22 giugno 2025

HANBOK: L'abito che racconta l'anima di una cultura

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La parola 한복 (hanbok) significa semplicemente "abbigliamento coreano", ma ridurlo a una definizione così essenziale sarebbe come tentare di descrivere la luna dicendo che è “una pietra nel cielo”. L’hanbok è un simbolo vivo, che attraversa i secoli, si reinventa senza mai smettere di raccontare. È un abito che abbraccia il corpo, ma soprattutto custodisce l’anima di una cultura.

Composto da due elementi principali – la giacca 저고리 (jeogori) e, a seconda del genere, la gonna lunga 치마 (chima) o i pantaloni ampi 바지 (baji) – l’hanbok è pensato per offrire non solo bellezza estetica, ma anche libertà di movimento. Ed è proprio il movimento la chiave per comprendere la sua nascita, perché le sue origini affondano nella vita nomade dei popoli dell’Asia settentrionale, come gli Altai e i guerrieri del clan Kokuryo. Gente abituata a spostarsi a cavallo, che aveva bisogno di abiti funzionali: pantaloni stretti alle caviglie, giacche aderenti ma flessibili, maniche corte per la caccia e il viaggio.

L’influenza di queste radici nomadi si è fusa con elementi cinesi, buddisti e confuciani, creando un’identità culturale visiva che si è poi cristallizzata nel tempo. La dinastia Goguryeo (57 a.C. - 668 d.C.), una delle tre antiche che governarono la penisola coreana, è considerata il cuore originario dell’hanbok, come mostrano chiaramente i murales dell’epoca: uomini e donne raffigurati con giacche e pantaloni comodi, adatti a una vita attiva e in armonia con la natura.

Ma non si trattava solo di praticità. Col tempo, l’hanbok si è arricchito di significati simbolici, estetici e spirituali. Ogni elemento – dai colori ai materiali – raccontava una storia precisa, dettata dalla posizione sociale, dalla stagione, dallo stato civile o persino dall’umore collettivo. Il colore predominante era il bianco, simbolo di purezza e modestia, tanto che i coreani furono soprannominati "la gente vestita di bianco". Ma quando lo status sociale lo permetteva, i colori si accendevano: il rosso per la fortuna e la ricchezza, il blu per la costanza, il nero per l’infinito (spesso riservato ai cappelli maschili), il giallo per rappresentare la terra e il centro dell’universo – colore, questo, indossato dalla famiglia reale.

Durante la dinastia Joseon, i codici di abbigliamento si fecero ancora più rigidi e simbolici. Le giovani donne non sposate indossavano un jeogori giallo con una chima rossa, mentre dopo il matrimonio – e in particolare quando rendevano omaggio ai suoceri – il jeogori diventava verde, la chima restava rossa, e il tutto assumeva il tono di un rito visivo. Il rispetto per la gerarchia e per l’ordine cosmico si rifletteva persino nella scelta delle tinte, strettamente legate ai cinque elementi della filosofia yin-yang: metallo (bianco), fuoco (rosso), legno (blu), acqua (nero), terra (giallo).

I materiali cambiavano con le stagioni e con la classe sociale: i reali vestivano seta e raso in inverno, ramiè in estate; i popolani, invece, si accontentavano di canapa o cotone. Anche i coloranti naturali erano una forma d’arte: per ottenere il rosso si pestavano petali di fiori in un mortaio e poi si lasciavano macerare in soda calda. L’abito non era solo da indossare: era da rispettare, comprendere, vivere.

Con l’arrivo dell’Occidente e della modernità, l’hanbok ha lentamente lasciato il posto agli abiti più pratici e globalizzati. È diventato un abito da cerimonia, relegato a matrimoni, compleanni tradizionali o festività come il Capodanno. Eppure, qualcosa di profondo è rimasto. Anzi, è tornato.

Negli ultimi anni, una vera e propria rinascita dell’hanbok ha invaso le strade, le passerelle e persino i feed dei social. I giovani coreani – e non solo – si recano al Jeonju Hanok Village o al Gyeongbokgung Palace indossando hanbok colorati per partecipare a tour tematici o immortalarsi in fotografie che sembrano sospese tra passato e presente. Gli stilisti hanno preso quel passato e l’hanno riplasmato in chiave moderna: hanbok in denim, in gingham, con orli decorati da stelle e lune, più corti, più audaci, più vicini allo streetwear.

