La parola 한복 (hanbok) significa semplicemente "abbigliamento coreano", ma ridurlo a una definizione così essenziale sarebbe come tentare di descrivere la luna dicendo che è “una pietra nel cielo”. L’hanbok è un simbolo vivo, che attraversa i secoli, si reinventa senza mai smettere di raccontare. È un abito che abbraccia il corpo, ma soprattutto custodisce l’anima di una cultura.
Composto da due elementi principali – la giacca 저고리 (jeogori) e, a seconda del genere, la gonna lunga 치마 (chima) o i pantaloni ampi 바지 (baji) – l’hanbok è pensato per offrire non solo bellezza estetica, ma anche libertà di movimento. Ed è proprio il movimento la chiave per comprendere la sua nascita, perché le sue origini affondano nella vita nomade dei popoli dell’Asia settentrionale, come gli Altai e i guerrieri del clan Kokuryo. Gente abituata a spostarsi a cavallo, che aveva bisogno di abiti funzionali: pantaloni stretti alle caviglie, giacche aderenti ma flessibili, maniche corte per la caccia e il viaggio.
L’influenza di queste radici nomadi si è fusa con elementi cinesi, buddisti e confuciani, creando un’identità culturale visiva che si è poi cristallizzata nel tempo. La dinastia Goguryeo (57 a.C. - 668 d.C.), una delle tre antiche che governarono la penisola coreana, è considerata il cuore originario dell’hanbok, come mostrano chiaramente i murales dell’epoca: uomini e donne raffigurati con giacche e pantaloni comodi, adatti a una vita attiva e in armonia con la natura.
Ma non si trattava solo di praticità. Col tempo, l’hanbok si è arricchito di significati simbolici, estetici e spirituali. Ogni elemento – dai colori ai materiali – raccontava una storia precisa, dettata dalla posizione sociale, dalla stagione, dallo stato civile o persino dall’umore collettivo. Il colore predominante era il bianco, simbolo di purezza e modestia, tanto che i coreani furono soprannominati "la gente vestita di bianco". Ma quando lo status sociale lo permetteva, i colori si accendevano: il rosso per la fortuna e la ricchezza, il blu per la costanza, il nero per l’infinito (spesso riservato ai cappelli maschili), il giallo per rappresentare la terra e il centro dell’universo – colore, questo, indossato dalla famiglia reale.
Durante la dinastia Joseon, i codici di abbigliamento si fecero ancora più rigidi e simbolici. Le giovani donne non sposate indossavano un jeogori giallo con una chima rossa, mentre dopo il matrimonio – e in particolare quando rendevano omaggio ai suoceri – il jeogori diventava verde, la chima restava rossa, e il tutto assumeva il tono di un rito visivo. Il rispetto per la gerarchia e per l’ordine cosmico si rifletteva persino nella scelta delle tinte, strettamente legate ai cinque elementi della filosofia yin-yang: metallo (bianco), fuoco (rosso), legno (blu), acqua (nero), terra (giallo).
I materiali cambiavano con le stagioni e con la classe sociale: i reali vestivano seta e raso in inverno, ramiè in estate; i popolani, invece, si accontentavano di canapa o cotone. Anche i coloranti naturali erano una forma d’arte: per ottenere il rosso si pestavano petali di fiori in un mortaio e poi si lasciavano macerare in soda calda. L’abito non era solo da indossare: era da rispettare, comprendere, vivere.
Con l’arrivo dell’Occidente e della modernità, l’hanbok ha lentamente lasciato il posto agli abiti più pratici e globalizzati. È diventato un abito da cerimonia, relegato a matrimoni, compleanni tradizionali o festività come il Capodanno. Eppure, qualcosa di profondo è rimasto. Anzi, è tornato.
Negli ultimi anni, una vera e propria rinascita dell’hanbok ha invaso le strade, le passerelle e persino i feed dei social. I giovani coreani – e non solo – si recano al Jeonju Hanok Village o al Gyeongbokgung Palace indossando hanbok colorati per partecipare a tour tematici o immortalarsi in fotografie che sembrano sospese tra passato e presente. Gli stilisti hanno preso quel passato e l’hanno riplasmato in chiave moderna: hanbok in denim, in gingham, con orli decorati da stelle e lune, più corti, più audaci, più vicini allo streetwear.
Etichette come Sonjjang Hanbok stanno trasformando la percezione del tradizionale, rendendolo urbano, quotidiano, accessibile. Il designer Dew Hwang, in particolare, ha proposto collezioni che sposano comfort e identità, sfidando il confine tra abito cerimoniale e indumento casual. E non sono solo i coreani a innamorarsi di nuovo del loro abito. Nella sfilata primavera/estate 2011, Dior ha presentato un vestito ispirato alla silhouette dell’hanbok, mentre Karl Lagerfeld ha celebrato l’estetica coreana nella Chanel Cruise Collection 2016 ospitata a Seoul.
Sebbene la parte femminile dell’hanbok stia vivendo un revival più visibile, c’è speranza – e desiderio – che anche l’hanbok maschile trovi di nuovo spazio nella quotidianità. Perché ciò che l’hanbok rappresenta – la connessione tra corpo, cultura e storia – appartiene a tutti. È più di un vestito: è un’eredità da indossare. È una carezza di stoffa che racconta chi sei e da dove vieni. E forse, anche dove stai andando.
Fonte:
- https://aminoapps.com/c/k-drama/page/blog/the-history-behind-the-hanbok-g-r-e-a-t-classes/pXGs_QuqYgVELz17mpl0LoVNgQK4GWv
- https://www.mutzine.me/features/a-brief-history-korean-korean-hanbok