26 ottobre 2025

JSM: la vera storia di Jeong Myeong-seok

 

Come promesso, ecco la continuazione della serie di post ispirati al documentario “The Echoes of Survivors: Inside Korea’s Tragedies”. In questo nuovo capitolo vi racconterò l’atroce storia raccontata negli episodi 3 e 4, dedicati alla setta religiosa JMS, fondata da Jeong Myeong-seok.

La Christian Gospel Mission, comunemente nota come JMS, è un movimento religioso controverso fondato in Corea del Sud nel 1978 da Jeong Myeong-seok. Spesso definita una pseudo-religione di matrice protestante, la JMS è stata denunciata come eretica dalle principali denominazioni protestanti coreane a causa delle sue dottrine divergenti sulla Bibbia, sull’aldilà, sulla Trinità e sulla Seconda Venuta di Cristo. Il gruppo è stato anche coinvolto in numerose controversie sociali, tra cui accuse di abusi sessuali ai danni del fondatore, atti terroristici contro i fuoriusciti e attacchi ai media.

Jeong Myeong-seok, figura centrale del movimento, è stato condannato per abusi sessuali e molestie, scontando una pena di 10 anni di carcere tra il 2008 e il 2018. Dopo l’uscita del documentario Netflix “The Holy Betrayal”, che ha portato nuova attenzione sul caso, Jeong è stato condannato a ulteriori 30 anni di prigione. In risposta, la JMS — sotto il nome di “Dipartimento Relazioni Pubbliche CGM” — ha lanciato una campagna su YouTube Shorts per difendere Jeong, sostenendo di voler chiarire “la verità sul caso JMS”. Il sito ufficiale utilizza la sigla CGM, nel tentativo di prendere le distanze dal nome “JMS”, ormai associato a gravi scandali.

Nel 2015 la JMS gestiva circa 200–300 chiese in tutta la Corea del Sud. Entro il 2025, alcune di esse erano diventate indipendenti, riducendo il numero complessivo ma aumentando le dimensioni delle congregazioni rimaste, grazie a una strategia di consolidamento interna. Molte chiese JMS sono riconoscibili per le insegne che riportano la particolare calligrafia di Jeong Myeong-seok, nota come “font Jeong Myeong-seok”. Un tratto distintivo è la mancanza di croci sugli edifici, una scelta che si discosta dai simboli cristiani tradizionali.

Il termine “JMS” è ampiamente diffuso ma non è mai stato il nome ufficiale della Christian Gospel Mission. Nel 2005 la CGM avviò un’azione legale contro l’emittente sudcoreana SBS, accusandola di aver usato impropriamente “JMS” come denominazione ufficiale; la controversia si concluse con un invito alla riconciliazione. Le accuse derivavano dall’associazione, nei media, tra le iniziali “JMS” e il nome del fondatore, interpretata come una forma di deificazione. Internamente, la sigla JMS fu abbandonata dopo il 1999, ma riapparve gradualmente dal 2010, soprattutto nelle attività online.

Ufficialmente, la CGM sostiene che “JMS” significhi “Jesus, Messiah, Savior” o “The Morning Star of Jesus”, prendendo così le distanze dal nome di Jeong. Tuttavia, la presenza della sigla come firma personale del fondatore indebolisce questa versione, rafforzando l’idea che JMS rappresenti di fatto Jeong stesso. Per questa ragione, i critici si riferiscono spesso al gruppo come “Chiesa di Jeong Myeong-seok”, per sottolineare la personalizzazione del culto e distinguerlo dal cristianesimo tradizionale.

All’interno, i membri preferiscono definirsi parte della Providence, termine usato per indicare la comunità, la storia e le chiese stesse. La CGM gestisce anche un sottogruppo giovanile chiamato SS, rivolto agli studenti delle scuole medie e superiori.

Il movimento fu fondato da Jeong Myeong-seok, che iniziò la sua opera missionaria a Seul il 1° giugno 1978. Inizialmente predicava a Namgajwa-dong, dove aprì una chiesa che poi abbandonò per motivi non chiari. Nel 1980 si inserì negli ambienti universitari attraverso l’edificio SBF (oggi ESF) a Daehyeon-dong, Seodaemun-gu, aprendo un piccolo gruppo vicino all’Università femminile Ewha di Sinchon. Da lì il movimento si espanse in diverse zone, tra cui Samseongyo, Yeongdong (vicino al COEX), Gugi-dong, Segeomjeong e Naksungdae.