Etichette come Sonjjang Hanbok stanno trasformando la percezione del tradizionale, rendendolo urbano, quotidiano, accessibile. Il designer Dew Hwang, in particolare, ha proposto collezioni che sposano comfort e identità, sfidando il confine tra abito cerimoniale e indumento casual. E non sono solo i coreani a innamorarsi di nuovo del loro abito. Nella sfilata primavera/estate 2011, Dior ha presentato un vestito ispirato alla silhouette dell’hanbok, mentre Karl Lagerfeld ha celebrato l’estetica coreana nella Chanel Cruise Collection 2016 ospitata a Seoul.

Sebbene la parte femminile dell’hanbok stia vivendo un revival più visibile, c’è speranza – e desiderio – che anche l’hanbok maschile trovi di nuovo spazio nella quotidianità. Perché ciò che l’hanbok rappresenta – la connessione tra corpo, cultura e storia – appartiene a tutti. È più di un vestito: è un’eredità da indossare. È una carezza di stoffa che racconta chi sei e da dove vieni. E forse, anche dove stai andando.

Fonte:

  1. https://aminoapps.com/c/k-drama/page/blog/the-history-behind-the-hanbok-g-r-e-a-t-classes/pXGs_QuqYgVELz17mpl0LoVNgQK4GWv
  2. https://www.mutzine.me/features/a-brief-history-korean-korean-hanbok


Anime che resistono al tempo: la mitologia coreana tra leggende, fantasmi e K-Drama

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C’è qualcosa nella mitologia coreana che non ti lascia andare. Non è spettacolare come quella greca, non è ricamata d’oro come quella egizia, e nemmeno scolpita nei templi come quella indiana. Eppure… vibra. Vibra di dolore, di vendetta, di amore eterno, di trasformazioni impossibili, di creature che ti seguono con occhi invisibili tra le ombre. È una mitologia intima e feroce, che profuma di terra, di fango, di pioggia e di neve. Che parla di spiriti dimenticati, donne respinte, alberi che crescono come padri, e animali che, un giorno, diventano più umani degli umani.

Oggi voglio portarvi in un viaggio lungo secoli — da antiche leggende sciamaniche sussurrate nelle foreste dell’isola di Jeju fino ai drama moderni che hanno trasformato questi racconti in storie d’amore da binge-watching.

🌌 Le origini: quando il cielo incontrò la terra (e nacque il caos)

La mitologia coreana comincia con il cielo che cade sulla terra — e con due gemelli divini, Daebyeol e Sobyeol, figli del re celeste Cheonjiwang, che si sfidano per decidere chi governerà gli umani e chi l’aldilà. Sembra l’inizio di una favola, ma è già tragedia. Sobyeol, invidioso, bara. Vince. Ma poi non riesce a governare quel mondo strano in cui gli alberi parlano, i fantasmi tormentano i vivi e ci sono due soli e due lune. Solo il fratello che ha mandato negli inferi può riportare l’ordine. Così nasce il mondo: da un tradimento, da una richiesta di aiuto e da un silenzio riconquistato con frecce di ferro.

Ma la terra non è ancora finita. A plasmarla ci pensa Magohalmi, la nonna gigante che trasporta il fango nel suo hanbok e con quello crea montagne, colline e fiumi. Una divinità dimenticata, messa da parte nei testi ufficiali, ma viva nella voce del popolo. Un po’ come le donne nella storia — troppo spesso lasciate fuori, troppo spesso indispensabili.

💧 Acqua, fuoco, e un diluvio che rifà l’umanità

Come ogni mitologia che si rispetti, anche quella coreana ha il suo diluvio universale. Ma dimenticate Noè. Qui c’è Namu Doryeong, figlio di uno spirito albero e di una donna celeste, che durante la grande inondazione sale sui rami del padre e… salva formiche, zanzare, e persino un bambino. Il karma lo ricompenserà: con l’aiuto delle creature che ha salvato, vincerà una gara e sposerà una delle due figlie di una vecchia sopravvissuta sul monte Baekdu. Insieme a loro, fonderà una nuova umanità. Una moraletta? Sì. Ma anche una metafora potentissima sulla gentilezza come seme del futuro.

