Cos’è davvero un’ajumma?
La definizione più semplice direbbe che ajumma è una donna coreana di età compresa tra i 30 e i 70 anni, spesso sposata, e spesso madre. Una sorta di “signora” nel senso più quotidiano del termine. Nel blog The Soul of Seoul si racconta che il termine deriva da ajumeoni, versione più rispettosa della parola, e che chiamare una donna “ajumma” al momento sbagliato può scatenare un mezzo terremoto. Perché in Corea, come spesso accade, le parole non etichettano soltanto: collocano, ordinano, definiscono ruoli. E qui entra un punto cruciale: il problema non è l’età. È il significato culturale che l’età porta con sé. Nessuna donna vuole essere chiamata ajumma troppo presto. Il termine spesso suggerisce “non giovanile”, “matronale”, o addirittura “trascurata”. Significa passare dall’essere vista come una giovane donna all’essere percepita come parte di una categoria che la società ha preferito stereotipare anziché ascoltare. Eppure… proprio in quella categoria c’è una forza che pochi riescono a raccontare davvero.
Tra reverenza e timore: l’ambivalenza dell’ajumma
L'ajumma è descritta come una creatura sociale inafferrabile: rumorosa, diretta, solidale, a volte brusca, a volte tenerissima. C’è una frase che mi ha colpita:
“Il tumulto delle ajumma non è caos, è effervescenza di vita.”
Ed è una frase che dice molto.
Perché le ajumma sono così: donne che hanno cresciuto figli, sostenuto famiglie, portato sulle spalle lavori e sacrifici che spesso non vengono celebrati. Sono donne che hanno riempito vuoti, fatto funzionare case, reti di quartiere, comunità intere, mentre il mondo andava avanti pretendendo sempre qualcosa da loro. Sono anche le prime a spingere per salire sul bus, certo. Ma sono le prime a cederti un posto se hai un bambino in braccio. Sono quelle che possono spingerti involontariamente all’uscita della metro… ma sono anche quelle che ti regalano kimchi quando ti trasferisci nel quartiere. Quell’amore che non si annuncia, ma arriva.
Il loro stile inconfondibile (e profondamente simbolico)
Potremmo dire che l’immagine esteriore dell’ajumma è come una sorta di “uniforme culturale”, fatta di:
- permanenti voluminose
- fantasie floreali, stampe vivacissime, colori improbabili
- visiere enormi per proteggersi dal sole
- abiti comodi pensati per correre tra mercato, casa, figli e commissioni
- un’energia instancabile che le spinge a cercare offerte, occasioni, soluzioni
Quello stile, che fuori può sembrare buffo, ha radici precise: praticità, storia, economicità, identità generazionale. Persino la permanente nasce durante l’occupazione giapponese, quando mantenere i capelli acconciati significava forza e dignità nonostante la miseria del tempo. È un’estetica che molti giovani coreani stanno recuperando oggi nel trend “Halmennial”, mix tra “halmeoni” (nonna) e “millennial”, come a dire: torniamo a ciò che ci ha cresciuti. Un fenomeno sempre più comune sono anche le Online Ajumma, donne anziane coreane che stanno conquistando spazi digitali che un tempo erano riservati ai giovani. YouTube, soprattutto, diventa una finestra in cui mostrano:
- ricette
- consigli di vita
- routine quotidiane
- riflessioni personali
- memoria storica
- opinioni (anche molto dirette!)
Non sono influencer nel senso commerciale del termine: sono portatrici di esperienza. E nel digitale, paradossalmente, trovano un luogo dove riappropriarsi di una voce che offline è stata spesso data per scontata. Le ajumma online non “imitano” i giovani. Raccontano la loro età come risorsa, non come marchio. È un ribaltamento culturale profondo, un piccolo atto di rivoluzione quotidiana.
Perché dovremmo parlarne?
L’ajumma è una lente perfetta per guardare la Corea da vicino, senza lustrini, senza K-pop, senza i filtri dei drama. È una finestra su un paese che non smette mai di correre, ma che, in fondo, si regge ancora sulle spalle di donne che hanno fatto tutto, spesso senza riconoscimento. Perché dietro la permanente, il visore gigante e la borsa del mercato, si nascondono storie di sopravvivenza, lotta, amore, dedizione e comunità. Perché il linguaggio cambia, la società cambia, ma il bisogno di attribuire significato all’età e al ruolo di una donna resta un tema con cui non abbiamo ancora imparato a fare pace. E perché forse diventare ajumma significa scoprire una forza nuova che non sapevi di avere.
Una citazione in particolare, che ho trovato splendida, vi potrebbe far capire la complessità culturale del termine: “In Corea si scherza dicendo che esistono tre generi: uomo, donna e ajumma.” Dietro l’ironia, c’è una verità amara: il termine porta con sé un bagaglio di aspettative, stereotipi e giudizi. Per molte donne essere chiamate ajumma significa:
- essere considerate “non più giovani”
- essere relegate a un ruolo familiare e comunitario
- perdere riconoscimento sociale come individui
Ma diventare ajumma non è uno scivolare verso la marginalità: è entrare in una fase della vita in cui smetti di dover dimostrare qualcosa a tutti. “A un certo punto, l’ajumma smette semplicemente di interessarsi alle sciocchezze. E sembra una liberazione.” E forse lo è davvero.
