Articolo originale
QUI il pezzo NON è mio.
Nelle prime ore del mattino dell’8 ottobre 1895, a Seul, un gruppo di circa 50 assassini agli ordini dell’ambasciatore giapponese Miura Goro esegue l’operazione “Caccia alla volpe”: irrompe nel palazzo reale e uccide a colpi di spada l’ultima imperatrice di Corea, che aveva allora 43 anni. Il facile ingresso degli assassini pare si debba alla collaborazione di due ufficiali pro-giapponesi che avevano l’incarico di garantire la sicurezza del palazzo. Il cadavere dell’imperatrice viene trascinato nel bosco, bruciato, e le ceneri disperse; non è chiaro se sia stata stuprata dopo la morte, anche se vi sono resoconti che lo suggeriscono. La “Regina Min”, così chiamata durante la sua vita dal nome del clan di provenienza, e dopo la morte divenuta “Imperatrice Myeongseong”, è stata incessantemente ritratta e celebrata dai suoi conterranei in libri, sceneggiati, film e musical. Ma il focus, piuttosto che sulla sua vita – romanzata troppo spesso in modo a mio avviso non necessario, poiché già straordinaria – resta sulla sua morte.
Verso la fine del 2013, un insegnante coreano – che partecipa ad un gruppo internazionale di scrittura creativa – posta online un suo intervento. Fra l’altro, scrive:
Dopo cena, mio fratello maggiore ha cominciato a parlare dell’ultima imperatrice di Corea Myeongseong Hwanghu, un’ispirazione per i coreani al pari di Yu Gwan-sun . Si parlava della sua opposizione all’occupazione da parte di potenze straniere e di come Myeongseong fu giustiziata a causa delle sue convinzioni. Poi mi hanno detto qualcosa che non ero preparato a sentire: una casa editrice coreana chiamata “La Nuova Destra” sta pubblicando libri di storia per gli studenti in cui la storia la riscrive. In questi testi, agli studenti si insegna che la morte di Myeongseong era “necessaria”. La mia famiglia sospetta che la ragione vada fatta risalire all’attuale Presidente del paese, Park Geun-Hye che starebbe sostenendo questa operazione al fine di vedere riscritti i dettagli del suo “controverso passato”, molti dei quali riguardano suo padre Park Chung-hee. La futura Myeongseong, che da questo momento in poi chiamerò Min, fu scelta come moglie di re Gojong in base a criteri precisi che comprendevano il non avere parenti stretti con ambizioni politiche (e lei era rimasta orfana di entrambi i genitori a otto anni) e il provenire da un clan di alto lignaggio (e il suo aveva già dato due regine al paese). Gojong era stato incoronato re quando era ancora bambino, e suo padre, il grande principe Yi Ha-eung, fungeva da reggente. I due sposi erano 15enni quando il matrimonio fu celebrato e non avevano particolare simpatia l’uno per l’altra. Min si rifiutò di “consumare” il matrimonio durante la prima notte di nozze e si chiuse nelle sue stanze a studiare, mentre il suo giovane consorte continuava un’esistenza fatta di ubriacature e festini. “Lui mi disgusta.”, confidò Min ad un’amica. Quel che la ragazza studiava con passione comincia a dare un’idea di chi fosse in realtà, perché molti dei suoi libri erano riservati agli uomini (politica, storia e confucianesimo) ed altri non sfioravano che per sbaglio la vita di una giovane nobile (scienza, filosofia, religione).
