8 luglio 2025

Won Kyung: La regina che incoronò un’epoca - La vera storia dietro “The Queen Who Crowns”

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Era una notte senza stelle, come se il cielo stesso avesse deciso di trattenere il fiato. Nella penombra del palazzo, una donna sedeva immobile, le mani poggiate sul grembo. Non era vestita come una regina, eppure lo era già. Non per la corona, ma per ciò che si stava preparando a perdere pur di conquistarla.

È da questa immagine che parte il drama “The Queen Who Crowns”, dedicato a una figura che raramente occupa lo spazio che merita nei racconti popolari: Wongyeong, o Won Kyung, la regina consorte di Taejong, madre del futuro re Sejong il Grande. Una donna realmente esistita, che ha attraversato il cuore pulsante della storia coreana con lo sguardo fisso sul trono, ma anche sul destino di suo figlio e della dinastia che contribuì a forgiare.

“Non basta essere la moglie del re. Bisogna imparare a esserlo.”
(Immagino siano queste le parole non dette, ma scolpite in ogni gesto della sua vita.)

Quando si pensa alle regine del passato, spesso si immaginano figure immobili, rinchiuse tra le mura del palazzo, sorvegliate da etichette, prigioniere di doveri. Ma Won Kyung non era fatta per stare ferma. Lei è il simbolo di tutte quelle donne che hanno imparato a muoversi silenziosamente nel labirinto del potere, senza mai perdere di vista ciò che conta.

Perché essere moglie di un uomo come Taejong – ambizioso, spietato, deciso a prendere con la forza ciò che gli era stato negato – non era un destino. Era una scelta. E scegliere di restargli accanto, anche quando la sua ascesa passava sopra i fratelli, le famiglie e forse persino sopra l’amore, richiedeva più forza di quella che si vede in battaglia.

C’è qualcosa di profondamente moderno in questa storia antica.
Una donna in un mondo governato da uomini.
Una madre che vede nel figlio il futuro, e plasma quel futuro con ogni sacrificio possibile.
Una stratega che conosce il valore della diplomazia, ma anche della fermezza.

E no, non è solo una trama da drama.
È storia. Vera. Documentata negli Annali della Dinastia Joseon.
Eppure, ci somiglia.

Quante donne oggi si muovono ancora in ambienti dove devono conquistarsi spazio a suon di silenzi intelligenti e mosse calcolate?
Quante devono essere forti senza sembrare dure, ambiziose senza disturbare, madri senza dimenticarsi di sé stesse?

Won Kyung rappresenta un tipo di potere che non si grida.
Il potere del lungo termine. Quello che costruisce e non distrugge.
Che pensa in generazioni, non in giorni.
Che conosce la differenza tra vincere una battaglia e fondare una dinastia.

Forse non è un caso che suo figlio, Sejong il Grande, sia passato alla storia come uno dei sovrani più illuminati della Corea.
Forse l’illuminazione nasce anche da chi ti ha educato a riconoscere la luce nel buio.
E questa donna, dietro le quinte, l’ha fatto.
Come fanno tante madri.
Come fanno tante donne che non verranno mai nominate negli annali.

“Regnare non significa portare una corona. Significa decidere chi sei, anche quando nessuno è pronto ad ascoltarti.”

La storia di Won Kyung non è solo un tassello del passato. È uno specchio.
Ci ricorda che la forza non ha sempre la forma di una spada, e il coraggio non ha sempre la voce alta.
Ci mostra che la vera rivoluzione, a volte, passa per il grembo di una donna, per il suo intelletto, per la sua determinazione.

E se oggi possiamo parlare, scrivere, sognare, è anche grazie a quelle che, in silenzio, hanno aperto la strada molto prima di noi.
Donne come lei.
Donne come tante di noi.

Heo’s Restaurant e la vera storia di Heo Im: tra agopuntura, leggenda e ramen

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Ci sono drama che ti fanno piangere, altri che ti fanno ridere fino alle lacrime. E poi ci sono quelli che, nel bel mezzo di una risata, ti sorprendono con un dettaglio storico, un nome reale, una figura del passato che non ti aspettavi di trovare lì. È quello che mi è successo con Heo’s Restaurant. Una commedia storica dal tono leggero e scanzonato, con una trama tanto assurda quanto deliziosa, che ruota attorno a un ristorante tradizionale aperto nel cuore della dinastia Joseon. Ma la vera sorpresa? Il protagonista, Heo Im, è realmente esistito.

Sì, proprio lui. Quello che nel drama prepara brodi e pietanze come un maestro stellato ante litteram, nella realtà era uno dei più grandi medici dell’epoca Joseon, noto per i suoi studi rivoluzionari sull’agopuntura. Un uomo citato persino nel Dongui Bogam, l’enciclopedia medica che ancora oggi è considerata un caposaldo della medicina orientale. E allora mi sono chiesta: cosa succede quando la storia diventa fiction? Quando un medico si trasforma in chef? E cosa rimane, in fondo, della sua verità?

🍜 Quando la storia si fa commedia: benvenuti a Heo’s Restaurant

Heo’s Restaurant non è il classico drama storico in cui ci si aspetta intrighi di palazzo, complotti, guerre di successione e amori proibiti. È piuttosto una versione romanzata – anzi, fortemente romanzata – della vita di Heo Im, trasformato qui in un cuoco reale che decide di aprire un ristorante per il popolo. Un’idea assurda, certo, ma anche incredibilmente tenera e originale.

La serie mescola situazioni comiche e surreali con una cura quasi affettuosa per i dettagli della tradizione culinaria coreana. Il cibo diventa il mezzo con cui Heo Im si avvicina alla gente comune, cura le ferite dell’anima e, forse, anche del corpo. E anche se la trama è completamente inventata, c’è qualcosa di profondamente affascinante nell’immaginare un personaggio storico vivere una seconda vita tra pentole, risate e profumi di ramen.

🩺 Ma chi era davvero Heo Im?

Al di là della fiction, Heo Im è stato uno dei più celebri medici della dinastia Joseon (1392–1897). Nato nel 1570, si specializzò nella pratica dell’agopuntura, una branca della medicina tradizionale coreana che – all’epoca – stava ancora cercando un suo riconoscimento ufficiale. E fu proprio grazie a lui che l’agopuntura cominciò ad affermarsi come metodo terapeutico serio e rispettato.

Heo Im dedicò tutta la sua vita alla medicina. Non era un medico aristocratico, ma un uomo che, pur provenendo da una famiglia di classe media, riuscì a farsi strada con passione e studio, diventando un punto di riferimento nel suo campo. Viene citato nel Dongui Bogam, una vera e propria bibbia della medicina orientale compilata da Heo Jun – altro grande nome del settore – e oggi patrimonio dell’UNESCO.

Lì, tra formule, trattati e indicazioni mediche, troviamo anche il suo nome. E allora ci si rende conto che dietro a quella figura sorridente e un po’ goffa del drama, si nasconde un uomo reale, un pioniere della salute, un curatore di anime e corpi.

🧠 Storia, fiction e la magia dei K-drama

Quello che più amo dei K-drama è questa capacità tutta loro di intrecciare i fili della realtà con quelli della fantasia, senza mai farli sfilacciare. Heo’s Restaurant non ha la pretesa di essere un documentario. È una favola, un gioco, una celebrazione affettuosa della tradizione coreana, filtrata attraverso la lente dell’umorismo e dell’immaginazione.

Eppure, proprio questa leggerezza rende ancora più efficace il messaggio: i personaggi storici non devono restare prigionieri dei libri. Possono rinascere, reinventarsi, vivere nuove vite e raggiungere nuove generazioni. Anche se si tratta di cucinare in una cucina improvvisata o servire piatti deliziosi a contadini affamati.