La JMS concentrò fin dall’inizio la sua attività sul proselitismo tra gli studenti universitari, specialmente quelli coinvolti in gruppi missionari come SBF, IVF, CCC e UBF, oltre che tra gli attivisti. Negli anni successivi assunse vari nomi (Aecheon Mission, Korean Methodist Church Jinri, World Youth and Student MS Federation, International Christian Association).

Nel 1990, con la chiesa di Naksungdae, il movimento raggiunse il suo apice: nel 1999 contava circa 100.000 membri. Tuttavia, la trasmissione televisiva I Want to Know That rivelò le prime gravi accuse, provocando un esodo di oltre metà dei fedeli e di quattro dei cinque fondatori. Uno di essi, il pastore Kim Kyung-cheon, aderì poi a una chiesa protestante ortodossa e si dedicò all’opera di contrasto alle sette.

Durante la prigionia di Jeong (2008–2018), il pastore Jung Jo-eun, detto Sangnoksu, divenne figura chiave e possibile successore, apprezzato per la sua oratoria e la fedeltà al fondatore.

Nel 2025 la JMS conta circa 30.000–40.000 membri. I fedeli si chiamano tra loro “MS” (Morning Star), e i titoli tradizionali “fratello” o “sorella” sono sostituiti da appellativi come hyung, noona, oppa o unnie solo tra amici stretti. Le interazioni tra i sessi sono rigidamente controllate. Le prime celebrazioni includevano canti popolari riscritti, ma durante la detenzione di Jeong vennero incoraggiate composizioni originali, oggi parte integrante delle liturgie JMS.

La JMS è stata oggetto di numerosi reportage, tra cui il programma investigativo I Want to Know That, che mostrava un culto della personalità estremizzato nei confronti di Jeong. Nei video interni, il fondatore veniva celebrato come figura quasi divina: ad esempio, si affermava che avesse segnato 33 gol in 17 partite di calcio, o addirittura 130 durante un allenamento, interpretati come segni di grazia divina. I viaggi all’estero erano presentati come “tour missionari”, ma in realtà includevano attività banali come lo slittino, descritte come “atti carismatici”. I membri celebravano il compleanno di Jeong con toni devozionali e lo definivano “la voce di Dio”, alimentando una venerazione tipica delle sette.

Le accuse di abusi sessuali contro Jeong Myeong-seok costituiscono il fulcro delle controversie. Il primo caso documentato risale al giugno 1987, quando la rivista Young Lady pubblicò la testimonianza di una vittima. Sebbene inizialmente il caso passò in sordina, le accuse riemersero negli anni ’90. Nel 1999, l’episodio televisivo “JMS, la porta della salvezza o la trappola della corruzione” rivelò sistematicamente gli abusi, provocando la fuga di metà dei membri e la nascita del gruppo anti-setta Exodus.

Le indagini rivelarono che Jeong sfruttava le dottrine religiose per manipolare psicologicamente le vittime, impedendo loro di opporsi, con l’aiuto dei suoi seguaci. Dopo la trasmissione, le denunce si moltiplicarono in Corea, Giappone e Taiwan.

La Corte Suprema lo riconobbe colpevole di abusi sessuali aggravati, molestie e violenza coercitiva, confermando l’uso di minacce, violenza e indottrinamento per ottenere il controllo delle vittime. Dopo essere fuggito nel 1999, Jeong fu arrestato a Pechino nel 2007 e condannato a 10 anni di carcere (2008–2018) per reati commessi tra il 2001 e il 2006 in diversi Paesi.

La JMS ha sempre negato o minimizzato i fatti. In tribunale (12 agosto 2024), Jeong ha dichiarato di non essersi mai proclamato Messia, sostenendo di aver predicato solo Dio, Gesù e lo Spirito Santo. Attraverso il suo giornale Providence News (9 maggio 2023), ha accusato i media di diffamazione e le vittime di falsità.

Il gruppo ha intentato numerose cause legali contro ex membri, giornalisti e attivisti, tra cui il professore Kim Do-hyung, nonché un’inutile richiesta di bloccare il documentario Netflix nel 2023. Nel marzo 2025, i dirigenti JMS hanno denunciato un fuoriuscito per la diffusione di un video sugli abusi, mentre gli attivisti anti-JMS hanno interpretato tali azioni come tentativi di zittire le vittime.

