22 ottobre 2025

Quando l’assenza di empatia diventa una storia da raccontare (Genie, Make a Wish e il disturbo antisociale di personalità)

 

Ci sono drama che ci colpiscono per l’ambientazione, la fotografia, la storia d’amore o il finale. E poi ce ne sono altri che ci lasciano addosso qualcosa di più silenzioso, quasi scomodo: una riflessione che cresce piano, fino a farsi domanda. Genie, Make a Wish per me è stato questo. Non per la trama in sé, ma per una tematica rara e un personaggio difficile da dimenticare: Ki Ka-young.

Era la prima volta che vedevo rappresentato in un drama il disturbo antisociale di personalità, qualcosa che avevo solo sentito nominare di sfuggita nei manuali o nei documentari. Non mi aspettavo che potesse essere raccontato così: con freddezza, ma anche con una strana forma di umanità nascosta tra le righe.

Guardando Ka-young mi sono chiesta più volte dove finisca il disturbo e dove inizi la persona. Perché dietro ogni comportamento che ci appare “anormale” c’è sempre una storia, una ferita, un perché.

Nel corso delle puntate, Ka-young si mostra impassibile, distaccata, quasi impenetrabile. Non prova rimorso per le sue azioni, non si lascia sfiorare dal dolore altrui, eppure vive in modo rigoroso, quasi morale, seguendo regole e routine tramandate dalla nonna. È un paradosso: una donna incapace di provare empatia, ma capace di scegliere una vita retta.

Ho scoperto che chi soffre di questo disturbo tende a ignorare i diritti e i sentimenti altrui, mentire, manipolare, agire senza rimorso. Eppure, nel caso di Ka-young, qualcosa incrina questo schema. Forse è la presenza del genio Iblis — figura che funge da specchio, che legge i suoi pensieri oscuri e, anziché respingerli, li osserva. È come se, per la prima volta, qualcuno la vedesse davvero. E quando ci si sente visti, anche solo per un attimo, qualcosa cambia.

Ho pensato a quanto spesso le persone giudichino senza cercare di capire. Ka-young non è un mostro, anche se la sua mente funziona in modo diverso. È una donna che ha imparato a sopravvivere al rifiuto, all’abbandono, all’indifferenza. Le scene in cui la vediamo bambina, respinta dalla madre e lasciata sola, acquistano un peso diverso se le guardiamo alla luce di questa consapevolezza: l’abuso e l’incuria durante l’infanzia possono plasmare un’anima fino a renderla incapace di fidarsi del mondo.

Il drama non cerca di redimerla completamente. Non promette miracoli. Ma ci invita a riflettere su una domanda più grande: una persona con tendenze antisociali può cambiare, o almeno scegliere di non nuocere? Forse sì, se trova un motivo, o qualcuno, per cui valga la pena provarci.

Quello che mi ha colpita è proprio questo: Ka-young, pur nella sua assenza di emozioni, cerca la rettitudine. Non perché la senta, ma perché la comprende. C’è una differenza sottile ma profonda tra provare empatia e scegliere consapevolmente di rispettare gli altri. Ed è in quella differenza che ho visto l’essenza umana del personaggio. A volte, chi viene considerato “diverso” riesce a vivere con più coerenza e rigore di chi si crede emotivamente integro.

Genie, Make a Wish ci ricorda che non tutti coloro che appaiono freddi sono privi di profondità. Alcune persone vivono un’emotività nascosta, silenziosa, che non si traduce in lacrime o sorrisi, ma in gesti, abitudini, regole personali.

E mi sono chiesta: quante volte giudichiamo chi non reagisce come noi? Quante volte scambiamo il silenzio per indifferenza, la freddezza per cattiveria, l’intelligenza analitica per insensibilità?

Forse il vero messaggio del drama non è la redenzione di Ka-young, ma il nostro sguardo su di lei. Imparare a osservare senza etichettare, a capire senza giustificare, a riconoscere che anche chi non sente come noi può avere un codice morale, un modo tutto suo di essere “buono”.

In fondo, ognuno di noi combatte contro qualcosa di invisibile. Ka-young lo fa a modo suo, con le armi che ha, in un mondo che non perdona chi non sa mostrarsi vulnerabile. E forse è proprio lì, nel suo sforzo silenzioso di vivere una vita “giusta”, che ho trovato la lezione più importante di tutte: non serve provare empatia per scegliere di non ferire. Serve solo la volontà di non farlo.