15 luglio 2025

Il sapore del mare tra le dita: la sorprendente storia del gim, l’alga che ha conquistato la Corea (e il mondo)

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Ci sono sapori che parlano una lingua universale. Anche se non li conosci, anche se non li hai mai assaggiati, appena li provi… li capisci. Il gim — o 김 — è uno di questi. Un semplice foglio nero e lucido che scricchiola tra i denti come carta bruciacchiata, e che sa di mare, di casa, di storia. In Corea è molto più di un ingrediente: è un rito quotidiano, un simbolo nazionale, un’eredità preziosa che ha attraversato secoli, guerre, e rivoluzioni alimentari. E adesso, finalmente, è pronto a farsi conoscere dal resto del mondo.

Dalla roccia al piatto: il viaggio affascinante dell’alga

Per i coreani, il gim è un compagno fedele della tavola. Si mangia arrostito, condito, sbriciolato, fritto, bollito. Si accompagna al riso, alle zuppe, ai noodle. È uno degli alimenti più esportati del paese, secondo solo al tonno, e ha persino guadagnato il soprannome affettuoso di “semiconduttore del mare” per la sua diffusione globale. Eppure, per molti occidentali, l’alga resta ancora un mistero. Una “carta nera” dal sapore indefinito, da cui in passato si rifuggiva, ma che oggi comincia a conquistare i palati più curiosi come snack sano e leggerissimo, ricco di micronutrienti e povero di calorie.

In Corea, il gim si presenta come sottili fogli scuri che, una volta tostati con olio di sesamo o perilla e un pizzico di sale, diventano croccanti e irresistibili. La tradizione vuole che si serva con il riso, magari arrotolato in piccoli rotolini, oppure sbriciolato su verdure saltate, zuppe o palline di riso. Esistono anche versioni più elaborate: il gimjaban, condito con salsa di soia; il gimbugak, fritto con farina di riso glutinoso; e la zuppa di gim, un piatto delicato che scalda l’anima.

Ma il gim è solo una delle tante varietà di alga rossa appartenente al genere Porphyra. Nel mondo ne esistono almeno settanta, molte delle quali crescono spontanee in aree costiere di Galles, Scozia e Irlanda. Qui prende il nome di laverbread — il “caviale gallese” — una purea scura ottenuta bollendo a lungo le alghe, impanandole nella farina d’avena e friggendole nel grasso di pancetta. Non è proprio pane, ma resta un alimento simbolo per le popolazioni di mare.

Il segreto del gusto perfetto? L’umami moltiplicato

C’è un detto coreano che recita: “Se metti la polvere di gim in una zuppa, stai barando.” È una battuta, certo, ma svela una verità profonda: il gim ha il potere di trasformare qualsiasi piatto in un capolavoro di sapore.

Il merito va al trio magico dell’umami: acido glutammico, acido inosinico e acido guanilico. Queste tre sostanze, insieme, non sommano il gusto... lo moltiplicano. In pratica, bastano piccole dosi per creare esplosioni di sapore che non hanno bisogno di sale o aromi artificiali. E il gim li contiene tutti e tre. Ecco perché, anche solo una spolverata, può fare la differenza tra un brodo mediocre e una sinfonia di sapori.

Ma non è solo questione di gusto. Il gim è anche dolce. Contiene zuccheri liberi naturali che lo rendono piacevolmente delicato. Ecco perché, quando lo assaggi, senti qualcosa di più del semplice “sapore di mare”.

Tradizione, evoluzione e un pizzico di scienza

Il gim ha una storia antica, ma la sua coltivazione scientifica è sorprendentemente recente. Per secoli, i pescatori coreani aspettavano che le spore dell’alga si attaccassero da sole alle conchiglie o alle rocce. Solo alla fine degli anni ’40, una biologa britannica — Kathleen Mary Drew-Baker — scoprì il ciclo vitale completo del gim, rendendo possibile la coltivazione controllata. In Giappone, è ricordata come la “Madre del Mare”. Grazie a lei, la Corea, il Giappone e la Cina sono oggi i tre principali produttori mondiali.