In pubblico aderiva strettamente alle formalità dell’etichetta di corte, sebbene le trovasse soffocanti, saggia abbastanza da non esporsi alle critiche più facili, ma nessuno riuscì a far di lei l’icona dell’alta società coreana. Molto attenta a chi frequentava, estremamente cauta nel concedere confidenza, non si piegò a nessuna delle consuetudini di comportamento delle regine che l’avevano preceduta: niente tè pomeridiani con le nobili di corte, niente feste lussuose, nessuna richiesta di vestiario o ornamenti dallo sfarzo particolare. I membri del suo governo cominciarono a giudicarla assertiva ed ambiziosa: e Min lo era davvero, anche se forse non nel modo a cui loro pensavano. A vent’anni, la regina cominciò ad uscire dai suoi privati appartamenti e a giocare un ruolo attivo in politica e il suo scontro con il suocero, un propugnatore dell’isolazionismo le cui visioni facevano a pugni con quelle di Min, divenne pubblico. In questo periodo Min accettò l’intimità con suo marito – dare un erede al trono era visto da tutti come suo dovere e avrebbe anche rinforzato la sua posizione – ma il suo primo figlio morì quattro giorni dopo la nascita (il secondo soffrì di salute cagionevole per tutta l’infanzia) e il grande principe colse l’occasione per accusarla di essere “incapace”. Con questo pretesto, forzò Gojong a prendersi una concubina, che nel 1868 diede alla luce un figlio maschio subito nominato dal nonno-reggente principe ereditario. Min sospettava che la morte del suo piccino fosse collegata ai “tonici” che suo suocero le aveva inviato durante la gravidanza, e questa fu ovviamente la goccia che fece traboccare il vaso, già stracolmo a causa delle politiche del reggente, fanaticamente ostile ad ogni innovazione o scoperta, un uomo che faceva uccidere o espelleva di forza qualsiasi straniero mettesse piede in Corea, e perseguitava cristiani con zelo ossessivo. In segreto, da tempo Min coltivava a corte la propria fazione anti-reggente e agì alla prima occasione utile: grazie al sostegno di alti ufficiali, studiosi e membri del suo clan lo estromise dal potere legalmente, con un vero e proprio “impeachment”. D’altronde, Gojong aveva allora 22 anni ed era uscito di minorità – non vi erano ragioni plausibili per tenerlo ancora sotto tutela. Nel 1872, con l’approvazione del re, il grande principe Yi Ha-eung fu costretto a ritirarsi nella sua proprietà a Yangju. La regina Min bandì la concubina e suo figlio da corte confinandoli in un villaggio fuori la capitale, spogliati di ogni titolo reale (il bimbo morirà poco tempo dopo). Da qui inizia quel che potremmo chiamare il “governo della regina Min”, che acquisisce completo controllo della corte e mette in posti chiave i familiari di cui si fida. Il suo nemico principale, ora, è il Giappone con le sue pretese di annessione della Corea al proprio impero. Grazie al potere militare e a svariati incidenti ad esso collegati, il Giappone ottiene infine un trattato, nel 1876, che praticamente mette nelle sue mani l’intero sistema di commercio coreano. Min e Gojong, la cui relazione va sempre più migliorando, cercano vie d’uscita basate sulla conoscenza: invece di appoggiarsi ciecamente ad un’altra potenza straniera, la regina invia “missioni” in Giappone e Cina per capire come questi paesi sono cambiati e perché. Da quella giapponese, Kim Hong-jip riporterà un libro scritto dall’ambasciatore cinese a Tokyo, intitolato “Strategia coreana” che analizzava la situazione geo-politica della regione. L’ambasciatore cinese suggerì anche all’inviato di mandare la gioventù coreana a studiare all’estero e di invitare in Corea insegnanti di materie scientifiche e tecniche. A Min il libro sembrò abbastanza importante da farlo copiare e distribuire a tutti i ministri. Se fosse riuscita, come intendeva, a stringere relazioni amichevoli con le potenze occidentali, quest’ultime potevano tenere in riga le mire espansionistiche del Giappone mentre lei si dedicava a modernizzare e rafforzare il suo paese. Ma per fare ciò doveva avere l’appoggio della corte, che in questa occasione le voltò le spalle (compresi i suoi sostenitori nell’impeachment del reggente): per loro, stava progettando la distruzione dell’ordine sociale vigente. E temo di dover dire che avevano ragione, perché Min sognava tutt’altro mondo da quello gerarchico, violento e ingiusto che aveva sotto gli occhi. I ministri avevano paura che i “barbari occidentali” sarebbero venuti solo a diffondere idee sovversive e gli studiosi confuciani sottomisero un memoriale all’attenzione del sovrano in cui demolivano il libro cinese come “bizzarre teorie irrealizzabili” e la tecnologia proveniente dall’occidente come “inutile al paese”. Chiesero inoltre che gli articoli di commercio provenienti dall’estero fossero strettamente limitati e che tutti i libri stranieri presenti in Corea venissero distrutti: alla faccia del loro status da intellettuali.