E poi c’è Changsega, con il suo cielo sostenuto da colonne di rame e uomini creati da insetti d’oro. Una cosmologia fatta di simboli, in cui il caos arriva quando chi dovrebbe governare lo fa con l’inganno. Sì, anche gli dei sbagliano. E a volte paghiamo noi.

🧙‍♀️ La principessa Bari: abbandonata, salvata, divina

Tra tutte le leggende coreane, quella della principessa Bari è la mia preferita. Perché è una ferita che si ricuce, una figlia non voluta che diventa dea, una donna che parte da sola, senza niente, per trovare l’elisir che salverà i genitori che l’hanno rifiutata. Dopo anni di servitù, di sacrifici, persino dopo essere diventata madre, lei torna indietro. E li salva. Rifiuta la ricchezza, rifiuta il trono, e torna negli inferi, da dove guiderà le anime dei morti.

È un mito potente, femminista, doloroso. Un’allegoria della pietà filiale? Certo. Ma anche della forza di chi sceglie di non odiare. Un viaggio di sola andata nella dignità.

👹 Creature mitiche, vendicative, malinconiche

Poi ci sono loro: le creature, le anime, gli spiriti. I mostri. Che in realtà parlano più di noi che di loro.

C’è la Gumiho, la volpe a nove code che seduce e divora cuori umani. Ma anche lei ha le sue crepe: in alcune versioni vuole diventare umana, e per riuscirci deve smettere di mangiare organi per mille giorni. La vediamo nei drama (My Girlfriend is a Gumiho, Gu Family Book, The Thousandth Man) come creatura ambivalente, sensuale e tragica. Come se ogni gumiho fosse una donna che il mondo non ha mai saputo capire.

C’è il Dokkaebi, il goblin coreano, portato alla ribalta dallo splendido Goblin del 2016. Non è un demone, è un’entità che ama fare scherzi, punisce i malvagi, a volte si innamora. E proprio come l’eroe del drama, può solo morire se incontra la donna predestinata. Romanticismo soprannaturale coreano, che dire.

Poi ci sono i Gwisin: fantasmi vergini, fantasmi d’acqua, fantasmi-uovo. I primi tormentano i vivi per non aver trovato marito, i secondi ti afferrano la caviglia nella vasca da bagno. I terzi, i Dalgyal Gwishin, sono quelli senza volto, che uccidono chi li guarda. Spettri nati da anime senza radici, senza famiglia, senza identità. Forse, i più umani di tutti.

E i vampiri? In Corea si chiamano Jiangshi se arrivano dalla Cina, o vivono tra noi nei drama: Scholar Who Walks the Night, Blood, Orange Marmalade. Hanno sete, ma anche ricordi, traumi, perdite. I vampiri coreani sono meno aristocratici di quelli occidentali, ma molto più tragici.

💀 Quando arriva la morte, porta un hanbok nero

Un’altra figura ricorrente è Jeoseung Saja, il mietitore d’anime. Non ha falce, ma un cappello tradizionale. Non è cattivo, ma inesorabile. Lo trovi negli ospedali, o dietro le porte di chi sta per morire. Lo abbiamo conosciuto (e amato) anche grazie al drama Goblin, dove ha una tenerezza cupa e una bellezza triste. In un mondo che ha paura della morte, la mitologia coreana la rende un compagno di viaggio. A volte silenzioso. A volte ironico.

🧠 Le morali popolari: karma, astuzia e giustizia

Le leggende coreane non servono solo a spaventare: servono a insegnare. Come la storia del ragazzo che salva una gazza e viene ricompensato dalla sua progenie. O quella in cui una coppia sacrifica il proprio figlio per salvare un padre malato, e scopre che il figlio era un Ginseng magico. O ancora quella degli studenti che fingono di essere avvelenati per non essere puniti, e il maestro sorride: stanno imparando.

