18 giugno 2025

Squid Game – Quando la sopravvivenza diventa un gioco (mortale)

 


“Non c'è più nulla da perdere. Giocare è meglio che continuare a vivere così.”

Ci sono storie che intrattengono e basta, e poi ci sono quelle che, mentre ti tengono incollato allo schermo, ti scavano dentro. Squid Game appartiene alla seconda categoria. Non perché ci mostri qualcosa che non conosciamo, ma perché ci sbatte in faccia quello che, troppo spesso, facciamo finta di non vedere. È crudo, spietato, a tratti disturbante. Ma è proprio per questo che funziona. Perché dietro la maschera da fiction, racconta la realtà. La nostra.

Un gioco per disperati

La trama è semplice e inquietante allo stesso tempo: 456 persone con problemi economici vengono invitate a partecipare a una serie di giochi ispirati all'infanzia coreana. Il premio finale è una cifra da capogiro. Il prezzo da pagare? La vita. Chi perde… muore.
Ma quello che rende Squid Game davvero potente non è la violenza, bensì ciò che la genera: la disperazione. Quella che ti fa accettare di tornare a giocare, pur sapendo che potresti morire. Quella che ti convince che rischiare la vita sia meglio che sopravvivere senza dignità, senza futuro, senza più nulla.

“Non importa quanto sia difficile là fuori, qui almeno ho una possibilità.”

La critica al capitalismo: quando la vita vale meno di un debito

Hwang Dong-hyuk, il creatore della serie, non fa giri di parole: Squid Game è un’allegoria del capitalismo moderno. Un sistema che ti seduce, ti consuma e ti butta via quando non servi più. Un sistema che ti fa credere che se sei povero è colpa tua, che se non ce la fai è perché non ti sei impegnato abbastanza.

I partecipanti al gioco non sono mostri. Sono persone comuni. Come noi. E proprio questo fa male. Perché ci riconosciamo. Nei loro fallimenti. Nelle loro scelte. Nella loro solitudine.

La serie ci sbatte in faccia la verità: in una società che premia solo i più forti, la competizione diventa l’unica possibilità. Ma a che prezzo?

“La gente è disposta a fare qualsiasi cosa per soldi, anche morire.”

Una delle riflessioni più amare che la serie lascia dietro di sé è che il denaro, da mezzo, diventa fine. L’obiettivo non è più vivere bene, ma sopravvivere a qualsiasi costo. Anche quello di perdere sé stessi.

Sopravvivere o vivere?

C’è una differenza enorme tra “sopravvivere” e “vivere”. Squid Game ce lo ricorda scena dopo scena. I protagonisti scelgono il gioco perché fuori non c'è nulla. Nessun lavoro, nessuna casa, nessun amore. Solo debiti, minacce, umiliazioni. E in questo, la Corea del Sud che la serie racconta non è poi così lontana da molte altre realtà. Compresa la nostra.

“Non ho mai vinto in tutta la mia vita. Almeno qui, ho la possibilità di farlo.”

Eppure, anche all’interno del gioco, la violenza non è mai solo fisica. È soprattutto morale. Ti obbliga a scegliere tra l’altro e te stesso. A decidere chi è alleato e chi è nemico. A barattare umanità per sicurezza.
E allora ti chiedi: è davvero una vittoria quella che si ottiene passando sopra ai cadaveri degli altri? Se per salvarti devi uccidere, che cosa rimane di te?

Una delle lesson più forti che mi ha lasciato questa serie è proprio questa: a volte sopravvivere significa smettere di vivere. Perché ci sono scelte che ti svuotano, compromessi che ti cambiano, vittorie che in realtà sono la tua condanna.

La solidarietà come ultimo baluardo

In mezzo a tanto orrore, ci sono però anche momenti di umanità. Brevi, preziosi, autentici. Legami che nascono nonostante tutto. Mani che si stringono anche quando la logica del gioco suggerirebbe di affondare.
E proprio questi momenti ci ricordano che, anche nella disperazione più profonda, la solidarietà può esistere. Può salvarci. Può renderci ancora umani.

“Perché mi hai aiutato?”
“Perché tu l’hai fatto con me.”