Min non si lasciò scuotere e continuò ad inviare missioni in altre nazioni affinché osservassero come funzionavano gli uffici pubblici, le fabbriche, l’esercito, la polizia, gli affari economici. Sulla base dei rapporti che ricevette, riorganizzò il governo, stabilendo dicasteri per le relazioni con l’occidente, con la Cina e con il Giappone; creò uffici appositi per il commercio, per l’importazione di tecnologia, per la riforma dell’esercito. Il modello che Min aveva in mente era quello di una rivoluzione pacifica, fatta di riforme sociali, di istruzione, di tolleranza religiosa, di pari diritti per le donne: un gruppo di nobili si appassionò alle sue idee e creò a corte il nuovo partito dei “Progressisti”. Tuttavia persino costoro le si rivoltarono contro quando le regina rifiutò di tagliare ogni legame con la Cina per adottare l’occidente quale nuovo “protettore” contro i giapponesi. Min voleva che la Corea stesse in buoni termini con tutti e proteggesse se stessa da chiunque volesse sfruttarla; riuscì a respingere anche il sanguinoso colpo di stato ordito dai “Progressisti” nel 1884, anche se la vicenda si trascinò dietro un’ulteriore estorsione giapponese a danno del governo coreano. Nel frattempo, però, Min aveva conseguito una notevole serie di successi, uno dei quali era che l’economia non era più un monopolio giapponese come solo pochi anni prima. E quello stesso anno nacquero le prime “ditte” commerciali coreane e fu stampata la nuova moneta ufficiale: usare i soldi degli altri non era più un’opzione, e anche questo andava a stabilizzare l’assetto economico. Subito dopo, gli occidentali trovarono la situazione abbastanza promettente da investirvi del capitale. Il periodo della modernizzazione fu quello in cui Gojong e Min diventarono sempre più vicini, passando moltissimo tempo insieme anche quando non stavano lavorando ai loro progetti. Il re non aveva mai ricevuto un’istruzione formale, ed era stato scelto per il trono perché un gruppo di potere all’interno del palazzo presumeva di poterlo manovrare tramite il padre. Non poteva fare a meno di provare ammirazione per l’acume, la capacità politica, la facilità di apprendimento e la saldezza della moglie nel resistere alle pressioni. Min, per lui, divenne la roccia su cui ogni tempesta si sarebbe infranta. Insieme ne superarono in effetti diverse, dal complotto per deporre Gojong nel 1881 alla sollevazione militare guidata dal grande principe dell’anno successivo (al suo fallimento il padre del re sarà estradato in Cina), anche se quest’ultima avrà il costo di un nuovo trattato forzato dai giapponesi che Gojong firmò all’insaputa della moglie: una sorta di ammissione di debito per i danni che proprietà e cittadini giapponesi in Corea avevano subito durante l’insurrezione. Min compensò con un trattato bilaterale sul commercio con la Cina. La missione inviata dalla regina negli Stati Uniti nel 1883 fu forse la più clamorosa delle sue iniziative: dopo di essa, Min aprì tutte le porte alla conoscenza. Istituì una scuola d’inglese a palazzo, lasciò entrare i missionari protestanti, permise che girassero liberamente i testi di scienza e tecnologia (e ne assorbì parecchi), accolse la medicina occidentale e nuove tecniche in agricoltura, diede il suo patrocinio alla prima scuola femminile coreana, la Ewha Academy di Seul, che esiste ancora. Fu lei a dare il nome alla scuola, che significa “bocciolo di fiore del pero”, il simbolo del clan reale Yi, e mandò una lettera personale alla direttrice incoraggiandone gli sforzi per il futuro. Per la prima volta nella storia del paese qualsiasi bambina, nobile o no, aveva diritto all’istruzione. L’apertura guadagnò a Min anche un’amica straniera, a cui si legò moltissimo. Era la medica missionaria Lilias Underwood, che venne in Corea nel 1888 e a cui dobbiamo una fra le più affascinanti descrizioni della regina, di cui non esistono fotografie (tranne questa, della cui autenticità si dubita seriamente).