La storia della Christian Gospel Mission è quella di un movimento nato come missione religiosa e trasformato in una realtà segnata da scandali, manipolazioni e accuse gravi. Oggi, tra processi e divisioni interne, resta l’immagine di un’organizzazione che continua a difendersi, ma con un’eredità difficile da cancellare.

25 ottobre 2025

Cinderella Closet: la libertà di essere se stessi

 

Ci sono storie che arrivano in punta di piedi, con l’apparenza leggera di un manga romantico, e poi ti accorgi che in realtà parlano di qualcosa di molto più profondo: del bisogno di essere visti per ciò che si è, e non per ciò che gli altri si aspettano. Cinderella Closet di Wakana Yanai è una di queste storie. Dietro i suoi colori pastello, le trasformazioni e i momenti teneri, si nasconde un racconto delicato e potente sull’identità, sull’espressione di genere e sull’accettazione.

All’inizio, Haruka è una ragazza semplice. È cresciuta in campagna, un po’ goffa, con il sogno di diventare più femminile e di vivere una vita da “ragazza di città”: capelli lunghi, vestiti alla moda, un ragazzo che la faccia sentire speciale. Ma la realtà è diversa. A Tokyo scopre la fatica del vivere da sola, del lavorare per mantenersi e dell’essere invisibile in una metropoli che sembra correre più veloce di lei. Si sente distante dall’immagine che aveva immaginato di sé. E in quella distanza comincia la vera storia: quella di una ragazza che impara a conoscersi davvero.

È qui che incontra Hikaru, un personaggio che rompe ogni schema. Ai suoi occhi, Hikaru appare come una figura quasi magica — una “fata madrina” esperta di moda, elegante, sicura di sé, capace di trasformare chiunque con pochi gesti precisi e una sensibilità unica. Ma Hikaru non è una fata. È un ragazzo che si veste e si presenta come donna, che ha scelto di vivere la propria identità senza nascondersi. E questa scelta non è un travestimento, ma una forma di libertà.

Haruka, che all’inizio lo ammira solo per la sua sicurezza e il suo stile, scopre presto che dietro quella forza c’è anche una grande vulnerabilità. Hikaru vive in equilibrio tra due mondi, navigando tra gli sguardi e i giudizi di chi non capisce. Ma la sua autenticità è disarmante: non chiede di essere accettato, mostra semplicemente che si può essere se stessi, anche quando il mondo preferirebbe il contrario.

La rivelazione della sua identità scuote Haruka. Non perché la scandalizzi, ma perché la costringe a guardare dentro di sé. A chiedersi quanto spesso anche lei abbia indossato maschere per piacere agli altri, per sentirsi “abbastanza”. Hikaru, con il suo modo diretto e la sua ironia tagliente, le insegna che cambiare non significa diventare qualcun altro, ma avvicinarsi sempre più a se stessi. “Non c’è nulla di attraente nell’autocommiserazione”, le dice. Ed è una frase che, nel suo tono quasi brusco, diventa un atto d’amore: la spinge a smettere di disprezzarsi e a riconoscere il proprio valore.

È proprio questo il cuore pulsante di Cinderella Closet: l’idea che la trasformazione esteriore — il trucco, i vestiti, il modo di camminare o di parlare — non serva a nascondere, ma a rivelare. Non si tratta di diventare più belli per qualcuno, ma di imparare a sentirsi bene nella propria pelle. Hikaru, nel suo modo libero e autentico di esistere, mostra che l’identità è un campo aperto, non un recinto. Che non esiste un unico modo “giusto” di essere uomini o donne, ma infiniti modi di essere umani.

E forse è questo che rende Cinderella Closet così speciale: la sua capacità di parlare di accettazione non come concetto astratto, ma come percorso quotidiano. La serie non idealizza né semplifica. Mostra la confusione, la goffaggine, i piccoli fallimenti e le incertezze che accompagnano la crescita personale. Mostra che anche l’amore — quello romantico o quello per se stessi — non è una magia che arriva tutta in un colpo, ma un processo che richiede pazienza, gentilezza e verità.