🌿 Una lezione tra le righe

Guardando Heo’s Restaurant, ho riso. Tanto. Ma ho anche imparato. E mi sono detta che forse, ogni tanto, anche noi dovremmo concederci il lusso di guardare alla storia con occhi nuovi. Di lasciare che un medico diventi cuoco, che un libro di medicina diventi spunto per una serie TV, e che una risata ci avvicini – senza nemmeno accorgercene – a figure che hanno fatto davvero la storia.

Forse non sappiamo nulla di agopuntura. Ma se Heo’s Restaurant ci ha incuriosito almeno un po’ su chi fosse davvero Heo Im, allora la sua missione l’ha già compiuta.

Tra mandarini e memorie: la Corea che vive nei drama – Il caso di When Life Gives You Tangerines

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Ci sono storie che non hanno bisogno di eventi clamorosi per toccarti il cuore. Non servono eroi epici o grandi tragedie per raccontare qualcosa di profondo. A volte basta un mandarino, un grembiule scolorito dal sole, il rumore del mare in lontananza. A volte basta l’infanzia.

When Life Gives You Tangerines non è tratto da una storia vera, ma parla come se lo fosse. Perché ogni dettaglio, ogni sguardo, ogni silenzio sembra uscito direttamente dalla memoria collettiva di chi ha vissuto in Corea negli anni difficili del dopoguerra. E lo fa da un punto di vista semplice, puro e disarmante: quello di una bambina. In questo piccolo gioiello narrativo, la vita quotidiana dell’isola di Jeju diventa la protagonista silenziosa di un racconto intimo e sincero.

📍 Un viaggio nell’isola di Jeju che pochi raccontano

Quando si parla di Jeju oggi, si pensa subito al turismo, ai paesaggi da cartolina, alle coppie in luna di miele. Ma questo drama ci porta molto lontano da quel tipo di immaginario: ci porta indietro nel tempo, in una Jeju rurale, stanca ma viva, povera ma dignitosa. Un’isola fatta di volti scavati dal lavoro, di mani callose, di bambini che si rincorrono tra i campi, di donne che raccolgono con cura ogni frutto, perché ogni frutto è un pezzo di sopravvivenza.

When Life Gives You Tangerines ci racconta tutto questo con una lentezza che non annoia, ma che accarezza. Come se ogni scena fosse un ricordo. Come se ogni parola sussurrata contenesse una verità nascosta.

📍 La Corea del dopoguerra attraverso i gesti più piccoli

Il drama non fa proclami, non ti spiega la storia nei libri. Ma la fa vedere. La fa respirare. La Corea degli anni ’50 e ’60 è un Paese che sta cercando di rialzarsi, che si aggrappa alla terra, alle stagioni, ai legami familiari. I bambini crescono in fretta, ma conservano negli occhi una forma di meraviglia che nemmeno la miseria riesce a cancellare.

Attraverso il personaggio di Boksoon, e della sua famiglia, si apre uno spiraglio su un modo di vivere ormai scomparso, ma che continua a parlare a chi ha il cuore abbastanza aperto per ascoltare. Non ci sono cellulari, né comfort. C’è il vento salmastro. Ci sono le mani delle madri che intrecciano le reti. C’è il valore delle cose fatte a mano, delle parole dette sottovoce, della gentilezza che non ha bisogno di spiegazioni.

📍 Infanzia e resilienza: due facce della stessa bellezza

Quello che colpisce di più è come il drama riesca a raccontare l’infanzia senza mai infantilizzarla. I bambini non sono solo spettatori: sono piccoli pilastri su cui si regge la comunità. Vivono la durezza con una naturalezza disarmante, ma trovano ancora spazio per sognare, per ridere, per farsi domande. La loro resilienza non è quella rumorosa dei supereroi, ma quella silenziosa di chi si adatta, resiste, spera.

In un mondo che corre veloce, in cui ci si dimentica spesso del valore dei momenti semplici, When Life Gives You Tangerines ci invita a rallentare, a guardare indietro, a cercare nella polvere dei ricordi un senso più profondo. E forse, in quel rallentare, ritroviamo qualcosa che ci appartiene anche se non abbiamo mai vissuto in Corea, anche se non abbiamo mai raccolto un mandarino in vita nostra.

📍 La cultura come memoria viva nei K-drama

I drama coreani, molto più spesso di quanto si pensi, sono specchi della società. Non solo per i temi moderni e sociali che trattano, ma anche per il modo in cui riescono a raccontare la cultura e le tradizioni attraverso storie apparentemente semplici. In When Life Gives You Tangerines la lingua, i costumi, le relazioni sociali, i ruoli familiari e il paesaggio naturale non sono mai sfondi: sono parte integrante del racconto.

Questa capacità di inserire la cultura locale nella narrazione rende il drama una vera e propria testimonianza. Non storica nel senso stretto, ma profondamente autentica. È come se, guardando queste puntate, imparassimo senza accorgercene a conoscere un popolo. Le sue radici. I suoi dolori. I suoi sogni. E soprattutto, il modo unico in cui affronta la vita.

📍 Quando un mandarino diventa simbolo

Il mandarino, protagonista silenzioso del titolo, non è solo un frutto. Diventa simbolo di ciò che si ha, anche quando si ha poco. Di ciò che la vita ti offre, anche quando sembra non avere nulla da darti. È un dono semplice, ma pieno di significato. Come le storie di cui si compone la nostra esistenza.

Guardando questo drama, ho pensato a quante cose diamo per scontate. Alla frenesia. Al rumore. Alla quantità. E quanto invece valga la pena tornare alla qualità dei gesti, all’ascolto, alla lentezza. Alla cura. When Life Gives You Tangerines è un promemoria. Un invito gentile a guardare il mondo con occhi più attenti. A trovare la bellezza nascosta nella fatica. A capire che la cultura non è solo quello che si studia, ma quello che si tramanda nei gesti, nelle parole, nei silenzi.


Questa è una dichiarazione d’affetto. Per una storia piccola e immensa. Per un popolo che ha saputo rialzarsi senza perdere l’anima. Per un’isola che è molto più di una meta turistica. When Life Gives You Tangerines è uno di quei drama che forse non fanno scalpore, ma che lasciano un segno.

E in quel segno, ognuno può trovare un frammento di sé.

7 luglio 2025

I gesti che parlano coreano: quando le mani dicono più delle parole

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Viviamo in un mondo in cui il linguaggio sembra dominare ogni forma di comunicazione, eppure ci sono momenti in cui le parole non bastano. A volte è un’espressione del viso. Altre volte… è semplicemente un gesto. E se c’è una cultura che ha saputo trasformare l’uso delle mani in una vera e propria arte comunicativa, quella è la Corea del Sud.

In un Paese dove i pronomi spesso si lasciano cadere nel silenzio, dove il contesto conta più della frase completa, i gesti diventano un’estensione naturale delle emozioni, dei pensieri, della quotidianità. E oggi voglio portarvi a scoprire proprio questo: il linguaggio nascosto delle mani coreane, quei piccoli movimenti che raccontano tanto, senza dire nulla.


Il cuore tra le dita: il famoso finger heart

Chiunque abbia mai visto un drama coreano o anche solo una performance K-pop l’ha notato almeno una volta: il cuore formato da pollice e indice. Basta incrociarli e… voilà: un cuoricino in miniatura. In Corea è diventato il simbolo per eccellenza dell’affetto, dell’amicizia, dell’amore. È come un bacio volante occidentale, ma con più aegyo (dolcezza coreana, per intenderci).