“Mi piacerebbe rendere pubblico un vero ritratto della regina, mostrarla al meglio della sua apparenza, ma questo sarebbe impossibile anche se lei permettesse di fotografarla, perché il suo incantevole mutamento di espressioni durante una conversazione, il carattere e l’intelletto che esse rivelano, sarebbe visto solo a metà in un volto a riposo. Porta i capelli al modo delle altre signore coreane, divisi da una scriminatura centrale, acconciati fissamente e morbidamente lontano dal viso e annodati in basso dietro la testa. Un piccolo ornamento sta in cima alla testa, trattenuto da una stretta fascia nera. Sua maestà sembra curarsi poco degli ornamenti e non ne indossa molti. Nessuna donna coreana porta orecchini, e lei non fa eccezione, ma non l’ho mai vista neppure con indosso una collana, una spilla, o un braccialetto. Doveva avere molti anelli, ma non gliene ho mai visti addosso più di uno o due, di fattura europea.” Altri resoconti sottolineano la semplicità della regina, la sua raffinata educazione nel discutere, i suoi occhi penetranti, un volto leggermente pallido dai lineamenti affilati su cui i suoi interlocutori leggono forza, intelligenza, carisma.
Il corso che il paese aveva intrapreso grazie a lei si fermò letteralmente con la sua morte. Il Giappone, i cui profitti e la cui influenza in Corea andavano dal declino verso la sparizione, aveva mandato ambasciatori a corte nel tentativo di detronizzarla, ma la devozione di Gojong nei confronti della moglie si era rivelata un ostacolo insormontabile. Fu allora che Miura Goro, l’ambasciatore giapponese che era stato un alto ufficiale dell’esercito, entrò in azione con i suoi assassini. L’omicidio di Min sollevò un’ondata di indignazione fra le altre potenze straniere e per calmare le acque Miura fu posto sotto processo a Hiroshima, assieme al personale militare che aveva ordito con lui l’operazione “Caccia alla volpe”. Tutti ottennero un verdetto di non colpevolezza, sebbene Miura ammettesse di aver assassinato la regina coreana. Il suo avvocato argomentò in sua difesa che “uccidere non è omicidio quando lo si fa per la supremazia politica”. Gojong, che dopo la morte della moglie si era chiuso nelle sue stanze per parecchie settimane, rifiutandosi di assumere ogni incarico relativo al suo ruolo, ne emerse completamente svuotato. E firmò insensibilmente tutto quel che i giapponesi gli chiedevano di firmare: trattato dopo trattato, la sua capacità d’azione era sempre più ridotta. Suo padre, che era tornato in auge con la nuova pesante influenza giapponese, presentò a corte una proposta per il declassamento postumo di Min da regina a “persona comune”. Gojong, che non aveva mai alzato la voce per sé, disse semplicemente: “Piuttosto di disonorare la donna che ha salvato questo paese, mi taglierei i polsi.” Rifiutò di firmare il decreto preparato da suo padre e da dignitari giapponesi, e chiese loro di andarsene. Due anni dopo, riuscì a celebrare i funerali di sua moglie, che furono impressionanti per cura e partecipazione popolare. Infine devo dire che questo mio resoconto per quanto lungo vi sembri e sia, non riesce a rendere giustizia alla monumentale opera di Min: ci vorrebbe un libro. Ma l’ho scritto perché mi piace pensare di aver contribuito, nel mio piccolo, a spostare l’asse dello sguardo. Il brutale assassinio di cui fu vittima non può e non deve inghiottire tutta la luce che Myeongseong Hwanghu ha diffuso attorno a sé.
Aurora