La coltivazione moderna si è evoluta: prima si usavano pali piantati nei fondali per far crescere le alghe come in natura, oggi si preferiscono reti galleggianti in mare aperto. Il raccolto avviene da novembre a febbraio, e anche se ormai si usano essiccatori industriali, alcune comunità conservano la tradizione dell’essiccazione al sole.

Un concentrato di micronutrienti

Tre grammi di gim — un singolo foglio — bastano per regalarti un concentrato di vitamine e sali minerali. Anche se non è sufficiente come fonte primaria di proteine, è dieci volte più ricco di minerali rispetto alle piante terrestri. Contiene beta-carotene, vitamina C, E, B12, ferro, acidi grassi omega-3 e, soprattutto, iodio. Un tempo, in Galles, le madri dicevano ai figli: “Se non vuoi avere il collo gonfio come quelli del Derbyshire, mangia il pane d’alga.” Era un modo per prevenire il gozzo da carenza di iodio nelle zone lontane dal mare.

Inoltre, il gim è ricco di porphyran, una sostanza che protegge le alghe dagli sbalzi di marea, dal sale e dai raggi UV. Nell’intestino umano, si comporta da fibra alimentare, aiuta il sistema immunitario e ha proprietà anticancerogene. È affascinante pensare che ciò che salva l’alga nel suo ambiente estremo... può salvare anche noi.

Il cuore del kimbap e l’anima di uno snack

Forse il modo più noto in cui il gim si è fatto amare nel mondo è il kimbap: un rotolo perfetto dove il riso bianco, le verdure colorate, la frittata e magari un tocco di carne vengono avvolti nel foglio nero lucido dell’alga. È uno dei cibi da asporto più amati in Corea, lo trovi ovunque: nei lunchbox, nei picnic, negli zaini degli studenti. Eppure ogni morso sa di equilibrio, di armonia, di quella semplicità raffinata che solo la cucina coreana sa regalare.

Ma il gim sa anche reinventarsi. A primavera, quando inizia a perdere sapore, viene trasformato in crackers croccanti impastati con farina di riso glutinoso e fritti. In inverno, accompagna zuppe e piatti caldi. E oggi si trova anche in mille forme moderne: chips, snack salati, bastoncini croccanti... un ponte tra tradizione e innovazione.

Un’alga che unisce i mondi

Mangiare gim, oggi, è come sfogliare un libro che racconta storie di mare, di fatica, di scoperta. Ma anche di donne e uomini che, da una costa all’altra, hanno condiviso saperi, tentativi, fallimenti e successi. È cibo che parla di connessione. Di come qualcosa che nasce attaccato a una roccia possa arrivare sulla tavola di qualcuno dall’altra parte del mondo.

E forse è proprio questo il suo potere. Ricordarci che, anche se veniamo da posti diversi, esiste un gusto capace di farci sentire un po’ più vicini.

Fonte: https://mymileshinesmile.blogspot.com/2024/01/the-story-of-korean-seaweed.html

Il sapore di casa: la storia emozionante del samgyeopsal, il re del barbecue coreano

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Quando pensiamo alla Corea e alla sua cucina, è facile che ci venga in mente subito il kimchi. Ma c’è un altro protagonista silenzioso, forse ancora più amato nelle serate tra amici, nelle cene aziendali, nelle giornate di festa: il samgyeopsal (삼겹살). Grasso e magro che si alternano in strati perfetti, sfrigola su una piastra rovente, diffondendo un profumo irresistibile che fa venire l’acquolina solo a sentirlo. Non è solo carne: è ricordo, tradizione, compagnia.

Un amore popolare e senza fronzoli

Il samgyeopsal è la pancia del maiale tagliata a strisce spesse, spesso arrostita direttamente al tavolo, magari su una piastra di ghisa o su braci di carbone. In Corea, è considerato il cibo della gente comune, nutriente, conviviale, rassicurante. Non servono salse elaborate o tecniche complesse: solo carne, calore e condivisione.