È il gesto che fai quando vuoi dire a qualcuno “ti voglio bene” anche senza esserci fisicamente. Magari alla tua migliore amica prima di un viaggio, oppure a quel cantante che ti ha cambiato la giornata con una canzone. L’unica accortezza? Evitalo in ambienti formali: non è il caso di farlo al tuo capo… a meno che non siate già in confidenza.


La V della pace (e non solo)

La “V sign” – l’indice e il medio alzati a formare una V – in Corea è un must. La usano tutti. E non solo per dire “pace” o “vittoria”. No, in Corea è il passepartout dei gesti. Serve per dire “anch’io”, “sono d’accordo”, “ce la farai!”, “forza!”. È il gesto da fare nelle foto, quello che esce automaticamente appena ti senti a tuo agio.

Attenzione però: non usarlo in riunioni formali o situazioni troppo serie. Per tutto il resto? Via libera.


Il pollice in su: semplice, diretto, efficace

C’è qualcosa che ti è piaciuto? Mostralo con un pollice alzato. In Corea non si spreca spesso un “bravə” o “ottimo lavoro” a parole. Si fa un gesto, si accompagna con un’espressione ammirata, e il messaggio arriva forte e chiaro.

E se ti è piaciuto davvero tanto? Allora due pollici in su. Nessun bisogno di spiegare altro.


Le braccia incrociate: dire “no” senza dire “no”

In molte culture si scuote la testa per dire “no”. In Corea… si incrociano le braccia. È un gesto universalmente compreso, ma nella quotidianità coreana è particolarmente comune. Un collega ti offre un caffè e tu non lo vuoi? Braccia incrociate. Tutto chiaro.


Le mani che salutano (ma in senso negativo)

Un altro modo per dire “no” è agitare entrambe le mani, come a dire: “no no no, grazie”. È quel gesto istintivo che fai quando tua madre ti propone la colazione alle 6 del mattino e tu sei ancora mezzo addormentato. Oppure quando qualcuno ti offre dell’acqua e tu non ne hai bisogno. Un modo garbato, simpatico e visivamente chiaro per declinare con gentilezza.


Il giuramento col mignolo: dolcezza rituale

Questa è una delle cose che più mi hanno colpita. In Corea, il pinky swear (giuramento col mignolo) non è solo un “scambio di promesse” tra bambini. È un piccolo rituale con ben quattro fasi, ognuna con un suo nome:

  1. 약속 (Yakseok) – Intrecciare i mignoli per sancire l’inizio della promessa.

  2. 도장 (Dojang) – Unire i pollici per “sigillare” la promessa.

  3. 싸인 (Sa-in) – Toccare i palmi come una firma simbolica.

  4. 복사 (Boksa) – Muovere le dita mentre ci si lascia, come a “fare una fotocopia” della promessa.

È un gesto tenero, dolce, carico di fiducia. Lo fanno spesso i più giovani, ma anche tra adulti può servire a creare connessione, soprattutto con i bambini. E se volete qualcosa di più “serio”, esiste anche la promise handshake, una stretta di mano promissoria che segue gli ultimi tre passaggi del pinky swear.


Il colpo alla fronte: punizione tra amici

Se guardi K-pop, potresti aver visto qualcuno dare un piccolo “flick” (colpetto) sulla fronte a un altro membro del gruppo. Non è violenza, ma una forma di punizione giocosa. È un modo per dire: “Hai perso, ora paghi pegno!”. E c’è chi – come Onew degli SHINee – ha reso questa punizione una vera leggenda.


La mano sulla bocca: rispetto ed educazione

Molti stranieri si chiedono perché i coreani si coprano la bocca mentre ridono o mangiano. La risposta è semplice: rispetto e discrezione. Non si vuole mostrare un volto scomposto o essere percepiti come maleducati. È una forma di pudore sociale, molto radicata nella cultura del rispetto per l’altro.


Chiamare qualcuno? Palmo verso il basso

In Corea non si alza la mano con le dita che sventolano come nei film americani. Per chiamare qualcuno si tiene il palmo rivolto verso il basso e si muove la mano su e giù. Elegante, discreto, e perfettamente in linea con la gestualità misurata del Paese.


Parlare di soldi… senza dirlo

Un gesto molto usato è quello del pollice, indice e medio uniti: significa che si sta parlando di denaro. Se poi strofini il pollice sugli altri due, il messaggio è ancora più chiaro: “Ho bisogno di soldi”. È diretto, sì, ma senza risultare invadente.


Il cuore con le braccia

Oltre al finger heart, c’è anche l’arm heart: si forma un cuore alzando le braccia sopra la testa e unendole. Magari con una leggera inclinazione del busto da un lato, per sembrare ancora più carin*. È il gesto d’amore per eccellenza, spesso usato durante eventi, concerti, o momenti speciali.


Un gesto per bere insieme

Ultimo, ma non meno importante: il gesto del soju. Si finge di tenere un bicchierino e si fa il movimento di portarlo alla bocca. Vuol dire una cosa sola: “Beviamo insieme?”. È l’invito implicito più dolce che ci sia. E spesso è l’inizio di una lunga serata fatta di brindisi, risate e connessioni.


La bellezza dei gesti coreani non sta solo nella loro varietà, ma nella naturalezza con cui vengono usati. Non servono corsi né spiegazioni lunghe: basta osservare, lasciarsi andare e accogliere un modo diverso di comunicare.

Perché, alla fine, anche se non parli coreano, il linguaggio del corpo può essere il tuo primo passo per entrare in sintonia con un popolo che sa usare le mani per dire tutto ciò che le parole non sanno dire.

 Fonte: https://ling-app.com/ko/korean-hand-gestures/

Conoscere (davvero) una ragazza coreana – Pensieri sparsi sull’amore, la cultura e i pregiudizi

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Ti è mai capitato di fantasticare su una storia d’amore dall’altra parte del mondo? Di perderti tra le scene dolci e drammatiche dei K-drama chiedendoti se tutto quell’affetto esagerato, quei messaggi ogni tre minuti e quelle dichiarazioni sotto la pioggia abbiano qualcosa a che fare con la realtà?

Be’, se ti sei posto almeno una volta questa domanda, probabilmente hai anche pensato: “Com’è davvero uscire con una ragazza coreana?”

La risposta, come ogni cosa che riguarda le persone, è: dipende. Ma forse è proprio da qui che dovremmo partire.

Oltre gli stereotipi: chi sono davvero le ragazze coreane?

Spesso, quando si parla di ragazze coreane, la conversazione prende una piega molto superficiale: bellezza eterea, pelle perfetta, voce dolce, stile impeccabile. Tutte cose che, seppure in parte vere, rischiano di ridurre una persona a un’immagine da copertina. La verità è che la bellezza di una ragazza coreana – come quella di chiunque – va ben oltre l’aspetto fisico. È nel modo in cui ti guarda quando parli seriamente, in quel misto di dolcezza e determinazione, nella curiosità con cui affronta il mondo e nella capacità di stupirti quando meno te lo aspetti.

Sono donne che crescono in una società ancora molto legata alla famiglia, all’educazione e al rispetto delle regole, ma allo stesso tempo aperta all’innovazione, ai cambiamenti, alla cultura globale. Molte parlano inglese, viaggiano, leggono libri internazionali e sognano in grande. Eppure, in amore, cercano cose semplici: sincerità, rispetto, condivisione.

“Mi piaci, ma... rispondimi ai messaggi!”