Alla fine, Haruka non diventa una principessa. Diventa semplicemente se stessa: una ragazza che non ha più paura di piacersi, di parlare, di sbagliare. Hikaru, invece, continua il proprio cammino di equilibrio tra le due identità, ma con una nuova consapevolezza: quella di essere visto e accettato da qualcuno che non lo giudica. Entrambi si scoprono più forti, più veri, più umani.

Cinderella Closet non è solo un drama sull’amore e la moda: è un invito a guardarci allo specchio con più gentilezza. A capire che la bellezza non è conformità, ma autenticità. E che la felicità, a volte, non è nel cambiare per piacere agli altri, ma nel permettersi di brillare per ciò che si è. Forse è questo il vero incantesimo: non la scarpetta che ti trasforma, ma lo sguardo che finalmente riconosce la tua luce.


Fonti:

24 ottobre 2025

Il potere del conforto e della cura nel cibo in Bon Appetit, Your Majesty

 


Ci sono storie che non ti restano impresse per la trama o per i colpi di scena, ma per qualcosa di più sottile e intimo: il modo in cui ti fanno sentire. Bon Appetit, Your Majesty è uno di quei drama che non cerca di stupire con la grandiosità della narrazione, ma che ti conquista lentamente, scena dopo scena, con la delicatezza di un gesto, un sorriso, o un piatto preparato con amore.

In questo racconto storico-fantasy, la cucina diventa un linguaggio universale. Il cibo non è solo nutrimento o piacere, ma cura, conforto, memoria. È un ponte invisibile che unisce mondi lontani — il presente e il passato, il regno e la gente comune, la sofferenza e la speranza.

La protagonista, Yeon Ji-young, una chef moderna che si ritrova misteriosamente catapultata nell’epoca Joseon, non usa le armi né l’ambizione per sopravvivere, ma il suo talento più autentico: saper ascoltare le persone attraverso i sapori. Ogni piatto che prepara è una risposta silenziosa al dolore di qualcuno, un modo per dire “ti vedo”, “ti capisco”, “non sei solo”.
Nel suo modo di cucinare c’è qualcosa che va oltre la tecnica: c’è la comprensione profonda dell’animo umano.

Attraverso la cucina, Ji-young incontra Yi Heon, un re tormentato, chiuso nel dolore per la morte della madre e diffidente verso tutto ciò che lo circonda — persino il cibo. Ma qualcosa cambia quando assaggia i piatti di Ji-young. Nei sapori semplici e familiari ritrova un frammento di calore dimenticato, un’eco d’infanzia che gli restituisce fiducia. È come se, per la prima volta, qualcuno cucinasse non per il re, ma per l’uomo che soffre dietro la corona.

Ogni portata diventa così un momento di guarigione.
E forse è proprio questa la più grande lezione del drama: a volte non serve parlare per curare qualcuno — basta esserci, con gesti piccoli ma sinceri. Un piatto caldo può scaldare anche un cuore gelido, e il profumo del cibo può diventare una carezza invisibile che attraversa il tempo e le ferite.

Ciò che colpisce di più in Bon Appetit, Your Majesty non è l’ambientazione, ma la trasformazione silenziosa che avviene tra i personaggi. In cucina, Ji-young e Yi Heon imparano a conoscersi, a fidarsi, a comunicare senza parole. Il loro legame nasce dal bisogno reciproco di sentirsi compresi, e trova forza in quella routine quotidiana fatta di tagli, impasti e aromi.
In quelle stanze profumate, il cibo diventa una forma di amore, un modo per dire tutto ciò che la paura o la regalità impediscono di dire ad alta voce.

Ma il potere del cibo non si ferma ai protagonisti. Ogni piatto preparato da Ji-young porta con sé un messaggio di riconciliazione: con se stessi, con gli altri, con il passato. Nei volti dei personaggi secondari che ritrovano la pace grazie a un pasto condiviso si riconosce una verità semplice e universale — nutrire è un atto d’amore, e cucinare per qualcuno significa prendersene cura in modo tangibile.

Guardando questo drama, ho pensato a quante volte, nella vita reale, un piatto preparato con affetto sia riuscito a sciogliere un silenzio, a colmare una distanza, a rendere un momento più sopportabile. Bon Appetit, Your Majesty ci ricorda che la cura non è fatta solo di grandi gesti o parole elaborate, ma anche di attenzioni silenziose che sanno di casa, di calore e di presenza.