Negli anni Ottanta, quando le grigliate all’aperto sono esplose in popolarità, le persone portavano con sé fornelli a gas portatili per cucinare samgyeopsal in mezzo alla natura. Ma presto le montagne coreane si riempirono di fumi e macchie d’olio, tanto che nel 1992 il governo vietò ufficialmente di cucinare nei parchi nazionali. Era un segno chiaro: il samgyeopsal era diventato un fenomeno nazionale, tanto potente da influenzare persino la legge.

Un'origine umile, un'identità profonda

La sua storia comincia a Kaeseong, all’inizio del Novecento. Lì, tra mercanti creativi e botteghe di carne, qualcuno ebbe l’idea di nutrire i maiali alternando alimenti per ottenere quella tipica stratificazione tra grasso e carne. Un piccolo trucco che diede origine a un grande amore.

Nella carne di maiale coreana, il samgyeopsal è una delle sette sezioni principali: né la più pregiata, né la più costosa. Ma è quella che ha saputo conquistare il cuore delle persone. La prima testimonianza scritta del samgyeopsal la troviamo in un libro di cucina del 1931, in cui viene descritto teneramente come “carne a tre strati”. Una definizione semplice, ma piena di affetto.

L’arrivo della carne straniera e la rivoluzione della tavola

Negli anni ’70, con l’aumento della domanda interna e l'influenza della cucina giapponese, la Corea iniziò a importare grandi quantità di carne di maiale, in particolare i tagli meno pregiati. Quelli scartati per preparare il tonkatsu giapponese finivano sulle tavole coreane. E così nacque una nuova abitudine: il gukbap, la zuppa di riso e maiale bollito, simbolo della cucina popolare.

Il samgyeopsal divenne protagonista di un'evoluzione incredibile. Oggi ne esistono tante varianti: marinato nel vino rosso, congelato e tagliato finemente (daepae samgyeopsal), grigliato sul coperchio rovesciato di una pentola (sottukkeong)... e la versione più raffinata: l’ogeopsal, cioè il samgyeopsal dei maiali neri di Jeju, servito con la pelle. Croccante, succoso, pregiato. Ma attenzione: non tutti i maiali neri di Jeju sono “veri”. Solo una piccola parte è considerata razza autoctona protetta, oggi in pericolo di estinzione e non destinata al consumo.

Più di un piatto: un’identità che si difende col gusto

Il samgyeopsal è diventato negli anni un simbolo di resistenza culturale. Anche se il suo prezzo è triplicato e buona parte della carne viene importata da Germania, Belgio, Spagna, Stati Uniti e Cile, i coreani non smettono di amarlo. Anche quando si fanno largo scelte più salutari come le cosce o i filetti più magri, l’attaccamento alla pancia di maiale grigliata rimane intatto. È una memoria che si rinnova ogni volta che lo si porta alla bocca.

In un mondo che cambia, il samgyeopsal resta una certezza. Come il primo amore: magari semplice, magari un po’ grasso, ma sincero. E profuma sempre di casa.

Il maiale nel mondo: un amore che cambia forma

In Cina, il maiale è così importante che lo chiamano semplicemente “carne”, mentre tutto il resto viene specificato. Si dice che Mao Zedong andasse pazzo per il Dongpo Rou, uno stufato lucido e tenero di pancetta cotta con alcol e salsa di soia. A Okinawa, la versione locale si chiama Rafute, con l’aggiunta del tipico soju. In Spagna, la pancetta diventa Jamon Iberico, un prosciutto stagionato per anni che vale quanto una dote di matrimonio.

Ogni paese ha la sua pancetta, ogni cultura la sua storia. Ma in Corea, il samgyeopsal è più di un cibo: è un rito collettivo, un racconto di popolo, un momento di calore condiviso che si ripete, sera dopo sera, griglia dopo griglia.


