9 luglio 2025

Più che buone maniere: imparare a rispettare la Corea, partendo dal cuore

 


Ci sono luoghi nel mondo dove ogni gesto racconta qualcosa. Dove anche il modo in cui porgi un regalo, abbassi lo sguardo o tendi una mano ha un significato profondo. La Corea è uno di questi luoghi. Non è solo una questione di etichetta: è un linguaggio silenzioso fatto di rispetto, armonia e attenzione all’altro. Un linguaggio che, se imparato, può aprire porte invisibili e creare connessioni autentiche.

Mi sono immersa in questo mondo affascinante per capirlo meglio, per ascoltare ciò che non viene detto, per cogliere il senso di quella gentilezza così intensa e sottile da sembrare quasi timida. E ho capito che incontrare un coreano per la prima volta non è solo uno scambio di saluti: è l’inizio di una danza, fatta di piccoli gesti, sfumature e intuizioni.
Ecco cosa ho imparato.


L’arte del primo incontro: quando un saluto vale più di mille parole

In Corea, l’apparenza non è superficialità: è una forma di rispetto. La prima impressione è importante, e mostrarsi formali significa dimostrare che si tiene all’altro. Un semplice inchino – anche appena accennato – può dire molto più di un sorriso. E se l’incontro è formale o la persona è più anziana, chinarsi più profondamente è un modo per riconoscere il suo valore.

Anche il modo di stringere la mano è diverso: mai con una mano sola in modo distratto, e men che meno con l’altra mano in tasca (chiedete a Bill Gates, che fece scalpore per questo gesto). Meglio usare entrambe le mani o sostenere con l’altra il proprio polso o gomito: è un piccolo gesto, ma comunica grande considerazione.


Contatto fisico? Meglio di no (almeno all’inizio)

Chi arriva dall’Occidente potrebbe rimanere spiazzato: niente pacche sulle spalle, abbracci improvvisi o slanci affettuosi. In Corea, anche tra amici, si è molto più misurati. Un abbraccio dato troppo presto può mettere a disagio. Il corpo comunica, certo, ma con discrezione. Evita gesti ampi, braccia che volano, gambe accavallate davanti a qualcuno più anziano: sono dettagli, ma fanno la differenza.

E poi c’è la questione dei nomi. Dimentica il “ciao Luca” detto con disinvoltura: in Corea si usano titoli e cognomi, specialmente con chi non si conosce bene. E mai chiamare qualcuno per nome senza suffissi onorifici, a meno che non sia un tuo coetaneo o amico stretto.


Il valore del dono: un piccolo gesto, mille significati

In Corea, regalare qualcosa è un gesto delicato. Non si tratta tanto del valore economico quanto dell’intento e del modo. I regali si danno (e si ricevono) con entrambe le mani, accompagnati da un piccolo inchino. Mai aprirli subito: sarebbe irrispettoso, come se si volesse controllare se il contenuto vale la pena. Meglio mettere da parte il pacchetto, ringraziare e aprirlo in privato.

E se qualcuno ti fa un regalo, è buona norma ricambiare con qualcosa di simile, anche in un secondo momento. È un ciclo di gentilezza che si nutre di reciprocità. Però attenzione: mai esagerare con doni troppo costosi, né regalare oggetti taglienti o confezioni da quattro – in Corea il numero 4 è legato alla morte. Il simbolismo è ovunque, anche nella carta da regalo.


Quando mangiare è un rituale collettivo

Sedersi a tavola in Corea è quasi un rito. Si aspetta che siano i più anziani a sedersi e iniziare a mangiare. Solo allora anche gli altri possono toccare le bacchette. Che, a proposito, vanno usate con attenzione: mai piantarle nel riso (ricorda i rituali funebri!), né agitarle in aria o puntarle verso qualcuno.

Il pasto non è solo cibo, è condivisione. È il momento in cui la gerarchia si esprime anche nei bicchieri: chi è più giovane riempie quello degli altri, ma non versa mai il proprio. E quando si beve davanti a un anziano? Si volta il capo di lato e si copre la bocca: un gesto semplice, ma profondamente rispettoso.


Tra brindisi, karaoke e... chi paga il conto?

Bere insieme in Corea è parte integrante della socialità. Si brinda con un “geonbae” (letteralmente “bicchiere vuoto”) e spesso si finisce in un noraebang, un karaoke dove le risate sciolgono ogni formalità. Ma anche qui ci sono regole: il più anziano versa da bere, i più giovani ricambiano, ma nessuno si serve da solo.

E poi arriva il momento temuto da ogni turista: il conto. Niente “facciamo alla romana”. Di solito paga chi ha invitato o la persona più anziana. Se vuoi sdebitarti, non dirlo apertamente: invitali tu la prossima volta e anticipa il pagamento con discrezione. E dimentica la mancia: in Corea non si lascia. Non è necessaria, e potrebbe perfino mettere a disagio.


Entrare in una casa coreana: un privilegio da onorare

Le case coreane sono luoghi intimi, riservati. Essere invitati significa molto. Quando entri, togliti subito le scarpe: è un segno di rispetto e pulizia. Porta un piccolo dono, magari dolci, frutta o fiori, ben confezionati. Niente di eccessivo: l’importante è il pensiero, non il valore.

Durante la visita, non servire da bere a te stesso, partecipa con tutti al pasto e non dimenticare mai di ringraziare con calore prima di andare via. Se il padrone di casa ti accompagna fino alla porta (o anche fuori), non stupirti: è un gesto di riguardo.


Gerarchie, rispetto e… le ajumma!

Per comprendere a fondo l’etichetta coreana, bisogna capire quanto le gerarchie contino nella società. Non solo l’età, ma anche lo status, la posizione lavorativa, l’educazione. È normale chiedere quanti anni hai: non è invadenza, ma un modo per sapere come rivolgersi a te.

E poi ci sono loro: le ajumma, le signore di mezza età che sfidano ogni regola non scritta. Colorate, rumorose, ostinate. Salgono sui mezzi pubblici come se fossero in guerra, parlano a voce alta e ti spingono senza remore. Ma dietro quella scorza ruvida si nasconde spesso un cuore generoso.


‘Jeong’, ‘kibun’ e ‘nunchi’: parole che non si traducono, ma si sentono

Ci sono concetti che non hanno una traduzione precisa, ma che definiscono l’anima di un popolo. Jeong è uno di questi: è il calore umano, l’affetto silenzioso, il prendersi cura dell’altro senza dirlo. Lo senti quando un coreano ti offre un pasto senza motivo o ti aiuta senza aspettarsi nulla in cambio.

Kibun è il senso dell’onore, la dignità, lo stato d’animo di una persona. Ferirlo è una grave mancanza. Nunchi, invece, è la capacità di leggere l’atmosfera, di capire senza che nessuno dica nulla. È un’arte, più che una regola. E per chi arriva da fuori, può sembrare invisibile. Ma è reale. Ed è il filo sottile che tiene insieme tutta l’etichetta coreana.


Una lezione di umanità

Alla fine, imparare l’etichetta coreana non è solo un modo per evitare figuracce. È un esercizio di empatia. È mettersi nei panni dell’altro, riconoscere le sue priorità, la sua cultura, il suo bisogno di armonia. È smettere per un momento di pensare a sé stessi e guardare il mondo con occhi nuovi.

Per questo la Corea, più che essere visitata, va vissuta. Ascoltata. E, soprattutto, rispettata.

Fonte: https://www.dynastykorea.com/your-guide-to-korean-etiquette-culture/

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