Una delle prime cose che scoprirai, se ti innamori di una ragazza coreana, è che la comunicazione conta. E tanto. Scrivere messaggi ogni giorno non è solo un vezzo romantico, è un modo per dire: “Ci sono, ti penso, sei importante.” Se visualizzi senza rispondere per ore, se sparisci per giorni senza spiegazioni… preparati a essere frainteso. Non perché siano appiccicose o insicure, ma perché la presenza, anche digitale, è una forma d’affetto concreta.

Pazienza, empatia e rispetto: la vera chiave

C’è un’idea molto diffusa: quella che le ragazze coreane siano “difficili da conquistare”. In parte è vero, ma solo perché non si accontentano facilmente. Vogliono accanto qualcuno che sappia ascoltare, che sappia ridere, che non si spaventi davanti alle loro ambizioni. Non cercano un principe azzurro, ma un complice. Uno che sia pronto a costruire qualcosa, non a giocare.

E quando si fidano… si aprono. Con delicatezza, a volte con esitazione, ma sempre con sincerità. Hanno imparato che nella vita non basta essere forti: serve anche qualcuno che sappia prenderti per mano senza tirarti da nessuna parte. Qualcuno che stia, semplicemente.

Cucinano, sognano, discutono (e vincono le discussioni)

C’è anche un altro lato affascinante da conoscere. La ragazza coreana media è un mix meraviglioso tra tradizione e modernità. Magari ama cucinare per chi ama, ma nel frattempo sta seguendo un master internazionale. È ordinata, ma non maniacale. Sa essere accogliente e spietatamente logica. Ha un sorriso tenero, ma ti smonta in tre secondi se provi a farle credere qualcosa di falso.

E no, non tutte vogliono sposarsi a venticinque anni e avere figli entro i trenta. Molte vogliono farlo solo quando si sentiranno davvero pronte. E se ti scelgono per quel viaggio, puoi star certo che lo faranno con il cuore.

Cosa cercano? Niente di impossibile. Ma tutto autentico.

Sì, amano gli uomini pazienti, quelli che non alzano la voce, che si siedono a parlare anche quando vorrebbero fuggire. Amano quelli che sanno dire: “Hai ragione”, anche quando fa male. E no, non devi essere ricco, famoso o muscoloso. Basta che tu sia una persona vera.

Ti sorprenderanno. Ti insegneranno a dire grazie con più intenzione, a fare piccoli regali senza motivo, a ricordarti il giorno del tuo anniversario prima ancora che arrivi. Ma si aspettano lo stesso in cambio. Non per pretesa, ma perché amare, per loro, è partecipare.

Cosa non fare (mai)

Non ignorarle. Non vantarti di ciò che possiedi. Non ridere delle loro tradizioni o del loro modo di vedere la vita. E soprattutto, non fare finta di essere interessato se non lo sei davvero. Non è solo questione di educazione. È rispetto. È onestà. È maturità emotiva.

E se ci si incontra online?

Le app esistono, certo. Ma per passare dallo schermo alla realtà serve molto di più di qualche emoji e due frasi carine. Serve tempo. Serve voglia di imparare l’uno dall’altro. Serve anche, spesso, imparare un po’ di coreano, non tanto per parlare perfettamente, ma per dimostrare che ci tieni davvero.

Perché alla fine, le cose che contano non si misurano in “match”, ma in intenzioni.

Fonte: https://ling-app.com/ko/dating-a-korean-girl/

Hangul, il cuore scritto della Corea: viaggio nella nascita di una lingua che ha salvato un popolo

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Ci sono storie che non si imparano solo con la mente, ma che si sentono scorrere dentro come un’eco antica. Storie che non parlano solo di parole, ma di identità, di popoli che lottano per esistere e di re che scelgono la compassione anziché il potere. Hangul è una di quelle storie.

Forse non tutti sanno che tra le lingue dell’Estremo Oriente, il coreano è considerato tra le più semplici da imparare. Bastano pochi giorni per padroneggiare le lettere dell’alfabeto chiamato Hangul. Ma questa apparente semplicità è frutto di un dono. Un dono lasciato in eredità da un re che ha fatto della cultura la sua missione: Sejong il Grande.

Alle origini: quando la lingua non era del popolo

Per capire la nascita di Hangul, dobbiamo tornare indietro nel tempo, nella Corea della dinastia Joseon. In quei secoli lontani, la lingua coreana esisteva, certo, ma non aveva un volto scritto che le appartenesse davvero. Si utilizzavano gli Hanja (한자), caratteri cinesi importati dalla letteratura e dalla religione buddista. Erano complicati, elitari, adatti solo a chi aveva ricevuto un’istruzione formale — cioè ai nobili, ai funzionari, agli studiosi.

Il popolo invece? Escluso. Analfabeta. Invisibile. Il dolore più grande non era solo l’ignoranza, ma il fatto che la loro voce, le loro emozioni, la loro cultura... restassero intrappolate nella sola oralità. Non c’era uno strumento con cui esprimersi, raccontarsi, esistere. E in fondo, quando non puoi scrivere ciò che sei, rischi di non esserlo davvero.

Fu per questo che nacquero sistemi ibridi come l’Idu, che cercavano di adattare i caratteri cinesi alla grammatica coreana. Ma erano solo soluzioni temporanee. Serviva un cambiamento radicale. Serviva un re che ascoltasse.

Un re con il cuore del popolo: Sejong il Grande

Se oggi in Corea esiste una lingua che unisce, che educa, che emoziona... è grazie a lui. Sejong il Grande, quarto re della dinastia Joseon, nacque nel 1397 e salì al trono giovanissimo, a soli 21 anni. Ma non fu solo un sovrano, fu un visionario. Fondò il Jiphyeonjeon (la Sala dei Saggi), radunando i più brillanti studiosi del regno con un sogno: rendere la conoscenza accessibile a tutti.

La sua filosofia si ispirava al Neo-Confucianesimo: un pensiero che metteva al centro la giustizia, l’educazione e il rispetto tra sovrano e suddito. Ma Sejong non si fermò alla teoria. Voleva agire. Voleva spezzare quella barriera che impediva al suo popolo di leggere, scrivere, sognare.

Fu così che nel 1443 ordinò la creazione di un sistema di scrittura del tutto nuovo. E forse, come sostengono alcune cronache, lo inventò lui stesso. Tre anni dopo, nel 1446, venne pubblicato l’Hunminjeongeum, ovvero "i suoni corretti per istruire il popolo". Era nato Hangul, l’alfabeto coreano.

“Un uomo intelligente può impararlo prima di pranzo. Uno stupido, in dieci giorni.” — Re Sejong

Hangul era rivoluzionario. Non solo per la sua semplicità, ma per il suo significato simbolico. Era la prima scrittura pensata per il popolo, e non per il potere. Con Hangul, anche i contadini, le donne, i bambini potevano finalmente imparare a leggere e scrivere. Potevano scrivere poesie, lettere, cartelli, storie.

Hangul diede al popolo una voce scritta, e con essa un’identità. Era la nascita di un nuovo nazionalismo, non basato sull’esclusione ma sulla condivisione di un linguaggio comune.

Ma il potere teme la semplicità

Come spesso accade nella storia, ciò che avvicina le persone fa paura a chi comanda. I nobili, i letterati, gli yangban, videro Hangul come una minaccia. Per loro, l’unica scrittura degna era quella cinese. Hangul era considerato rozzo, volgare, “di seconda classe”. Ma soprattutto, pericolosamente accessibile.

E così, nel 1504, Hangul fu messo al bando. La sua colpa? Aver dato al popolo la possibilità di pensare, di scrivere, di esprimere dissenso. Ma le idee non si possono bandire per sempre.