Sono storie che parlano di pietà filiale, ma anche di astuzia, di giustizia, di compassione. Non c’è un Dio onnipotente che punisce. C’è una rete di spiriti, anime, esseri che osservano e agiscono. Che non dimenticano. Che ti fanno pagare, o ti salvano.

📺 I drama che hanno ridato voce alle leggende

E infine, la cosa più affascinante: come queste leggende sono sopravvissute, e anzi, sono tornate in vita. Nei K-drama. Nei webtoon. Nei film. In The Legend of the Blue Sea, la sirena si innamora ancora. In Arang and the Magistrate, una ragazza fantasma cerca la verità. In 49 Days, una donna ha 49 giorni per trovare tre persone che piangerebbero sinceramente la sua morte. E in Goblin, un generale maledetto vaga da secoli cercando la sua sposa predestinata.

Non sono solo storie d’amore. Sono riti di guarigione collettivi, in cui il dolore si trasforma in poesia e i mostri diventano specchi.

La mitologia coreana non è fatta per stupire. È fatta per restare. Per vivere in mezzo alle persone. Per trasmettere paure, desideri, ingiustizie, e poi riscriverle sotto forma di favole. È un mondo in cui tutto ha un’anima, anche la roccia, anche il vento. Dove la voce di una nonna gigante può creare le montagne, e una volpe può imparare ad amare.

È un mondo in cui chi viene dimenticato — le donne abbandonate, i fantasmi senza nome, gli spiriti silenziosi — ritorna sempre, per raccontare ancora una volta la sua storia.

E forse, mentre guardiamo un drama o leggiamo una favola antica, quel mondo ci parla più del nostro.

Fonte:

  1. https://en.wikipedia.org/wiki/Korean_mythology#Founding_myth
  2. https://www.inspiremekorea.com/it
  3. https://titesilve.wordpress.com/

Bokjumeoni, Najeonchilgi e Jasu, tre anime di un'eredità preziosa

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C'è qualcosa di profondamente poetico nel modo in cui la Corea custodisce la sua tradizione. Non si tratta solo di rituali tramandati o di oggetti antichi da esibire nei musei, ma di frammenti di un’estetica che vibra ancora nella vita quotidiana. Basta entrare in una piccola bottega artigianale a Seoul o sfiorare la seta leggera di un sacchetto ricamato per sentirsi trasportati in un tempo dove ogni filo, ogni lucentezza, ogni cucitura aveva un significato. È come se il passato fosse cucito addosso al presente, come una seconda pelle invisibile.

La borsa dei desideri: Bokjumeoni, il portafortuna cucito a mano

Cominciamo con un oggetto minuscolo ma ricco di storie: il Bokjumeoni (복주머니), il tradizionale sacchetto portafortuna coreano. Nonostante le dimensioni contenute, questo piccolo tesoro in seta o cotone custodisce un universo di simboli e significati. C’è chi lo chiama “borsa della fortuna” e chi lo considera semplicemente un accessorio folkloristico. Ma per i coreani del passato, non era né frivolo né casuale: era un talismano, un gesto d'amore, una preghiera cucita con ago e fede.

La forma stessa del Bokjumeoni non è mai lasciata al caso: i Durujumeoni (rotondi) e i Gwijumeoni (con "orecchie") portano cuciti sopra caratteri cinesi beneauguranti come su (lunga vita), bok (fortuna), bu (ricchezza), gwi (nobiltà), e hui (gioia), oppure animali simbolici come pipistrelli (portatori di fortuna), crisantemi (simboli di resilienza), o le Dieci creature della longevità.

In un’epoca in cui gli abiti tradizionali coreani non avevano tasche, questi sacchetti servivano anche come contenitori per effetti personali. Ma quando venivano indossati il primo giorno dell’anno nei giorni speciali legati al calendario lunare — come il giorno del maiale o del topo — diventavano autentici scudi contro le energie negative. Oggi possono sembrare piccoli regali decorativi, ma un tempo erano potenti auguri cuciti a mano: un dono che diceva “voglio che tu sia felice”.

