“Non c'è più nulla da perdere. Giocare è meglio che continuare a vivere così.”
Ci sono storie che intrattengono e basta, e poi ci sono quelle che, mentre ti tengono incollato allo schermo, ti scavano dentro. Squid Game appartiene alla seconda categoria. Non perché ci mostri qualcosa che non conosciamo, ma perché ci sbatte in faccia quello che, troppo spesso, facciamo finta di non vedere. È crudo, spietato, a tratti disturbante. Ma è proprio per questo che funziona. Perché dietro la maschera da fiction, racconta la realtà. La nostra.
Un gioco per disperati
“Non importa quanto sia difficile là fuori, qui almeno ho una possibilità.”
La critica al capitalismo: quando la vita vale meno di un debito
Hwang Dong-hyuk, il creatore della serie, non fa giri di parole: Squid Game è un’allegoria del capitalismo moderno. Un sistema che ti seduce, ti consuma e ti butta via quando non servi più. Un sistema che ti fa credere che se sei povero è colpa tua, che se non ce la fai è perché non ti sei impegnato abbastanza.
I partecipanti al gioco non sono mostri. Sono persone comuni. Come noi. E proprio questo fa male. Perché ci riconosciamo. Nei loro fallimenti. Nelle loro scelte. Nella loro solitudine.
La serie ci sbatte in faccia la verità: in una società che premia solo i più forti, la competizione diventa l’unica possibilità. Ma a che prezzo?
“La gente è disposta a fare qualsiasi cosa per soldi, anche morire.”
Una delle riflessioni più amare che la serie lascia dietro di sé è che il denaro, da mezzo, diventa fine. L’obiettivo non è più vivere bene, ma sopravvivere a qualsiasi costo. Anche quello di perdere sé stessi.
Sopravvivere o vivere?
C’è una differenza enorme tra “sopravvivere” e “vivere”. Squid Game ce lo ricorda scena dopo scena. I protagonisti scelgono il gioco perché fuori non c'è nulla. Nessun lavoro, nessuna casa, nessun amore. Solo debiti, minacce, umiliazioni. E in questo, la Corea del Sud che la serie racconta non è poi così lontana da molte altre realtà. Compresa la nostra.
“Non ho mai vinto in tutta la mia vita. Almeno qui, ho la possibilità di farlo.”
Una delle lesson più forti che mi ha lasciato questa serie è proprio questa: a volte sopravvivere significa smettere di vivere. Perché ci sono scelte che ti svuotano, compromessi che ti cambiano, vittorie che in realtà sono la tua condanna.
La solidarietà come ultimo baluardo
In una società che ci insegna a competere, Squid Game ci ricorda quanto sia rivoluzionario restare umani. Quanto coraggio serva per non voltarsi dall’altra parte. Per scegliere di proteggere, piuttosto che colpire.
Il fascino della violenza: cosa dice di noi?
C’è qualcosa di disturbante nel rendersi conto che, nonostante tutto, guardiamo Squid Game con avidità. Che restiamo incollati allo schermo mentre i personaggi muoiono uno a uno. È una riflessione scomoda, ma necessaria: perché siamo così attratti dalla violenza? Perché ci emoziona così tanto vedere qualcuno lottare fino all’ultimo respiro?
Forse perché ci vediamo. Perché ci sembra tutto così familiare. Perché la nostra vita, a volte, è una corsa simile. Meno cruenta, certo. Ma fatta di sfide, rivalità, ostacoli, e una costante pressione a “vincere”.
“Il mondo là fuori è più spaventoso di questo gioco.”
E allora Squid Game smette di essere finzione. Diventa specchio. Uno specchio che riflette la nostra società e le sue contraddizioni.
Il valore della scelta
Un altro aspetto fondamentale della serie è il concetto di scelta. Nessuno obbliga i protagonisti a giocare. Tornano di loro volontà. Eppure, questa è una delle più grandi illusioni del nostro tempo: sentirci liberi, quando in realtà le nostre scelte sono spesso il frutto della necessità.
“Ho scelto io di tornare. Ma era davvero una scelta?”
Il volto nascosto del male
“I ricchi non sanno più cosa fare. Si annoiano. Allora usano noi.”
È una frase che fa male. Perché ci fa capire che, in fondo, per qualcuno la nostra vita può valere meno di un biglietto per uno show.
Simboli e metafore: i dettagli che parlano
Un altro simbolo fortissimo è l’assenza dei nomi. Tutti vengono identificati da un numero. Perché, alla fine, chi sei non importa. Non contano la tua storia, i tuoi sogni, i tuoi dolori. Conta solo se sei utile, se sei forte, se puoi vincere.
Ed è qui che la serie tocca uno dei punti più oscuri della nostra società: la depersonalizzazione. Quando l’identità si perde, quando il valore umano viene ridotto a performance, siamo ancora persone? O solo pedine?
chi vince perde
Squid Game è un viaggio dentro la natura umana. Un viaggio disturbante, ma necessario. Perché ci ricorda che ogni sistema spietato non nasce da solo: siamo noi a renderlo possibile, con le nostre paure, le nostre scelte, le nostre omissioni.
E alla fine, la vittoria del protagonista non ha nulla di trionfale. Perché chi vince… perde. Perde tutto. Gli affetti, la pace, l’innocenza. Perde sé stesso.
“Non voglio quei soldi. Non se significano questo.”
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