Hangul resiste, e torna a farsi sentire

Nei secoli successivi, Hangul continuò a vivere nell’ombra. I racconti popolari, le canzoni, i romanzi — tutto ciò che parlava direttamente al cuore della gente — continuava a usare Hangul. E proprio grazie a questa letteratura “pop”, l’alfabeto resistette alle censure e alle repressioni.

Alla fine dell’Ottocento, in piena crisi tra analfabetismo, corruzione e pressioni occidentali, Re Gojong capì che Hangul poteva essere la chiave per ricostruire il paese. Nel 1894, con la Riforma Gabo, lo rese lingua ufficiale per i documenti governativi. L’anno dopo si iniziò a insegnarlo nelle scuole. Era solo l’inizio della rinascita.

La prova più dura: l’occupazione giapponese

Nel 1910, il Giappone annesse la Corea e cercò in ogni modo di cancellarne la cultura. Venne imposta la lingua giapponese, Hangul fu proibito, le scuole coreane chiuse. Ma ancora una volta, il popolo resistette.

Gruppi come la Korean Language Society combatterono per preservare l’alfabeto, codificandone regole e ortografia nel 1912 e nel 1930. E quando, nel 1938, il Giappone proibì definitivamente l’uso del coreano, Hangul divenne simbolo di ribellione silenziosa.

La liberazione e il nuovo inizio

Nel 1946, dopo la caduta dell’impero giapponese, Hangul fu finalmente riconosciuto come alfabeto ufficiale della Corea. Anche se il paese fu diviso, sia il Nord che il Sud lo scelsero come fondamento della loro identità.

Il Nord lo purificò eliminando ogni traccia di Hanja. Il Sud mantenne un equilibrio, ma Hangul divenne comunque il cuore pulsante della comunicazione, dell’arte, della cultura.

Dal 2012, il 9 ottobre in Corea del Sud è tornato a essere festa nazionale: l’Hangul Day. È il giorno in cui si celebra non solo un alfabeto, ma la libertà di essere se stessi.

Ma cos’è, davvero, Hangul?

La parola 한글 si compone di:

  • 한 (han): può indicare la Corea o il popolo coreano

  • 글 (geul): scrittura, parola scritta

Originariamente chiamato Hunminjeongeum, fu solo nel 1912 che il linguista Ju Si-gyeong coniò il termine “Hangul”. L’alfabeto oggi è composto da 24 lettere base (14 consonanti e 10 vocali), con altre combinazioni che portano il totale a 40 suoni possibili.

A differenza dei sistemi logografici come il cinese, Hangul è alfabetico e fonetico. Ogni parola è un insieme di suoni scritti in blocchi sillabici. Un sistema elegante, razionale, quasi musicale.

Hangul oggi: identità, musica, tecnologia

Oggi, grazie a Hangul, la Corea ha uno dei più alti tassi di alfabetizzazione al mondo. Ma non è solo questo. Hangul ha reso possibile la rinascita culturale e tecnologica della Corea del Sud, che in pochi decenni è passata da paese povero a potenza globale nel K-pop, nei drama, nella tecnologia.

Hangul è diventato un simbolo di orgoglio nazionale, una melodia che canta l’identità di un popolo.

Come disse Noah Webster:

“Una lingua nazionale è un vincolo di unione nazionale.”

Hangul non è solo un alfabeto. È resistenza. È amore. È casa.

Quando impari a scrivere in Hangul, non stai solo decifrando lettere. Stai toccando con mano una storia fatta di lacrime e trionfi, di umiliazioni e rinascite. Stai ascoltando la voce di un popolo che, anche nei momenti più bui, non ha mai smesso di credere nel potere della parola.

E questa, forse, è la lezione più bella che Hangul può insegnarci:
che la cultura può essere salvata con l’inchiostro, e che ogni persona, se messa nelle condizioni giuste, può imparare a dire “io esisto” — nero su bianco.

Fonte: https://ling-app.com/ko/history-of-hangul/

6 luglio 2025

I giochi dell’infanzia coreana: un ponte tra tradizione, ricordi e Squid Game

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Ho scritto questo articolo ispirandomi al recentissimo post sul blog che parlava dei giochi di Squid Game, dalla prima alla seconda stagione. Leggendolo, mi sono ricordata di quanto quel drama non fosse solo una critica sociale travestita da thriller, ma anche un sorprendente viaggio attraverso l’infanzia coreana. Perché dietro la tensione e il sangue, c’erano i giochi. E quei giochi, così semplici ma profondamente simbolici, raccontano molto più della cultura coreana di quanto sembri.

Così oggi voglio portarvi con me in questo viaggio tra i giochi tradizionali dell’infanzia coreana, quelli che magari sono sfuggiti ai più tra le scene di Squid Game, o che semplicemente vivono fuori dallo schermo, tramandati nei cortili, nei festival e nei ricordi di famiglia.

Jegichagi (제기차기) – Il volo leggero di un sogno

Immaginate un sacchetto leggero che fluttua nell’aria, e un piede che cerca di tenerlo su, con equilibrio e grazia. Jegichagi è un po’ come il nostro calcio al volano, ma ha una lunga storia che risale addirittura alla dinastia Goryeo (918–1392). Si gioca con un piccolo oggetto – a volte una moneta, a volte un sacchetto di carta – da colpire solo con il piede, mantenendolo sospeso il più possibile. Non c’è bisogno di tecnologia o campi da gioco, solo spazio per saltare su una gamba e la voglia di divertirsi.

Yutnori (윷놀이) – L’arte dell’astuzia nel Capodanno coreano

Tra i giochi più amati durante il Seollal (Capodanno lunare) e il Chuseok, le due feste più importanti in Corea, c’è Yutnori, un gioco da tavolo antichissimo. Si tirano quattro bastoncini di legno e si muovono le pedine secondo il risultato, cercando di battere l’avversario con strategia. È un gioco di famiglia, di risate attorno al tavolo, di genitori che spiegano ai figli le regole tramandate da secoli.

Mugunghwa kkoch-i pieotseumnida (무궁화 꽃이 피었습니다) – Il gioco della camelia, senza armi

Chi ha visto Squid Game lo conosce come Red Light, Green Light, con la gigantesca bambola robot e l’atmosfera da brividi. Ma nella realtà, questo gioco è molto più pacifico e poetico. I bambini si siedono in cerchio e recitano “Il fiore dell’ibisco è sbocciato”, celebrando così il fiore nazionale coreano. Nessuno viene eliminato, al massimo si ricomincia a ridere.

Ddakjichigi (딱지치기) – Il primo colpo che decide tutto

È con questo gioco che Squid Game inizia davvero. Un semplice pezzo di carta piegata diventa arma e scudo. Lo scopo? Far capovolgere quello dell’avversario con un colpo secco. Sembra banale, ma richiede precisione, tecnica e tanta, tanta pratica. Nelle scuole coreane è una vera e propria sfida d’onore.

Ojingeo Geim (오징어게임) – Il vero “Squid Game”

Sì, esiste davvero. Si gioca disegnando un’enorme figura di calamaro a terra (composta da cerchio, quadrato e triangolo), e i partecipanti devono attaccare o difendere. È un gioco di lotta e strategia, un mix tra scacchi e corsa, che ha dato il nome e l’ispirazione alla serie Netflix che ha conquistato il mondo.

Paengi (팽이) – La danza delle trottole

Chi non ha mai fatto girare una trottola da bambino? In Corea, Paengi è molto più di un semplice passatempo: alcune trottole sono vere e proprie opere d’arte, dipinte a mano e conservate come cimeli. Durante le festività, le gare tra paengi diventano momenti di festa e competizione gioiosa.

