Ci sono storie che sembrano scolpite nel tempo, non solo per ciò che raccontano, ma per quello che rappresentano. Una di queste è la storia dell’alfabeto coreano: l’Hangul. E no, non è solo un sistema di scrittura. È un atto d’amore, un gesto rivoluzionario, un urlo gentile lanciato verso il futuro da un re che ha saputo guardare il popolo negli occhi e vedere l’umanità prima della nobiltà.
E pensare che tutto comincia da un dato curioso che forse in pochi conoscono: tra tutte le lingue dell’Asia orientale, il coreano è considerato il più semplice da imparare. O meglio, il più accessibile. Bastano pochi giorni per familiarizzare con le lettere dell’Hangul. Ma dietro questa semplicità apparente, si cela un viaggio epico, fatto di esclusione, rivincita, identità ritrovata.
Quando le parole erano un privilegio
Durante la dinastia Joseon, il sapere era monopolio dell’élite. Si scriveva in Hanja (한자), ossia caratteri cinesi, adottati direttamente dalla letteratura confuciana e buddhista. Erano belli, ricchi di significato... e totalmente inaccessibili al popolo. Non si potevano leggere "a orecchio", come l’italiano o l’inglese: ogni carattere rappresentava un’idea, non un suono. Per capirli, servivano anni di studio. Anni che solo i nobili potevano permettersi.
Il risultato? Una nazione che parlava coreano, ma non sapeva scriverlo. Una cultura tramandata oralmente, ma senza una voce ufficiale. Una popolazione divisa non solo dalla classe sociale, ma anche dal diritto a esprimersi. Come puoi sentirti parte di qualcosa, se non puoi nemmeno scriverne il nome?
Il re che ascoltava
È qui che entra in scena lui: Sejong il Grande. Un nome che in Corea è sinonimo di progresso, empatia e intelligenza. Non si accontentò di governare: voleva capire. Osservava il disagio, ascoltava le lamentele silenziose di chi non poteva leggere un editto, firmare una petizione, scrivere una poesia.
Nel 1443, decise di fare qualcosa di inaudito: creare un sistema di scrittura per tutti. Un alfabeto semplice, logico, fonetico. Lo chiamò Hunminjeongeum, ovvero “i suoni corretti per istruire il popolo”. Non un dono, ma un diritto restituito.
“Un uomo intelligente può impararlo in una mattinata, uno stupido in dieci giorni”, diceva. E non lo diceva con disprezzo, ma con tenerezza. Perché quel “nessuno deve restare indietro” era la sua vera missione.
Una lingua che divide e unisce
L’invenzione dell’Hangul fu un terremoto culturale. Per la prima volta, anche i contadini, le donne, i mercanti potevano imparare a scrivere. Potevano raccontare, pregare, innamorarsi per iscritto. Ma non tutti furono contenti. L’élite coreana – i yangban – lo vide come un attacco al proprio potere. Se tutti sanno leggere, tutti possono capire. E chi capisce, può anche ribellarsi.
Così, nel 1504, l’Hangul venne bandito. Una lingua cancellata per paura. Ma si sa, le parole vere trovano sempre il modo di sopravvivere. Nelle storie popolari, nei romanzi d’amore scritti di nascosto, nelle poesie appese ai muri. L’Hangul non morì. Aspettò.
I secoli bui e la rinascita
Nei secoli successivi, la Corea conobbe invasioni, schiavitù, dominazioni straniere. Eppure, fu proprio durante l’occupazione giapponese che il popolo coreano riscoprì il valore dell’Hangul. Il Giappone voleva cancellare l’identità coreana, vietando la lingua e la cultura locali. Ma ogni parola scritta in Hangul diventava un atto di resistenza. Ogni sillaba, un gesto di libertà.
Nel 1946, con la caduta dell’Impero giapponese, l’Hangul tornò a essere ufficialmente la scrittura della Corea. Una vittoria culturale che andava ben oltre la grammatica: era la conferma che l’identità non si cancella con una legge.
Hangul: identità, non solo lettere
Ma cos’è, davvero, l’Hangul? In coreano “한글”: han (dalla Corea) + geul (scrittura). Ventiquattro lettere – 14 consonanti e 10 vocali – organizzate in blocchi sillabici, semplici e armoniosi. Ogni suono ha un suo disegno. Ogni parola ha un cuore.
E come ogni lingua viva, anche il coreano ha continuato a evolversi. Oggi, l’Hangul è più forte che mai. È la base su cui si è costruita l’industria culturale coreana che il mondo intero ammira. Senza Hangul, niente K-pop, niente drama, niente webtoon. E forse, niente Corea come la conosciamo ora.
Una festa per ricordare
Il 9 ottobre, in Corea del Sud, si celebra l’Hangul Day. È una festa nazionale, ma anche qualcosa di più. È un promemoria collettivo che ricorda come l’identità possa nascere anche da un gesto semplice: rendere le parole accessibili a tutti. In Nord Corea si celebra il 15 gennaio, ma il senso è lo stesso. È la lingua a fare la patria, è la scrittura a fare il popolo.
Hangul non è solo un alfabeto. È un simbolo. È la voce di chi per troppo tempo non ha potuto parlare. È la prova che un re illuminato può cambiare la storia più di mille guerre. È il ponte tra passato e futuro, tra esclusione e orgoglio.
Ed è anche un invito. A impararlo, a capirlo, a usarlo. Non per moda, ma per rispetto. Perché dietro ogni consonante e ogni vocale, c’è un popolo che ha lottato per poter scrivere: “questa è la mia lingua, questa è la mia storia”.
Fonte: https://ling-app.com/ko/history-of-hangul/

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