Fonte: https://mymileshinesmile.blogspot.com/2024/01/korean-grilled-pork-belly-samgyeopsal.html

Siraegi e il Radicchio d’Inverno: il sapore del tempo, della fatica e della memoria

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Ci sono cibi che non nascono per essere amati al primo assaggio. Hanno bisogno di tempo, pazienza, lentezza. Come certe persone che si fanno conoscere piano, ma poi ti restano dentro per sempre. Uno di questi è il siraegi (시래기): foglie di ravanello o cavolo essiccate, sopravvissute al gelo dell’inverno coreano, che portano in tavola un sapore antico, quasi dimenticato. Un sapore che sa di sopravvivenza, di ingegno, di stagioni che passano e che ritornano.

In Corea, il ravanello non è solo un contorno: è un compagno fedele del riso, una radice che ha sfamato generazioni intere. Non esiste tavola tradizionale senza almeno una pietanza a base di mu (무), il ravanello coreano. Non è il “daikon” giapponese, lungo e delicato, ma un ortaggio più tozzo, dalla pelle verde vicino al gambo e dal carattere deciso. Un radicchio che si fa rispettare. In inverno, quando le verdure scarseggiavano e la fame bussava alle porte, era lui a garantire il fabbisogno di vitamina C. Ed è per questo che lo chiamavano “il ginseng d’inverno”.


Il dono del gelo: quando la povertà crea sapori indimenticabili

Il siraegi nasce così: foglie che sembrano scarti, lasciate dopo la preparazione del kimchi, esposte a pioggia, vento e gelo. Foglie che appaiono rugose, stropicciate, “brutte”. Eppure, se essiccate e poi bollite con pazienza, diventano morbide, saporite, nutrienti. Una volta, si lasciavano asciugare all’ombra, si spezzettavano, si bollivano insieme a un pugno di riso o farina, e quel poco diventava un pasto. Bastava a scaldare lo stomaco e dare speranza.

Oggi, quel sapore è tornato alla ribalta. I ristoranti lo propongono con orgoglio, gli chef lo esaltano. Ma la sua anima resta umile. Per apprezzare davvero il siraegi bisogna mangiarlo più volte, superare lo shock iniziale dell’odore sulfureo che si sprigiona durante la cottura. Serve tempo, come per i ricordi d’infanzia che all’inizio fanno male e poi diventano teneri. È un gusto che si svela lentamente, e quando lo fa… non lo dimentichi più.


Primavera: il momento in cui il siraegi torna a casa

Il siraegi, ammorbidito da tre cicli di congelamento e scongelamento, si trasforma. Si sposa perfettamente con il brodo d’acciuga o d’anguilla, con la pasta di soia, con l’aglio e il peperoncino. Non ha bisogno di carne per sembrare carne. Il suo sapore umami, dato dall’acido glutammico e dai composti solforati, è lo stesso che si trova nella carne, ed è per questo che sorprende: è vegetale, ma sa di sostanza.

Nella cucina tradizionale coreana, siraegi-namul (foglie saltate con carne e condimenti), siraegi-jijim, e zuppe con brodo di manzo si servono durante la prima luna piena dell’anno lunare. In quei giorni si prepara anche il muknamul: verdure secche come zucca, felce, assenzio e melanzane, che si fanno bollire e si condiscono. Un rituale antico, che profuma di eredità e di stagioni.


Il campo di battaglia e il campo di ravanelli

Yanggu, nella regione montuosa del Gangwon-do, è oggi sinonimo di siraegi di altissima qualità. Ma un tempo, questa zona era un teatro di guerra. Il suo soprannome, Punch Bowl, fu coniato da un giornalista americano durante la guerra di Corea: la sua forma concava ricordava una coppa per punch. Oggi, quel nome evoca un’altra battaglia, più silenziosa e tenace: quella delle foglie che lottano contro il freddo per diventare più dolci, più forti, più saporite.

