma potentissima.

E non finisce lì. Dai webtoon nascono pupazzi, tazze, quaderni, linee di cancelleria. Socks Ghost (양말도깨비) è un esempio perfetto: da vignette online a brand a tutto tondo. Una creatura di pixel che diventa oggetto reale, una fantasia che puoi toccare.

Il futuro, inutile dirlo, è internazionale. Per ora la maggior parte dei webtoon è solo in coreano, ma sia Daum che Naver hanno già mosso i primi passi per tradurre ufficialmente i titoli più amati. Ed è solo questione di tempo prima che la diffusione globale faccia quello che ha fatto il K-pop: trasformare una nicchia nazionale in un movimento mondiale.

E allora sì, forse abbiamo bisogno anche di questo. Di storie brevi che ci rubino dieci minuti, di illustrazioni che ci parlino più di mille parole, di amori assurdi e mondi paralleli che prendono forma dentro il palmo della nostra mano. E di quella sensazione, dolce e intensa, che anche in poco tempo si possa raccontare tutto. O, almeno, abbastanza da farci venire voglia di leggere – o guardare – ancora.

Fonte:

  1. https://koreancultureblog.com/

Pennellate di identità: il viaggio eterno dell’arte coreana

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Ci sono storie che non si raccontano con le parole, ma con i colori, le forme, le linee, le mani che modellano l’argilla o che affondano il pennello nell’inchiostro nero. La storia dell’arte coreana è una di quelle storie: silenziosa, potente, profondamente identitaria. È un viaggio attraverso secoli di dominio, di spiritualità, di lotta per l’espressione e per la memoria. È un canto visivo che si è adattato, trasformato, resistito. È bellezza che si ostina a vivere, anche quando tutto il resto viene dimenticato.

Le radici profonde: i Tre Regni

Il primo grande battito di quest’anima artistica si sente durante il periodo dei Tre Regni (57 a.C. - 668 d.C.), in cui la penisola era spartita tra Koguryŏ, Paekche e Silla. Ognuno con la propria geografia, il proprio spirito e una diversa inclinazione artistica.

Koguryŏ, nato nelle terre aspre della Manciuria meridionale, si portava addosso il carattere duro del suo territorio: poche terre coltivabili, clima rigido, ma uno spirito forte e indomito. Non stupisce quindi che la sua pittura, emersa soprattutto nei dipinti murali tombali, fosse vivace, dinamica, e profondamente legata al mondo spirituale e sciamanico. Quelle tombe, decorate con divinità, costellazioni, scene di caccia e danze, raccontano più della vita che della morte. La pittura Koguryŏ non si limitava a imitare la Cina: prendeva le influenze e le piegava alla propria identità, con pennellate energiche e colori vivi. Era una pittura di popolo, fiera, in cui anche un cavallo in corsa sembrava una dichiarazione d’esistenza.

Paekche, invece, si apriva al mondo. La sua posizione, favorevole agli scambi via mare e terra, la rendeva un crocevia di culture. L’arte Paekche era dolce, accogliente, quasi femminile. Accoglieva il buddismo, si lasciava sedurre dalle influenze cinesi meridionali, e cominciava a scolpire, a dipingere, a costruire. Le statue di Buddha con il famoso “Paekche smile” non erano solo opere d’arte: erano anime scolpite nella pietra, promesse di serenità. Anche il Giappone, in questo periodo, cominciava a ricevere dalla Corea i suoi primi semi d’arte: scrittura cinese, buddismo, vasellame. Un’eredità ancora visibile oggi nei musei e nei templi giapponesi.

Silla, il più conservatore e antico dei tre, con le sue miniere d’oro e i tumuli funerari monumentali, brillava in un modo tutto suo. Le sue corone d’oro, ritrovate nelle tombe di Kyŏngju, non erano semplici gioielli: erano rami d’albero, corna stilizzate, sogni d’eternità incastonati di giada. La sua ceramica era austera, grigia, decorata con piccole figure umane e animali, come se volesse trattenere per sempre qualcosa della quotidianità in oggetti destinati all’aldilà.