Biseokchigi (비석치기) – Colpire il passato

Giocato spesso durante le visite alle tombe degli antenati, Biseokchigi è un gioco in cui si tirano bastoncini verso un bersaglio che rappresenta simbolicamente una lapide. Un modo per onorare il passato con rispetto ma anche con leggerezza, fondendo gioco e memoria.

Tuho (투호) – Mira, concentrazione, precisione

Molto diffuso durante i festival, Tuho è un gioco semplice ma elegantissimo: si devono lanciare bastoncini in un contenitore stretto e lungo. È una prova di precisione, ma anche di calma. C’è qualcosa di quasi meditativo in quei gesti ripetuti e silenziosi.

Gomujul Nori (고무줄놀이) – Geometrie di gomma

Con un lungo elastico, spesso annodato tra due sedie o tenuto da due bambini, si possono creare infinite figure e coreografie. Si salta, si incrocia, si disegna nell’aria. È un gioco tanto fisico quanto creativo, dove l’estetica delle forme è importante quasi quanto la vittoria.

Gonggi (공기) – Il ritmo dei sassi

Cinque sassolini colorati, una mano, e il ritmo giusto. Si lancia un sassolino in aria e, nel frattempo, si raccolgono gli altri da terra prima che ricada. Richiede concentrazione e destrezza, ma dà grande soddisfazione. È un gioco di precisione, da fare ovunque, persino sul banco di scuola.

Juldarigi (줄다리기) – La forza della squadra

È la classica “tiro alla fune”, ma con una lunga storia anche in Corea. Due squadre si sfidano tirando una corda spessa: vince chi riesce a trascinare l’altra oltre una linea. È un gioco che si basa sulla forza, sì, ma anche sulla coordinazione, sulla fiducia reciproca e sulla voglia di vincere insieme.


Giochi semplici, ma mai banali

In coreano, “giochi dell’infanzia” si dice 어린 시절 게임 (eorin sijeol geim), ma queste parole racchiudono molto di più di semplici passatempi. Racchiudono tradizione, comunità, famiglia. Racchiudono pomeriggi assolati e risate tra amici, gesti ripetuti da secoli, modi diversi di imparare a stare insieme.

Molti di questi giochi sembrano semplici, eppure sono carichi di significato. Non sono solo per bambini: anche da adulti, ci si può perdere nella bellezza di una trottola che gira, nel suono di un ddakji che batte sul pavimento, o nel sorriso di chi riesce a centrare il tuho al primo colpo.

Se volete davvero entrare in contatto con la cultura coreana, provate a giocare. Magari con Gonggi, o con un semplice “fiore dell’ibisco è sbocciato”. Perché, in fondo, dentro ogni gioco, si nasconde un pezzetto di cuore. E quel cuore, in Corea, batte da secoli.

Fonte: https://ling-app.com/ko/korean-childhood-games/

Squid Game – Tutti i giochi della prima e della seconda stagione spiegati (e vissuti)

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Chi ha guardato Squid Game almeno una volta sa bene che non si tratta solo di un drama. È una metafora tagliente del mondo in cui viviamo, un grido disperato travestito da spettacolo. È un gioco dove si ride con i ricordi dell’infanzia… e si piange per la crudeltà degli adulti. È nostalgia e condanna sociale. E tutto ruota attorno a una cosa sola: i giochi.

In questo articolo ho voluto raccogliere e raccontare tutti i giochi delle due stagioni di Squid Game, spiegandoli con attenzione, ma anche rivivendoli per ciò che rappresentano davvero: un modo per parlare di noi, delle nostre scelte, delle nostre paure e speranze. Dai più innocenti giochi da cortile coreani, fino alla disumanità silenziosa che si cela nei meccanismi del potere.


🟥 PRIMA STAGIONE – La crudeltà nascosta nei giochi dell’infanzia

1. Ddakji – Il gioco del reclutamento

Un semplice gioco con due tessere di carta origami, da lanciare con forza per ribaltare quella dell’avversario. Chi perde, viene preso a schiaffi. È così che inizia tutto. È così che viene “addestrata” l’umiliazione. Perché Squid Game non ti porta solo a perdere la dignità, ti fa abituare a perderla con un sorriso. È il primo passo per capire chi è disposto a soffrire pur di vincere.

2. Uno, due, tre… stella!

O, meglio, “Mugunghwa kkotchi pieosseumnida” – “il fiore d’ibisco è sbocciato”. Un gioco da bambini che diventa una trappola mortale. Una bambola gigante, occhi con sensori di movimento, e una sola regola: se ti muovi, muori. Qui impariamo che la fiducia può costarti la vita. E che a volte è proprio mentre giochi che il mondo ti tradisce.

3. Dalgona (Caramel)

Una sfida apparentemente innocua: intagliare una figura perfetta da un disco di zucchero caramellato senza romperlo. Ma cosa succede quando la pazienza è l’unica arma che ti salva la vita? Succede che anche il dolce diventa amaro. Il protagonista, Gi-hun, ci insegna che l’ingegno – persino una lingua umida – può essere più potente della forza.

4. Tiro alla fune (Tug of War)

Una battaglia di squadra, ma su un ponte sospeso nel vuoto. Si vince tirando, ma si sopravvive solo se si ha strategia. Una vecchia volpe come Il-nam ci ricorda che la forza bruta non serve a nulla se non sai quando resistere e quando cedere. È una danza tra collaborazione e sopravvivenza. Un insegnamento sulla fiducia e sull’equilibrio.

5. Le biglie (Marbles)

Qui si spezza davvero qualcosa: il cuore. Non conta il gioco – che sia pari o dispari, colpire un buco, o indovinare. Conta chi hai davanti: il tuo amico, il tuo alleato, il tuo “gganbu”. Ed è proprio per questo che è uno degli episodi più dolorosi. È il momento in cui i legami diventano condanne e le promesse si infrangono in una manciata di biglie.

6. Il ponte di vetro

Un’illusione di scelta. Due pannelli di vetro davanti a te, uno regge il peso, l’altro no. Sedici passi verso la morte, in equilibrio tra intuizione e disperazione. È il gioco che grida più forte l’ingiustizia del sistema: chi parte per primo, muore quasi sempre. Chi arriva alla fine, lo deve alle cadute degli altri.

7. Il Gioco del Calamaro (Squid Game)

L’ultima sfida. Il più simbolico. Un gioco per bambini che si trasforma in lotta all’ultimo sangue. Si corre, si salta su una figura disegnata a terra, si prova a entrare nella “testa del calamaro”. Ma non è solo un gioco: è uno specchio. Un campo da guerra disegnato con il gesso, dove il finale non è mai davvero una vittoria.


🟥 SECONDA STAGIONE – Nuove regole, vecchie ferite

Dopo tre anni, la seconda stagione ci riporta in gioco. Ma Gi-hun ora ha una missione: sabotare il sistema da dentro. I giochi tornano, alcuni uguali, altri nuovi, ancora più contorti.

1. Bread and Lottery

Un nuovo modo di reclutare. Due scelte: un pezzo di pane o un gratta e vinci. Quasi tutti scelgono la speranza. Nessuno sceglie la certezza. E perdono. È il modo perfetto per mostrarci quanto siamo disposti a rischiare, anche quando non possiamo permettercelo.

2. Jokenpô Minus One

Una versione malata di “Carta, forbice, sasso”. Due mani in gioco, una da scartare. La tensione sta nella sottrazione. Un gioco di scelta e sacrificio. E proprio in nome dell’amicizia, uno dei due si lascia battere volontariamente. Per amore. Per lealtà. Per perdere, ma salvare l’altro.

