C’è qualcosa nella poesia coreana che non si può spiegare, ma solo sentire. È un battito silenzioso che accompagna i secoli, un sussurro che ha viaggiato dalle montagne nebbiose dei Tre Regni fino ai palazzi digitali della contemporaneità. È memoria, voce e respiro di un popolo intero.
Le origini: parole che custodiscono la storia
La poesia in Corea non è solo una forma d’arte. È una radice. Fin dai tempi del periodo dei Tre Regni, i poeti coreani hanno sentito il bisogno di afferrare l’inafferrabile: la bellezza di una notte di luna, il dolore della separazione, la delicatezza di un pensiero improvviso. Versi nati in un’epoca remota sono riusciti a conservare l’essenza di quei giorni e a traghettarla fino a noi.
Nei secoli, la poesia è diventata uno specchio dell’anima collettiva, un rifugio per emozioni personali e uno spazio dove il pensiero sociale poteva trovare forma, respiro, opposizione.
Tre anime, tre stili: sijo, gasa e hyangga
L’eredità poetica coreana si articola in tre forme principali, ciascuna con un’anima distinta, ma tutte capaci di rivelare frammenti preziosi di cultura, tradizione e visione del mondo.
Il sijo, con la sua struttura compatta in tre versi e una precisa scansione sillabica, riesce a concentrare in poche parole un’intera tempesta emotiva. Amore, rimpianto, malinconia: ogni emozione si fa poesia, ogni verso diventa un piccolo haiku coreano. Come dimenticare il sijo di Yun Seondo, che descrive un ciliegio in fiore sotto la luna? In pochi versi, il passato ritorna con una dolcezza struggente.
Il gasa si concede il lusso della narrazione. Più lungo, articolato, ricco di riferimenti al folklore, alla mitologia, alla vita quotidiana. Qui la poesia diventa racconto, si insinua nel cuore di chi legge come una favola antica. Jeong Cheol, ad esempio, ci lascia il ritratto di una figura solitaria che attende l’alba: ed è impossibile non sentire, tra le sue righe, il peso del mondo intero.
L’hyangga, la più antica tra le tre, si serve di dialetti locali e suoni ritmati per parlare di spiritualità e filosofia. Sono canti che sembrano nati dal vento e dalle acque, come quello di Choe Chiwon, che dipinge con parole un pino lungo il sentiero e un ruscello limpido ai suoi piedi. Un’immagine così semplice, eppure così densa di pace.
La poesia moderna: voce, denuncia, libertà
Poi la Corea è cambiata, e con lei anche la poesia. La modernizzazione, l’industrializzazione, l’ombra del colonialismo e le ferite della guerra hanno stravolto il Paese. Ma i poeti, come sempre, hanno continuato a scrivere. Anzi, forse è proprio in mezzo al dolore che la loro voce si è fatta più forte.
I versi moderni parlano di ingiustizie, dittature, emarginazione. Sono armi silenziose contro le oppressioni, carezze per chi si sente solo. Le poetesse, in particolare, hanno usato la parola per restituire dignità e spazio a sé stesse, e a tutte le donne dimenticate dalla storia.
Ma non solo rabbia. Anche la natura continua a essere protagonista. I fiumi, le montagne, i ciliegi, i paesaggi che mutano con le stagioni sono ancora lì, trasformati in simboli, in riflessioni sull’esistenza, sulla morte, sulla meraviglia di essere vivi.
E poi ci sono i sentimenti. Quelli più intimi. L’amore che salva, la perdita che marchia, l’identità che si cerca e si costruisce. I poeti moderni raccontano se stessi per raccontarci tutti. Le parole diventano specchi.
Tra i nomi più celebri: Ko Un, con la sua voce intensa e spirituale; Yi Sang, sperimentale, spezzato, geniale; e Kim Hyesoon, che ha trasformato il dolore femminile in grido, denuncia, e poesia viscerale. Ognuno di loro ha saputo trasformare la propria interiorità in un canto universale.
Oltre i confini: quando la poesia coreana parla al mondo
Tradurre una poesia è come trasportare un sogno da un’anima all’altra. Non tutto arriva, ma ciò che arriva è sufficiente per farci sentire parte dello stesso respiro. La poesia coreana, oggi, attraversa i continenti. E nelle sue parole – tradotte con delicatezza – anche chi non ha mai camminato per Seoul o ascoltato il vento nei boschi di Gyeonggi può sentirsi a casa.
Ci sono versi che restano. Come questi:
“Nella neve fine che cade,avvolse un asciugamano bianco attorno al colloe gli lavò il viso.Poi si trasformò in petalie volò via.”
Sono immagini così lievi, eppure ti restano addosso. Come la neve che non si scioglie sulla pelle, ma sul cuore.
Un’arte che resiste
La poesia coreana non è mai passata di moda. Non ha mai smesso di raccontare, di accogliere, di vibrare. In un’epoca dominata dalla velocità e dall’iperconnessione, i suoi versi ci costringono a fermarci. A sentire.
Perché dentro ogni poesia coreana c’è un piccolo mondo. E, forse, un pezzo del nostro.
Fonte: https://ling-app.com/ko/korean-poetry/