C'è qualcosa di profondamente poetico nel modo in cui la Corea custodisce la sua tradizione. Non si tratta solo di rituali tramandati o di oggetti antichi da esibire nei musei, ma di frammenti di un’estetica che vibra ancora nella vita quotidiana. Basta entrare in una piccola bottega artigianale a Seoul o sfiorare la seta leggera di un sacchetto ricamato per sentirsi trasportati in un tempo dove ogni filo, ogni lucentezza, ogni cucitura aveva un significato. È come se il passato fosse cucito addosso al presente, come una seconda pelle invisibile.
La borsa dei desideri: Bokjumeoni, il portafortuna cucito a mano
Cominciamo con un oggetto minuscolo ma ricco di storie: il Bokjumeoni (복주머니), il tradizionale sacchetto portafortuna coreano. Nonostante le dimensioni contenute, questo piccolo tesoro in seta o cotone custodisce un universo di simboli e significati. C’è chi lo chiama “borsa della fortuna” e chi lo considera semplicemente un accessorio folkloristico. Ma per i coreani del passato, non era né frivolo né casuale: era un talismano, un gesto d'amore, una preghiera cucita con ago e fede.
La forma stessa del Bokjumeoni non è mai lasciata al caso: i Durujumeoni (rotondi) e i Gwijumeoni (con "orecchie") portano cuciti sopra caratteri cinesi beneauguranti come su (lunga vita), bok (fortuna), bu (ricchezza), gwi (nobiltà), e hui (gioia), oppure animali simbolici come pipistrelli (portatori di fortuna), crisantemi (simboli di resilienza), o le Dieci creature della longevità.
In un’epoca in cui gli abiti tradizionali coreani non avevano tasche, questi sacchetti servivano anche come contenitori per effetti personali. Ma quando venivano indossati il primo giorno dell’anno nei giorni speciali legati al calendario lunare — come il giorno del maiale o del topo — diventavano autentici scudi contro le energie negative. Oggi possono sembrare piccoli regali decorativi, ma un tempo erano potenti auguri cuciti a mano: un dono che diceva “voglio che tu sia felice”.
Riflessi d’eternità: la madreperla nella memoria coreana
Se il Bokjumeoni è simbolo di desiderio e protezione, allora il Najeonchilgi è pura bellezza incisa nel tempo. Passeggiando tra i mercatini di artigianato coreano capita spesso di incantarsi davanti a oggetti che sembrano brillare di luce propria: una scatola per gioielli, uno specchietto, perfino un portacellulare. Sono tutti rivestiti di minuscoli frammenti di madreperla, applicati con una pazienza infinita secondo una tecnica antica di oltre mille anni.
"Najeon" indica appunto la madreperla, solitamente ricavata da conchiglie di abalone, mentre "Chilgi" si riferisce alla lacca, che serve come base protettiva e decorativa. Dietro la grazia di questi oggetti c'è un processo artigianale di oltre 30 passaggi, che inizia con la preparazione di una base (legno, carta, metallo o porcellana), passa attraverso innumerevoli mani tra levigature, incollaggi e laccature, e termina con una lucidatura che rende l’oggetto eterno.
Nata come arte ispirata alla Cina, si è trasformata in Corea in qualcosa di unico, raggiungendo l'apice durante la dinastia Goryeo, quando il buddismo influenzava il gusto estetico, e i motivi erano complessi e simbolici. Poi, con la dinastia Joseon, tutto divenne più sobrio e naturale: meno ostentazione, più armonia con la vita quotidiana, secondo il pensiero confuciano.
Nonostante i colpi della storia — come il quasi totale declino durante l’occupazione giapponese — questa tecnica ha resistito. E oggi, grazie anche ad artisti come Kim Young-jun, che ha decorato perfino la console di Bill Gates o doni per Papa Francesco, il Najeonchilgi continua a brillare, testimone della raffinata dignità di un’eredità che non si è mai arresa.
Il filo che unisce passato e identità: il ricamo coreano Jasu
E poi c'è lui, il Jasu, il ricamo coreano, che è forse la forma più delicata e al tempo stesso più resiliente dell’identità culturale di questa nazione. Affonda le sue radici nel periodo preistorico, eppure ancora oggi sopravvive come forma d’arte e gesto affettivo. Ogni punto è una storia tramandata di madre in figlia, ogni filo colorato è un frammento di bellezza che sfida l’oblio.
Durante la dinastia Goryeo, il jasu era sontuoso: fili d'oro, seta pregiata, motivi regolati dallo status sociale. I ricami si dividevano in quattro tipologie: per l’abbigliamento (boksik jasu), per gli arredi del palazzo (giyong jasu), per decorazioni varie (gamsang jasu) e per i templi (jasu buddista). Era un'arte codificata, eppure espressiva.
Con Joseon, il ricamo assunse anche una funzione ufficiale con gli hyungbae: emblemi che indicavano il rango di un funzionario, cuciti con estrema precisione da artigiane scelte accuratamente per lavorare nei subang, le sale da ricamo del palazzo. In questo mondo esclusivo, ogni donna doveva dimostrare una competenza impeccabile per essere ammessa.
Ma mentre il ricamo di corte (gungsu) si perfezionava, anche il ricamo popolare (minsu) viveva la sua evoluzione. Meno formale, più emotivo. I paraventi ricamati raccontavano storie familiari, le federe e i cuscini trasmettevano auguri di serenità, gli abiti da cerimonia conservavano i colori dei momenti speciali. Anche quando la legge proibiva certi decori alla gente comune, le madri continuavano a cucire piccoli fiori o animali beneauguranti sui vestiti dei figli, come fossero carezze che il tempo non può lavare via.
Una trama invisibile ma viva
C’è una linea sottile che unisce queste tre espressioni artistiche coreane — Bokjumeoni, Najeonchilgi e Jasu — e non è fatta solo di fili di seta o madreperla. È fatta di intenzione. Di significati nascosti. Di rituali che ci ricordano che ogni oggetto può essere un portale per qualcos’altro: la speranza, la bellezza, la benedizione.
E forse è proprio questa la cosa che più colpisce della tradizione coreana: la capacità di conservare il sacro nel quotidiano. Di cucire un desiderio in un sacchetto. Di lucidare un sogno in madreperla. Di intrecciare amore in un filo colorato. Non si tratta di nostalgia, ma di una fedeltà alla vita. Una fedeltà che vibra, discreta e luminosa, in ogni piccolo gesto.
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