In una società che ci insegna a competere, Squid Game ci ricorda quanto sia rivoluzionario restare umani. Quanto coraggio serva per non voltarsi dall’altra parte. Per scegliere di proteggere, piuttosto che colpire.

Il fascino della violenza: cosa dice di noi?

C’è qualcosa di disturbante nel rendersi conto che, nonostante tutto, guardiamo Squid Game con avidità. Che restiamo incollati allo schermo mentre i personaggi muoiono uno a uno. È una riflessione scomoda, ma necessaria: perché siamo così attratti dalla violenza? Perché ci emoziona così tanto vedere qualcuno lottare fino all’ultimo respiro?

Forse perché ci vediamo. Perché ci sembra tutto così familiare. Perché la nostra vita, a volte, è una corsa simile. Meno cruenta, certo. Ma fatta di sfide, rivalità, ostacoli, e una costante pressione a “vincere”.

“Il mondo là fuori è più spaventoso di questo gioco.”

E allora Squid Game smette di essere finzione. Diventa specchio. Uno specchio che riflette la nostra società e le sue contraddizioni.

Il valore della scelta

Un altro aspetto fondamentale della serie è il concetto di scelta. Nessuno obbliga i protagonisti a giocare. Tornano di loro volontà. Eppure, questa è una delle più grandi illusioni del nostro tempo: sentirci liberi, quando in realtà le nostre scelte sono spesso il frutto della necessità.

“Ho scelto io di tornare. Ma era davvero una scelta?”

Quante volte anche noi scegliamo qualcosa non perché lo vogliamo davvero, ma perché è l’unica opzione?
Squid Game ci costringe a riflettere su quanto sia fragile il confine tra libertà e costrizione, tra volontà e disperazione.
Ma ci insegna anche che ogni scelta, per quanto imposta, porta con sé una responsabilità. E che a volte, scegliere di non giocare è l’unico modo per restare fedeli a sé stessi.

Il volto nascosto del male

Una delle riflessioni più profonde che mi ha lasciato la serie è questa: il male non ha sempre il volto del mostro. A volte è gentile, ordinato, vestito bene. Parla con calma, offre contratti, propone alternative.
In Squid Game, il male è spettacolarizzato, messo in scena, trasformato in intrattenimento. E i burattinai, da dietro le quinte, osservano. Ridono. Scommettono. Perché per loro non è una questione di vita o di morte, ma solo un gioco.

“I ricchi non sanno più cosa fare. Si annoiano. Allora usano noi.”

È una frase che fa male. Perché ci fa capire che, in fondo, per qualcuno la nostra vita può valere meno di un biglietto per uno show.

Simboli e metafore: i dettagli che parlano

La regia di Squid Game è ricca di simbolismi. Le forme geometriche sulle maschere (cerchio, triangolo, quadrato) indicano ruoli e gerarchie. I colori vivaci contrastano con la brutalità delle scene. I giochi da bambini diventano strumenti di morte.
E tutto questo non è casuale. Ogni scelta visiva serve a ricordarci che ciò che appare innocente può diventare pericoloso, e che dietro la facciata della normalità si può nascondere il caos.

Un altro simbolo fortissimo è l’assenza dei nomi. Tutti vengono identificati da un numero. Perché, alla fine, chi sei non importa. Non contano la tua storia, i tuoi sogni, i tuoi dolori. Conta solo se sei utile, se sei forte, se puoi vincere.

Ed è qui che la serie tocca uno dei punti più oscuri della nostra società: la depersonalizzazione. Quando l’identità si perde, quando il valore umano viene ridotto a performance, siamo ancora persone? O solo pedine?

chi vince perde

Squid Game è un viaggio dentro la natura umana. Un viaggio disturbante, ma necessario. Perché ci ricorda che ogni sistema spietato non nasce da solo: siamo noi a renderlo possibile, con le nostre paure, le nostre scelte, le nostre omissioni.

E alla fine, la vittoria del protagonista non ha nulla di trionfale. Perché chi vince… perde. Perde tutto. Gli affetti, la pace, l’innocenza. Perde sé stesso.

“Non voglio quei soldi. Non se significano questo.”

E allora forse la vera lezione è questa: non c’è ricchezza che valga la perdita della propria umanità.
E la vera forza non è quella di chi arriva alla fine… ma di chi sceglie di non giocare più.

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