In inverno, il gelo non uccide: trasforma. Riduce l’acqua nelle foglie, aumenta zuccheri e aminoacidi. Il ravanello diventa più dolce, più tenero. Anche il kimchi fatto in inverno, con cavoli e ravanelli raccolti in quelle condizioni, è più buono. Lo stesso accade con il siraegi: il freddo è il suo segreto.


Dalle montagne a Jeju: il viaggio del ravanello

Il ravanello coreano cresce ovunque, ma il più celebre è quello invernale di Jeju, l’isola del sud. Qui il clima mite lo rende perfetto: le notti non scendono sotto lo zero, e le radici maturano in un equilibrio dolce tra caldo e freddo. Durante il giorno, la fotosintesi crea amido; la notte, per sopravvivere, lo converte in zucchero. E così la natura trasforma il bisogno in dolcezza.

Radici così preziose che vengono esportate negli Stati Uniti, lavate e confezionate. In estate, invece, si coltiva in alta montagna, dove le temperature restano fresche. Un equilibrio delicato che mostra quanto amore e cura servano per far nascere un semplice ravanello.


Quando il ravanello si fa estate: il yeolmu e il naengmyeon

Il ravanello non è solo invernale. D’estate, arriva il yeolmu (giovane ravanello), croccante e rinfrescante. Il suo kimchi, servito con brodo ghiacciato e somyeon (spaghetti di grano), è la risposta coreana alla calura estiva. Un piatto semplice, venduto anche nei chioschi per strada, che sa di libertà e sollievo.

Anche il naengmyeon, spaghetti freddi di grano saraceno, non può fare a meno del ravanello. Affettato, condito con aceto, zucchero, sale e peperoncino, il mu diventa il contrasto perfetto con carne e cetriolo. E qui la tradizione incontra la scienza: l’enzima della radice neutralizza le tossine del grano saraceno. Nulla è lasciato al caso.


La semplicità che salva: kkakdugi e i piatti poveri che ci rendono ricchi

C’è poi il kkakdugi, il kimchi di ravanello a cubetti. Facile da preparare, quasi istintivo. Bastano sale, salsa d’acciuga, pasta di riso glutinoso e un po’ di cipollotto. In due giorni è pronto. Ed è perfetto con zuppe di carne: digeribile, gustoso, sincero. Come una madre che non si lamenta mai ma sa sempre come aiutarti a stare meglio.

Nelle zone costiere del sud, come Tongyeong, si mette perfino un intero pesce (il bolak) nel kimchi di ravanello. All’inizio l’odore spaventa. Ma dopo due mesi di fermentazione, diventa poesia. Le spine si ammorbidiscono, la carne resta soda, il gusto è indimenticabile. Sembra un piatto di pesce più che un kimchi. E con una ciotola di riso caldo, sparisce in un attimo.


Il mondo intero ha sempre saputo che il cibo non si spreca

Persino in Puglia, i gambi di rapa vengono messi nelle orecchiette. Con olio, aglio, formaggio e pinoli diventano pesto. Crudi, hanno un sapore pungente. Ma se li si cucina bene, sanno di casa. Come il siraegi, che una volta era cibo dei poveri e oggi è diventato un tesoro gastronomico. Un po’ come la polenta: da pasto contadino a piatto da gourmet.

E forse è proprio questo il segreto di certi cibi: sono lo specchio di ciò che siamo stati, del coraggio che abbiamo avuto, della semplicità che ci ha salvati. Il siraegi, il ravanello invernale, il kkakdugi: sono più di ingredienti. Sono memoria, resistenza, amore. Sono la prova che anche ciò che sembra scarto può diventare delizia. Basta avere pazienza. Basta sapere aspettare.

Fonte:

  1. https://mymileshinesmile.blogspot.com/2024/01/siraegi-flavor-of-winter-in-korea.html
  2. https://mymileshinesmile.blogspot.com/2024/01/korean-radish-story.html