19 giugno 2025

Il lungo viaggio dei K-Drama: dalle onde radio all'ondata globale

C’erano una volta le storie. Raccontate con la voce, tra suoni di sottofondo, narratori teatrali e voci alterate per ogni personaggio. Era il 1927, la Corea era ancora sotto il dominio giapponese, e la radio rappresentava uno dei pochi spiragli d’immaginazione collettiva. Il 70% dei contenuti era in giapponese, solo il 30% in coreano. Ma anche in quel piccolo spazio, qualcosa stava nascendo. Un bisogno di raccontarsi, di ritrovarsi, di sperare.

Nel 1956 arrivò il primo esperimento televisivo: la stazione KLKZ-TV. Un piccolo miracolo tecnologico che, per la prima volta, trasmise un pezzo televisivo coreano: “The Gate of Heaven”, della durata di 15 minuti. Poi, l’incendio. La stazione fu distrutta, e con lei il sogno appena nato. Ma la Corea non era pronta a rinunciare. E nel 1961 nacque la KBS (Korean Broadcasting System), il primo canale nazionale di successo. L’anno successivo andò in onda il primo drama ufficiale: Backstreet of Seoul, un racconto che più che intrattenere, voleva educare. Era la televisione del regime militare, e ogni trama doveva sostenere i valori dello Stato.

Nello stesso anno vide la luce anche Gukto Manri, primo drama storico ambientato nell’era Goryeo e diretto da Kim Jae-hyeong. Ma la tv, allora, era un lusso. Pochi potevano permettersi un apparecchio, e i drama erano privilegio di una piccola élite. Solo con gli anni ’70 i televisori iniziarono a comparire nelle case di milioni di coreani, e le storie si fecero più intime, vere, dolenti. Serie come Stepmother (1972-1973), diretta da Kim Soo-hyun, iniziarono a raccontare la sofferenza personale, i drammi familiari, le piccole ingiustizie quotidiane.

Non c’erano effetti speciali, né grandi budget. L’azione e la fantascienza erano sogni lontani. Eppure, quella sincerità, quella capacità di toccare l’animo, bastava a incollare il pubblico allo schermo. Gli anni ’80 segnarono un punto di svolta: arrivò la televisione a colori, e con lei, il primo grande successo nazionale. Love and Ambition (1987), ancora una volta diretto da Kim Soo-hyun, registrò un’audience del 78%. Il paese si fermava, letteralmente, durante la sua messa in onda.

E poi ci fu 500 Years of Joseon: una colossale epopea durata 8 anni e suddivisa in 11 serie, diretta da Lee Byung-hoon, che in seguito avrebbe firmato anche Dae Jang Geum. Era il tempo dei grandi drammi storici, delle saghe familiari, dei valori morali. Ma i tempi stavano cambiando. Gli anni ’90 aprirono le porte a qualcosa di nuovo. Con la nascita della SBS, i drama iniziarono a esplorare nuovi temi e formati. Sandglass (1995) non fu solo un successo: fu una rivoluzione. Raccontò l’insurrezione di Gwangju, un tabù nazionale, con una narrazione intensa e una fotografia da cinema. Fu anche l’inizio del “formato miniserie”: 12-24 episodi, perfetti per una narrazione coinvolgente e senza lungaggini.

Fu quella scintilla a far nascere l’Hallyu, l’onda coreana.

I K-drama iniziarono a viaggiare. Prima in Asia, poi ovunque. Winter Sonata (2002) conquistò il Giappone e fece impennare il turismo coreano. My Love from the Star arrivò in Cina e fu visto 40 miliardi di volte. Sì, miliardi. Talmente tanto che alcuni drama vennero riadattati in lungometraggi. Talmente tanto che la Cina iniziò a preoccuparsi. Tra febbraio e novembre 2017, a causa di tensioni diplomatiche, i drama coreani furono bannati dal mercato cinese. Ma l’onda non si fermò.

Anzi, si rafforzò.

Il romanticismo coreano conquistò il mondo. Full House, Secret Garden, Descendants of the Sun, Crash Landing on You. Ma anche thriller politici, storie psicologiche, commedie assurde. I fusion sageuk, drammi storici con elementi moderni, iniziarono a brillare: Damo, Jewel in the Palace, Moon Embracing the Sun. Le protagoniste erano donne complesse, resilienti, tragiche. Gli uomini… spesso semplicemente bellissimi. Eppure, umani.

Con l’arrivo degli smartphone, nacquero i web drama: brevi, intensi, pensati per essere visti ovunque, in metropolitana, a letto, persino in pausa pranzo. E con loro, arrivarono anche le trasposizioni da webtoon, i fumetti digitali coreani: Cheese in the Trap, Misaeng, Orange Marmalade. Era un’epoca nuova. Più rapida, più digitale, più internazionale.

Ma c’era un problema: la lingua.

Solo lo 0,7% della popolazione mondiale parla coreano. Eppure i K-drama sono ovunque. Com’è possibile? Grazie ai sottotitoli. Grazie a Netflix, Viki, KOCOWA. Grazie anche ai siti illegali – lo sappiamo tutti – come KissAsian o Dramacool, che hanno permesso a milioni di persone di scoprire un mondo nuovo. E sì, grazie anche a Dramafever (rip, ci manchi), che dal 2009 distribuiva drama gratuiti sottotitolati in inglese. Dopo la sua chiusura nel 2018, Viki è diventato il rifugio globale per i fan.

I vecchi canali come TV AZN o ImaginAsian, che mandavano in onda drama in Nord America, chiusero nel 2008 e nel 2011. Ma lo streaming prese il sopravvento. Netflix iniziò a distribuire drama coreani già nel 2008. E da lì, tutto cambiò.

La Corea stessa ne è consapevole. Il governo ha istituito centri culturali in tutto il mondo, ha collaborato con Netflix e con case di produzione come Studio Dragon. La KOFICE (Korean Foundation for International Cultural Exchange) aiuta a distribuire i drama gratuitamente in altri Paesi. Il soft power è reale. Parasite ha vinto l’Oscar. Squid Game ha dominato le classifiche globali. Ma tutto era cominciato con Love and Ambition. Con Sandglass. Con la voce narrante del 1927.

E in patria, come vengono vissuti i drama?

Con orgoglio, ma anche con occhio critico. I coreani sanno bene che non tutto ciò che si vede è reale: corpi perfetti, amore idealizzato, amicizie impossibili. Ma riconoscono anche che certi aspetti – il rispetto gerarchico, l’attenzione al cibo, il valore delle tradizioni – sono profondamente autentici. La censura, ancora oggi, è presente. Il KMRB (Korea Media Rating Board) vigila severamente, soprattutto sui contenuti sessuali o troppo violenti. La giovane età media del pubblico impone responsabilità.

Eppure, all’estero, i K-drama vengono amati forse ancora di più che in patria. Perché offrono qualcosa che altrove non si trova. Un’emozione pulita. Un sogno a portata di mano. Protagonisti belli, ma vulnerabili. Cliffhanger che ti obbligano a vedere “solo un altro episodio”. Episodi da un’ora. Stagioni brevi. E quel mix perfetto di malinconia, speranza e colonna sonora struggente che ti fa dire: “Okay, solo un altro.”

Dal primo radiodramma del 1927 alle serie da binge-watching del 2025, i K-drama non sono semplici fiction. Sono specchi, sogni, strumenti di memoria e rivoluzione. Sono mondi in cui rifugiarsi, spesso per tornare a noi stessi.

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