Adozione internazionale: un’eredità della guerra
La Corea del Sud è stato il primo paese al mondo per numero di adozioni internazionali. Questo primato, che potrebbe sembrare nobile a uno sguardo superficiale, affonda le radici in una ferita collettiva: la guerra di Corea. Negli anni Cinquanta, migliaia di bambini rimasti orfani o nati da relazioni tra donne coreane e soldati stranieri vennero dati in adozione, per lo più a famiglie americane. Il governo coreano, anziché costruire un sistema di protezione nazionale, facilitò per decenni la cessione di questi bambini all’estero, trattandoli come “esportazioni” da gestire con l’aiuto di agenzie religiose o private.
La narrativa ufficiale parlava di carità, di necessità, di soluzioni per i piccoli abbandonati. Ma la verità che è emersa con il tempo è molto più amara: molti di quei bambini non erano affatto orfani. Alcuni venivano separati con la forza dalle loro famiglie, altri sottratti con l’inganno o dichiarati “senza genitori” grazie a documenti manipolati. Si è trattato, in moltissimi casi, di veri e propri abusi sistematici.
Tra i casi più emblematici emersi con il tempo, vi è quello della struttura religiosa Brothers Home, coinvolta in una delle vicende più oscure: tra il 1979 e il 1986, almeno 19 bambini risultano essere stati vittime di traffico, un fatto che getta ulteriore ombra sul sistema di affidamenti e istituzionalizzazioni dell’epoca.
La macchina delle adozioni e le sue fratture
Per decenni, le adozioni internazionali hanno rappresentato per la Corea anche un’industria redditizia. Alcuni report parlano di incentivi economici, rimborsi per le agenzie e una vera e propria politica del “lasciare andare” per non dover affrontare il problema dei bambini indesiderati. In particolare, venivano spinti verso l’adozione all’estero i figli nati da madri single, da relazioni extraconiugali, o semplicemente ritenuti “di troppo” in famiglie numerose e povere. L’aborto era illegale, il welfare inesistente: l’unica via per le donne era spesso quella dell’abbandono, o peggio, della rinuncia forzata.
Nel tempo, l’immagine pubblica del fenomeno è cambiata. La Corea ha iniziato a promuovere l’adozione domestica e a porre limiti sempre più rigidi all’adozione internazionale. Ma i numeri sono rimasti inquietanti. Fino al 2007, erano ancora più i bambini spediti all’estero che quelli adottati in patria. E anche quando le leggi si sono fatte più stringenti, i problemi non sono spariti. I sistemi di registrazione, ad esempio, hanno continuato a contenere errori, omissioni, falsificazioni. Alcuni bambini sono cresciuti senza conoscere la verità sulle proprie origini, e ancora oggi migliaia di adulti coreani adottati all’estero cercano invano i loro genitori biologici, trovandosi spesso davanti a un muro di silenzi, dati mancanti e storie cancellate.
Le sfide dell’adozione oggi: tra stigma e burocrazia
Oggi, adottare in Corea del Sud è molto difficile. Le restrizioni sono severe, e per chi vive nel paese da straniero, il processo è quasi impossibile. Anche i cittadini coreani devono affrontare ostacoli enormi: lunghi tempi di attesa, controlli estenuanti e un forte stigma sociale, specialmente nei confronti delle madri biologiche. In Corea, la famiglia biologica resta ancora un valore sacro, e l’adozione è vista da molti come un’“ultima spiaggia” o qualcosa da nascondere. I bambini adottati vengono spesso discriminati, e molte famiglie scelgono di non dire nulla neanche al figlio stesso.
Inoltre, trovare informazioni aggiornate e corrette sul processo è complicato. Chi prova a documentarsi online spesso si scontra con esperienze discordanti, lunghe attese, risposte vaghe dalle autorità. Anche sui forum di espatriati, chi vuole adottare esprime frustrazione, confusione, e un forte senso di impotenza.
La voce degli adottati
Negli ultimi anni, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. Un numero crescente di adulti adottati – soprattutto quelli cresciuti negli Stati Uniti e in Europa – ha iniziato a parlare. A denunciare. A condividere le proprie esperienze di identità spezzata, di razzismo, di mancanza di radici. Alcuni hanno intrapreso viaggi verso la Corea per cercare la verità, altri si sono uniti in gruppi e associazioni che chiedono maggiore trasparenza, accesso ai documenti, scuse ufficiali.
Queste voci stanno cambiando la narrazione. Non si parla più solo di “bambini salvati”, ma anche di “vite rubate”. Di adozioni che non sono state scelte, ma imposte. Di famiglie separate per sempre, spesso senza motivo. Di traumi invisibili che durano una vita.
Un dolore collettivo, una riflessione necessaria
The Defects non racconta direttamente questa storia. Ma la sfiora, la evoca, la incarna. La presenza di bambini segnati da ferite invisibili, cresciuti in istituti, segnati dal rifiuto e dalla vergogna, ci obbliga a guardare oltre la superficie. A chiederci cosa significhi davvero essere figli in un mondo che sceglie chi è degno e chi no.
Scrivere questo articolo è stato un percorso emotivo ma anche lucido. Perché la storia dell’adozione in Corea del Sud è troppo complessa per essere ridotta a uno slogan. È fatta di scelte politiche, di ingiustizie sociali, di silenzi culturali, di leggi ambigue, di tragedie personali.
Ma è anche una storia che merita di essere ascoltata. Perché ogni figlio invisibile, in fondo, ha il diritto di essere visto.
Fonti:
- https://asianwiki.com/The_Defects
- https://adoptionnetwork.com/international-adoption-information/south-korea
- https://en.wikipedia.org/wiki/Adoption_in_South_Korea
- https://www.reddit.com/r/Living_in_Korea/comments/1ie07zp/adoption_process_in_korea
- https://www.asahi.com/ajw/articles/15432668?utm
- https://apnews.com/article/south-korea-international-intercountry-adoption-fraud-abuse-350fcb1a6bdb4d4b6ed1900f4db4bfbb
- https://en.wikipedia.org/wiki/Brothers_Home?utm
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