13 agosto 2025

Lavoro, identità e ingiustizia: la realtà dietro le scrivanie dei drama coreani

 


I drama coreani non raccontano solo storie d’amore e non ci conquistano soltanto con la bellezza dei paesaggi o la fotografia perfetta. Spesso, tra le pieghe delle loro trame, affrontano temi profondamente radicati nella vita quotidiana, e uno dei più ricorrenti è proprio la cultura del lavoro in Corea del Sud.

Che si tratti di grandi aziende, start-up o uffici pubblici, il posto di lavoro è molto più di un semplice sfondo narrativo: è il cuore pulsante di molte storie. Questo perché, nella società coreana, il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma è legato in modo quasi viscerale all’identità personale, allo status sociale, al valore individuale. È da lì che partono le battaglie più dure, spesso invisibili, ma estremamente riconoscibili da chi vive quelle stesse dinamiche ogni giorno.

Prendiamo il caso di Our Unwritten Seoul, uno dei drama più intensi e realistici degli ultimi tempi. Yoo Mi Rae (Park Bo Young) lavora in una grande azienda, è precisa, dedita, competente. Eppure, dietro il suo sguardo controllato, si nasconde una ferita profonda (che non scriverò per evitare spoiler). Una verità scomoda, insabbiata con discrezione e chiusa nel silenzio di un sistema che preferisce voltarsi dall’altra parte. In questo ambiente, come in tanti altri raccontati nei drama, non c’è spazio per sbagliare, soprattutto se sei donna. A differenza dei colleghi uomini, per te non esiste margine di errore. E se scegli di difendere qualcuno, se ti esponi, diventi tu il bersaglio.

Mi Rae lo scopre quando cerca di supportare una collega, Su Yeon, vittima di una trappola tesa dal proprio superiore. Anziché essere riconosciuta per il suo senso di giustizia, viene emarginata, isolata, affidata a compiti impossibili o umilianti. Il messaggio è chiaro: se non ti adegui, se non accetti il silenzio, sei fuori.

È questa la forza dei drama coreani: riescono a raccontare situazioni che, pur nella finzione, riflettono con una lucidità spietata la realtà quotidiana. La cultura lavorativa sudcoreana è notoriamente competitiva, gerarchica, stressante. Ore di straordinari, cene aziendali obbligatorie (hoesik), rapporti rigidi e spesso iniqui: tutto questo diventa materiale narrativo. E chi guarda, soprattutto chi appartiene alla classe lavoratrice, si riconosce. Non solo nei sogni dei protagonisti, ma nelle loro fatiche, nei loro inciampi, nelle ingiustizie subite in silenzio.

Anche nei drama più romantici, il lavoro non è solo un pretesto. È il luogo in cui si definiscono i rapporti, si giocano le sfide dell’autostima, della dignità, del riscatto. In Start-Up o What’s Wrong with Secretary Kim, vediamo come le dinamiche aziendali influenzino profondamente la vita affettiva dei protagonisti. Il posto di lavoro diventa così il teatro in cui i personaggi crescono, cambiano, cadono e si rialzano. Ma non è mai un percorso facile, e quasi mai giusto.

Our Unwritten Seoul lo ribadisce con forza anche attraverso la figura di Mi Ji, sorella gemella di Mi Rae, che prende temporaneamente il suo posto in un progetto urbanistico delicato. Lavora duramente, ottiene risultati, ma a beneficiarne è un uomo: il capo di Mi Rae, che si prende tutti i meriti. È l’ennesima declinazione del lavoro invisibile femminile, quello che non fa rumore, ma regge il peso di interi sistemi.

Ed è proprio qui che i drama diventano anche uno strumento di critica sociale. Non si limitano più a rappresentare il sistema, lo mettono in discussione. In titoli come My Liberation Notes o Summer Strike, i protagonisti scelgono di allontanarsi dalla corsa al successo, sfidano l’idea che il valore di una persona sia legato al ruolo professionale o al conto in banca. E questa consapevolezza è universale: la fatica di vivere per lavorare, l’ansia da prestazione, il desiderio di un’esistenza più autentica sono condivisi da spettatori di ogni parte del mondo.

Il lavoro, nei drama, è anche un potente simbolo di riscatto sociale. In Itaewon Class, il protagonista costruisce il proprio impero imprenditoriale per ribellarsi a un sistema che lo aveva umiliato. In Sky Castle, l’ossessione per il successo scolastico è una proiezione del desiderio dei genitori di garantire ai figli un futuro migliore, qualunque sia il prezzo. Ma più alta è la posta in gioco, più devastante è la caduta. Il fallimento, anche minimo, viene vissuto come una catastrofe.

E poi c’è il divario di genere, che attraversa trasversalmente quasi ogni racconto. Le donne, come Mi Rae, sono costrette a lavorare il doppio per ottenere la metà. Devono sopportare pregiudizi, molestie, isolamento. Devono stare attente a ogni parola, a ogni scelta. E se qualcosa va storto, diventano subito colpevoli. Mi Rae viene persino accusata di aver rovinato una famiglia, dopo che la moglie del suo capo la affronta facendola passare per l’amante. Nessuno indaga, nessuno ascolta. Il colpevole viene trasferito, la vittima resta. E resta sola.

Attraverso queste storie, i drama non offrono solo intrattenimento. Offrono uno specchio. Riflettono le contraddizioni della società coreana, ma anche quelle del nostro mondo. Raccontano le lotte invisibili dietro le scrivanie, la forza silenziosa di chi resiste, la bellezza di chi sceglie di non piegarsi. Sono voci che chiedono rispetto, verità, cambiamento.

E tu? Quante volte hai rivisto la tua realtà nelle loro battaglie quotidiane?

Fonte di ispirazione e non solo: https://www.idntimes.com/korea/kdrama/kenapa-drama-korea-kerap-menyoroti-isu-budaya-kerja-01-4ckq9-0pzzpt

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