3. Russian Roulette

Non è più un gioco da bambini. Ma nel mondo di Squid Game, anche la morte diventa parte del divertimento. Una pistola, un colpo, sei camere. Gi-hun affronta il Reclutatore. Ed è il caso – o il destino – a decidere chi vivrà. E chi morirà. Un finale silenzioso, brutale, definitivo.


🟥 Il Pentathlon a Sei Gambe – Cinque mini-giochi, uniti dalla sopravvivenza

I partecipanti, legati insieme, devono affrontare cinque giochi uno dopo l’altro. Un esercizio di squadra, coordinazione e fiducia.

  • 1. Ddakji (sì, di nuovo – questa volta come sfida vera)

  • 2. Flying Stone – Devi colpire una pietra verticale con un’altra da 3 metri di distanza. Semplice? Forse. Ma è la pressione a distruggerti.

  • 3. Gong-gi – L’equivalente coreano della nostra “campana” con i sassolini. Richiede memoria muscolare, concentrazione, sangue freddo.

  • 4. Spinning Top – La trottola deve girare. Tutto qui. Ma devi saperla lanciare. Devi crederci. Devi farla girare come se fosse la tua vita. Perché lo è.

  • 5. Jegi – Come il “hacky sack”, va calciato cinque volte senza farlo cadere. È l’illusione della semplicità che ti inganna.


🟥 Mingle – Il girotondo della solitudine

Sembra un gioco di gruppo, ma in realtà è il più solitario. Un’enorme giostra, musica, numeri da rispettare, stanze da raggiungere. Chi resta fuori muore. Chi sbaglia numero, pure. È un esercizio di fredda aritmetica travestito da dinamica sociale. E mostra come, nei momenti decisivi, molti sono disposti a vendere chiunque pur di entrare in una stanza.


🟥 Lights Out – Il round non regolamentato

Forse il più crudele. Perché non è un gioco. È il caos. I giocatori ricevono forchette e libertà. Nessuna regola, nessun controllo. Solo la notte e il terrore. Dormi… e potresti non svegliarti mai. È qui che Squid Game ci dice chiaramente: la vera violenza non ha bisogno di regole. Ha solo bisogno di paura.


✴️ Oltre il gioco

Ogni gioco di Squid Game è un’allegoria. Una lente d’ingrandimento sul nostro mondo. Ci mostrano che la società non sempre premia chi è più bravo o più giusto, ma chi riesce a restare in piedi quando tutto crolla. Che a volte si muore per una scelta sbagliata, ma più spesso si muore per colpa di un sistema che non ti ha mai dato davvero alternative.

Squid Game fa male perché è reale. Non nei colori, nei costumi o nelle bambole giganti. Ma nei volti, nei silenzi, nelle rinunce. E in quei giochi che ci costringono a chiederci:

“Io, al loro posto, cosa avrei fatto?”

Fonte: 

  1. https://gogohanguk.com/en/blog/the-korean-games-you-saw-in-squid-game/
  2. https://collider.com/squid-game-games-in-order-explained
  3. https://gamerant.com/squid-game-season-2-new-games-explained/
  4. https://screenrant.com/squid-game-season-2-all-games-explained/

Quel giorno in cui diventi grande (per davvero): il Coming of Age Day in Corea

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Hai mai pensato a cosa significhi davvero diventare adulti?

In Corea del Sud non si tratta solo di un numero scritto sulla carta d’identità, di una torta con le candeline o di una cena con gli amici. No, lì il passaggio all’età adulta ha un nome, una data e una tradizione tutta sua: si chiama Coming of Age Day (성년의 날, Seongnyeon-ui Nal) e si festeggia ogni terzo lunedì di maggio.

Ed è molto, molto più di una semplice festa di compleanno.

Un passaggio, un simbolo, una promessa

Diventare adulti, per davvero, in Corea significa essere riconosciuti dalla società. Non è solo una sensazione personale, è una dichiarazione pubblica. Un ragazzo, una ragazza, che fino al giorno prima erano considerati adolescenti, ora si trovano improvvisamente di fronte a un mondo che li vede con occhi diversi.

Non si tratta solo di aprire una nuova porta. Si tratta di attraversare una soglia, lasciandosi alle spalle qualcosa che non tornerà. L’infanzia. La spensieratezza. Quella zona franca in cui gli errori erano concessi, e le responsabilità erano quasi sempre di qualcun altro.

Un rituale antico come il tempo

La prima volta che la Corea celebrò ufficialmente il passaggio all’età adulta risale al lontano 965, durante la dinastia Goryeo. Il re Gwangjong regalò al principe ereditario un abito da adulto, in linea con una tradizione cinese. Quel gesto simbolico sancì l’ingresso del giovane nella vita adulta e gettò le basi per ciò che oggi è diventato un appuntamento nazionale.

Oggi, ovviamente, i tempi sono cambiati, ma non la forza del messaggio.

Ma cosa significa, concretamente, diventare adulti in Corea?

Tante cose. Alcune potresti immaginarle, altre forse ti sorprenderanno.

Quando compi 19 anni in Corea, ottieni:

  • Il diritto di voto (투표권 – Tupyo-gwon): puoi finalmente scegliere chi guiderà il tuo Paese.

  • La possibilità di guidare (운전 권리 – Unjeon gwonli): la strada diventa tua.

  • Il permesso di bere alcolici e fumare (음주 및 흡연 권리 – Eumju mit heubyeon gwonli): una libertà che segna un punto di svolta.

  • Il diritto di sposarti senza consenso dei genitori (결혼 권리 – Gyeolhon gwonli): perché adesso puoi scegliere anche il tuo futuro familiare.

  • La piena responsabilità legale (법적 책임 – Beopjeok chaegim): ogni tua azione ha conseguenze. Non sei più “troppo giovane”.

  • Per i ragazzi, l’obbligo del servizio militare (남성의 의무적 군복무 – Namseong-ui uimujeok gunbokmu): un passaggio che non si può evitare.

Non sono solo leggi. Sono simboli. Passaggi concreti che cambiano il modo in cui il mondo ti vede, ma anche — e soprattutto — il modo in cui tu inizi a vedere te stesso.

Le cerimonie tradizionali: dove il corpo racconta il cambiamento

Tra le immagini più intense del Coming of Age Day ci sono le antiche cerimonie: il Gwallye per i ragazzi e il Gyerye per le ragazze.

Nel Gwallye, i giovani uomini si legano i capelli in uno chignon chiamato sangtu e indossano abiti tradizionali da adulto. È un gesto potente: non sei più un ragazzino, ma un uomo.

Nel Gyerye, le giovani donne sistemano i capelli in un’elegante acconciatura chiamata jangmeori, fermata con un fermaglio speciale, il binyeo. Basta un gesto, uno sguardo allo specchio, per rendersi conto che qualcosa è cambiato per sempre.

E oggi? Un mix di passato e presente, tra profumo e petali di rosa

Oggi il Coming of Age Day è un ponte tra tradizione e modernità. Le cerimonie antiche continuano a vivere nei villaggi tradizionali come il Namsangol Hanok Village a Seoul, dove giovani coreani (e anche molti stranieri!) indossano l’hanbok, apprendono i riti di passaggio e si ritrovano, per un giorno, immersi in una storia che li precede.

Nel contesto più moderno, invece, ci si scambiano tre doni simbolici:

  • Una rosa: per rappresentare la bellezza e la passione della giovinezza.

  • Un profumo: che evoca il cambiamento, la scoperta della propria identità, e il desiderio di lasciare un segno.

  • Un bacio: perché diventare adulti significa anche aprire il cuore.

E alla fine della giornata, durante il rituale chiamato suhunrye, i giovani fanno una promessa solenne: quella di essere adulti responsabili. Non solo per legge, ma per scelta.