Chosŏn: l’identità e il ritorno a sé

Dopo secoli di bellezza, potere e trasformazioni, nel 1392 nacque la dinastia Chosŏn, e con essa un nuovo respiro per l’arte coreana. Seoul divenne il centro del mondo coreano, e il confucianesimo prese il posto del buddismo come credo ufficiale. La spiritualità non scomparve, ma si fece più intima, meno monumentale. La nuova estetica era sobria, controllata, austera. Eppure, in questa semplicità, l’arte coreana trovò la sua voce più autentica.

Mentre l’élite si formava all’Ufficio della Pittura, nascevano correnti diverse: quella del paesaggio vero, che rifiutava le montagne idealizzate della pittura cinese e sceglieva le vere cime coreane, come il Monte Kŭmgang, immortalato da Chŏng Sŏn con linee verticali forti e piene di carattere. Oppure quella dei dipinti di genere, portati avanti da maestri come Kim Hong-do e Sin Yun-bok, che con realismo pungente raccontavano la vita quotidiana dei contadini, degli artigiani, delle donne. Non più solo divinità e imperatori: l’arte finalmente guardava il popolo negli occhi.

Accanto a queste correnti erudite, viveva il minhwa, l’arte popolare. Dipinti colorati, pieni di simboli e sogni: tigri buffe che sorvegliavano le case, scaffali che promettevano saggezza, paesaggi che portavano fortuna. Lontani dai canoni accademici, questi quadri erano preghiere dipinte, speranze appese alle pareti di legno. Nessuno firmava queste opere, ma ciascuna portava la voce della gente comune, della Corea più vera.

In scultura, il buddismo sopravviveva nelle immagini dorate in argilla, sostenute da legno, mentre nei cimiteri reali le statue di ufficiali e animali guardavano i sepolcri con occhi sporgenti e corpi squadrati, quasi a custodire la memoria con severità.

E poi la ceramica. Il punch’ŏng, figlio decadente del raffinato celadon Koryŏ, si reinventava in forme nuove, più veloci, più grezze ma anche più vitali. I coreani trovavano bellezza nella semplicità, nell’imperfezione. E quando il bianco diventò il colore dominante — nelle porcellane sobrie, nei vasi decorati appena con blu o ferro — sembrava che l’anima coreana stesse cercando di purificarsi da secoli di invasioni e conflitti. In quel bianco lattiginoso, c’era tutta la volontà di essere semplicemente sé stessi.

Modernità: resistere e reinventarsi

Con l’arrivo del dominio giapponese nel 1910, l’arte coreana fu obbligata a guardare verso l’esterno. I pittori tradizionali venivano schiacciati dai nuovi canoni imposti, e anche la pittura a olio, inizialmente derisa, cominciava lentamente a farsi strada. Alcuni, come Ko Hŭi-dong, si arresero, ma altri resistettero, creando una nuova sintesi tra antico e moderno. L’influenza occidentale, filtrata prima dalla Cina e poi dal Giappone, cominciava a farsi sentire: prospettive, chiaroscuri, illusioni tridimensionali.

Eppure, anche in questo cambiamento, l’identità coreana non veniva mai completamente cancellata. Negli anni Cinquanta, nacque il movimento Informel, che abbracciava l’arte astratta occidentale ma con uno spirito profondamente coreano: libero, emotivo, spontaneo. Negli anni Settanta, l’arte monocromatica — fatta di bianchi, grigi, superfici vuote — cercava un’armonia che ricordava la meditazione, il silenzio, l’essenzialità. E negli anni Ottanta, l’arte Minjung Misul riportava in primo piano la protesta, la politica, la rabbia collettiva. L’arte tornava ad essere voce, denuncia, appartenenza.


L’arte coreana, nei suoi tremila anni di storia, non ha mai smesso di essere resistenza e identità. Ha parlato di dèi e di uomini, di re e di contadini, di guerra e di pace, di sogni e superstizioni. È passata dal grigio severo delle tombe al bianco purissimo delle porcellane, dai murales pieni di spiriti ai paesaggi veri, dalle ceramiche rituali ai dipinti satirici. E oggi continua a parlare. In un mondo globale, iperconnesso, dove tutto sembra appiattirsi, l’arte coreana ci ricorda che si può cambiare senza smettere di essere sé stessi. Che si può guardare al mondo senza perdere lo sguardo interiore.

Perché ogni pennellata, ogni scultura, ogni oggetto, è il battito di un popolo che ha sempre saputo trasformare la ferita in bellezza.