Riflessi d’eternità: la madreperla nella memoria coreana

Se il Bokjumeoni è simbolo di desiderio e protezione, allora il Najeonchilgi è pura bellezza incisa nel tempo. Passeggiando tra i mercatini di artigianato coreano capita spesso di incantarsi davanti a oggetti che sembrano brillare di luce propria: una scatola per gioielli, uno specchietto, perfino un portacellulare. Sono tutti rivestiti di minuscoli frammenti di madreperla, applicati con una pazienza infinita secondo una tecnica antica di oltre mille anni.

"Najeon" indica appunto la madreperla, solitamente ricavata da conchiglie di abalone, mentre "Chilgi" si riferisce alla lacca, che serve come base protettiva e decorativa. Dietro la grazia di questi oggetti c'è un processo artigianale di oltre 30 passaggi, che inizia con la preparazione di una base (legno, carta, metallo o porcellana), passa attraverso innumerevoli mani tra levigature, incollaggi e laccature, e termina con una lucidatura che rende l’oggetto eterno.

Nata come arte ispirata alla Cina, si è trasformata in Corea in qualcosa di unico, raggiungendo l'apice durante la dinastia Goryeo, quando il buddismo influenzava il gusto estetico, e i motivi erano complessi e simbolici. Poi, con la dinastia Joseon, tutto divenne più sobrio e naturale: meno ostentazione, più armonia con la vita quotidiana, secondo il pensiero confuciano.

Nonostante i colpi della storia — come il quasi totale declino durante l’occupazione giapponese — questa tecnica ha resistito. E oggi, grazie anche ad artisti come Kim Young-jun, che ha decorato perfino la console di Bill Gates o doni per Papa Francesco, il Najeonchilgi continua a brillare, testimone della raffinata dignità di un’eredità che non si è mai arresa.

Il filo che unisce passato e identità: il ricamo coreano Jasu

E poi c'è lui, il Jasu, il ricamo coreano, che è forse la forma più delicata e al tempo stesso più resiliente dell’identità culturale di questa nazione. Affonda le sue radici nel periodo preistorico, eppure ancora oggi sopravvive come forma d’arte e gesto affettivo. Ogni punto è una storia tramandata di madre in figlia, ogni filo colorato è un frammento di bellezza che sfida l’oblio.

Durante la dinastia Goryeo, il jasu era sontuoso: fili d'oro, seta pregiata, motivi regolati dallo status sociale. I ricami si dividevano in quattro tipologie: per l’abbigliamento (boksik jasu), per gli arredi del palazzo (giyong jasu), per decorazioni varie (gamsang jasu) e per i templi (jasu buddista). Era un'arte codificata, eppure espressiva.

Con Joseon, il ricamo assunse anche una funzione ufficiale con gli hyungbae: emblemi che indicavano il rango di un funzionario, cuciti con estrema precisione da artigiane scelte accuratamente per lavorare nei subang, le sale da ricamo del palazzo. In questo mondo esclusivo, ogni donna doveva dimostrare una competenza impeccabile per essere ammessa.

Ma mentre il ricamo di corte (gungsu) si perfezionava, anche il ricamo popolare (minsu) viveva la sua evoluzione. Meno formale, più emotivo. I paraventi ricamati raccontavano storie familiari, le federe e i cuscini trasmettevano auguri di serenità, gli abiti da cerimonia conservavano i colori dei momenti speciali. Anche quando la legge proibiva certi decori alla gente comune, le madri continuavano a cucire piccoli fiori o animali beneauguranti sui vestiti dei figli, come fossero carezze che il tempo non può lavare via.

Una trama invisibile ma viva

C’è una linea sottile che unisce queste tre espressioni artistiche coreane — Bokjumeoni, Najeonchilgi e Jasu — e non è fatta solo di fili di seta o madreperla. È fatta di intenzione. Di significati nascosti. Di rituali che ci ricordano che ogni oggetto può essere un portale per qualcos’altro: la speranza, la bellezza, la benedizione.

E forse è proprio questa la cosa che più colpisce della tradizione coreana: la capacità di conservare il sacro nel quotidiano. Di cucire un desiderio in un sacchetto. Di lucidare un sogno in madreperla. Di intrecciare amore in un filo colorato. Non si tratta di nostalgia, ma di una fedeltà alla vita. Una fedeltà che vibra, discreta e luminosa, in ogni piccolo gesto.