Parole da imparare, emozioni da vivere

Chi studia la lingua coreana lo sa bene: dietro ogni parola si nasconde un universo culturale. E allora ecco alcune espressioni chiave legate al Coming of Age Day:

ItalianoCoreanoPronuncia
Adulto성인Seong-in
Cerimonia행사Haengsa
Congratulazioni축하합니다Chukhahamnida
Esperienza경험Gyeongheom
Dono선물Seonmul
Maturità성숙Seongsuk
Profumo향수Hyangsu
Responsabilità책임Chaeg-im
Anello반지Banji
Rose장미Jangmi
Tradizione전통Jeontong
Gioventù청년Cheongnyeon

Ma la verità è che nessuna traduzione potrà mai spiegare fino in fondo cosa si prova in quel momento. Perché il Coming of Age Day non è solo una celebrazione. È un salto. Un’esplosione di emozioni. È la prima volta in cui ti rendi conto che non c’è più nessuno davanti a te a tracciare la strada.

Ora tocca a te.

Fonte: https://ling-app.com/ko/coming-of-age-day/

5 luglio 2025

Leggere per sentire, leggere per capire: un viaggio tra le scrittrici coreane che lasciano il segno

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Ci sono momenti in cui un libro non è solo un libro. È una finestra aperta su un mondo che non conosci, su un cuore che non è il tuo, ma che improvvisamente inizia a batterti dentro. Se anche tu, come me, ami leggere per respirare emozioni, per ascoltare vite che non hai vissuto, e magari nel frattempo vuoi anche imparare un po’ di coreano… allora sei nel posto giusto.

In Corea del Sud, leggere non è semplicemente un hobby. È un vero e proprio stile di vita. Non è raro vedere qualcuno immerso in un romanzo in una caffetteria silenziosa, su una panchina di un parco, o addirittura durante il tragitto in metropolitana. Non serve neanche un segnalibro: le pagine si memorizzano col cuore.

E sai qual è la cosa più bella? Che leggere in lingua originale – anche se magari all'inizio ti sembra una salita ripida – ti espone alla musicalità vera delle parole, al modo in cui la grammatica si piega alle emozioni, ai modi di dire che non trovi nei libri di testo. Una frase può insegnarti più di dieci lezioni teoriche, se ti tocca nel punto giusto.

Ma oggi voglio raccontarti qualcosa di ancora più speciale: voglio parlarti delle donne che, con le loro parole, hanno modellato la letteratura coreana. Alcune hanno scosso intere generazioni. Altre ti entreranno dentro senza fare rumore, ma ci resteranno a lungo.

✨ Le voci femminili della letteratura coreana

Hai mai pensato a quanto sia potente la scrittura di una donna che ha trovato la sua voce, anche in una società dove non è sempre stato facile farla sentire?

Ecco alcune delle scrittrici coreane che secondo me dovresti conoscere. Non solo perché sono famose, ma perché ognuna di loro ha scritto qualcosa che potrebbe cambiarti. Anche solo un po’.


🕊️ Oh Jung-Hee
La sua scrittura è una carezza che sa diventare lama. In The Bird, esplora il dolore umano con una delicatezza quasi sacra. Le sue parole sembrano leggere, ma ti restano dentro come promemoria silenziosi.

🌪️ Park Wan-suh
La sua penna ha raccontato la Corea del dopoguerra con una sincerità disarmante. Who Ate Up All the Shinga? è un viaggio nella memoria, nel trauma e nell’identità, filtrato dallo sguardo di una bambina che diventa donna mentre il Paese cambia troppo in fretta.

🔥 Cho Nam-Joo
Kim Jiyoung, nata nel 1982 è più di un romanzo: è una presa di coscienza collettiva. Ha aperto dibattiti, acceso discussioni e, soprattutto, ha dato voce a tutte quelle donne che si sono sentite invisibili.

🌿 Han Kang
Con The Vegetarian, Han Kang ti porta dentro una metamorfosi silenziosa ma devastante. Parla di carne, di rifiuto, di desiderio, ma soprattutto di silenzi. I silenzi che urlano, che spezzano i legami familiari, che diventano grida nella testa.

🧠 Sohn Won-Pyung
Con Almond ci regala la prospettiva di Yunjae, un ragazzo che non riesce a riconoscere le emozioni. Ma forse, proprio per questo, riesce a insegnarci qualcosa di più profondo sull’empatia e su ciò che significa essere umani.

🌊 Min Jin Lee
Anche se vive negli Stati Uniti, le sue radici coreane pulsano forti in Pachinko, una saga familiare che attraversa decenni e continenti. Parla di emigrazione, identità, lotta. E lo fa con una scrittura che sembra un ricamo.

📚 Sora Kim-Russell
Non è una scrittrice, ma una traduttrice. Ma senza di lei, tante di queste voci non sarebbero arrivate fino a noi. È l’anello invisibile tra due mondi, e le dobbiamo moltissimo.

💄 Frances Cha
If I Had Your Face è un ritratto crudo e sincero della Corea contemporanea, attraverso gli occhi di quattro giovani donne. Bellezza, aspettative, rabbia e sogni si intrecciano in un romanzo che ha il ritmo della realtà.

🎭 Yoon Choi
Le sue storie sono piccoli specchi che riflettono le contraddizioni del vivere tra due culture. The Guest parla di identità, sradicamento, e dell’eterna ricerca di un posto da chiamare “casa”.

🌫️ Krys Lee
Con Drifting House, ci trascina nei margini. Le sue storie raccontano l’immigrazione, la povertà, la lotta quotidiana per non perdersi del tutto. Una lettura che fa male, ma che illumina.

👩‍👧 Shin Kyung-Sook
In Please Look After Mom, una madre scompare e la famiglia la cerca. Ma nel farlo, ognuno scopre anche qualcosa di sé. È una lettera d’amore alle donne invisibili, a quelle che danno tutto senza chiedere nulla.

🌪 Yun Ko Eun
Con The Disaster Tourist, ci trasporta in un viaggio straniante e disturbante nel mondo del turismo catastrofico. I suoi romanzi sono oscuri, psicologici, eppure magnetici. Da leggere se ti piace perderti nei pensieri.


📖 Imparare coreano leggendo: parole da portare con te

Se ti stai avvicinando alla lingua coreana, leggere può essere un modo bellissimo per abituarti ai suoni, ai ritmi, e persino ai sentimenti delle parole. Ecco qualche parola legata al mondo della lettura e della scrittura:

ItalianoCoreanoPronuncia
Libro“ch-ehk”
Romanzo소설“so-suhl”
Autore작가“jahk-gah”
Capitolo“jahng”
Poesia“sh-ee”
Titolo제목“jah-mohk”
Biblioteca도서관“doh-suh-gwahn”
Lettura독서“dohk-suh”
Pagina페이지“peh-ee-jee”
Personaggio등장인물“duhng-jahng-ee-mool”
Trama줄거리“jool-guh-ree”
Genere letterario장르“jahng-nyuh”
Critica letteraria문학 비평“moon-hahk bee-pyuhng”
Manoscritto원고“won-goh”
Simbolismo상징주의“sahng-jwee-joo-ee”

Ogni scrittrice di cui ti ho parlato ha un mondo dentro. Non leggerai solo storie: leggerai vite, lotte, paure e speranze. E magari, mentre leggi, scoprirai qualcosa di nuovo anche su di te. Perché a volte, per imparare una lingua o capire una cultura, basta aprire un libro. Ma per capire il cuore di un popolo, serve aprirlo davvero.

E le donne della letteratura coreana… quel cuore, lo raccontano benissimo.

Fonte: https://ling-app.com/ko/popular-korean-female-authors/