Alla fine, il cibo in questa storia non è mai solo cibo. È memoria, conforto, connessione. È il modo più umano e universale per ricordarci che anche nei tempi più difficili possiamo sempre trovare un po’ di pace… in un sapore che riconosciamo, in un gesto gentile, o in qualcuno che decide di restare accanto a noi, con una ciotola fumante tra le mani.


23 ottobre 2025

Aria fresca per il blog

 

Dopo più di due anni, il blog prende nuova vita con uno stile che richiama un po’ il vecchio blogger anni 2016. Avevo bisogno di un cambiamento già da tempo, ma i colori neutri e quella sensazione da “diario da sfogliare” mi avevano sempre fatto desistere. Con questo nuovo stile, però, c’è un grande vantaggio: dal punto di vista grafico tutto risulta perfettamente leggibile, in qualunque modo abbia impostato le pagine nel tempo. E di questo sono davvero contenta.

Credo comunque che questa sarà una grafica di transizione, in attesa di trovare la grafica definitiva, quella che mi farà aprire il blog e dire: “Sì, è lei.” Questa non mi ha fatto esclamare quelle parole… ma ci è andata molto vicino. La terrò ancora per un po’, almeno fino a quando non troverò la sostituta perfetta.

Con questa breve comunicazione volevo anche informarvi che non sono ancora tornata a pieno regime sul blog: ho solo avuto il tempo di terminare alcuni articoli che avevo in cantiere e di scriverne di nuovi, ma nulla che faccia pensare a un ritorno stabile nel breve periodo. Ci stiamo avvicinando alle tanto temute scadenze accademiche, quindi al momento tutte le mie energie sono dedicate lì. Speriamo di risentirci presto! 

22 ottobre 2025

Quando l’assenza di empatia diventa una storia da raccontare (Genie, Make a Wish e il disturbo antisociale di personalità)

 

Ci sono drama che ci colpiscono per l’ambientazione, la fotografia, la storia d’amore o il finale. E poi ce ne sono altri che ci lasciano addosso qualcosa di più silenzioso, quasi scomodo: una riflessione che cresce piano, fino a farsi domanda. Genie, Make a Wish per me è stato questo. Non per la trama in sé, ma per una tematica rara e un personaggio difficile da dimenticare: Ki Ka-young.

Era la prima volta che vedevo rappresentato in un drama il disturbo antisociale di personalità, qualcosa che avevo solo sentito nominare di sfuggita nei manuali o nei documentari. Non mi aspettavo che potesse essere raccontato così: con freddezza, ma anche con una strana forma di umanità nascosta tra le righe.

Guardando Ka-young mi sono chiesta più volte dove finisca il disturbo e dove inizi la persona. Perché dietro ogni comportamento che ci appare “anormale” c’è sempre una storia, una ferita, un perché.

Nel corso delle puntate, Ka-young si mostra impassibile, distaccata, quasi impenetrabile. Non prova rimorso per le sue azioni, non si lascia sfiorare dal dolore altrui, eppure vive in modo rigoroso, quasi morale, seguendo regole e routine tramandate dalla nonna. È un paradosso: una donna incapace di provare empatia, ma capace di scegliere una vita retta.

Ho scoperto che chi soffre di questo disturbo tende a ignorare i diritti e i sentimenti altrui, mentire, manipolare, agire senza rimorso. Eppure, nel caso di Ka-young, qualcosa incrina questo schema. Forse è la presenza del genio Iblis — figura che funge da specchio, che legge i suoi pensieri oscuri e, anziché respingerli, li osserva. È come se, per la prima volta, qualcuno la vedesse davvero. E quando ci si sente visti, anche solo per un attimo, qualcosa cambia.

Ho pensato a quanto spesso le persone giudichino senza cercare di capire. Ka-young non è un mostro, anche se la sua mente funziona in modo diverso. È una donna che ha imparato a sopravvivere al rifiuto, all’abbandono, all’indifferenza. Le scene in cui la vediamo bambina, respinta dalla madre e lasciata sola, acquistano un peso diverso se le guardiamo alla luce di questa consapevolezza: l’abuso e l’incuria durante l’infanzia possono plasmare un’anima fino a renderla incapace di fidarsi del mondo.

Il drama non cerca di redimerla completamente. Non promette miracoli. Ma ci invita a riflettere su una domanda più grande: una persona con tendenze antisociali può cambiare, o almeno scegliere di non nuocere? Forse sì, se trova un motivo, o qualcuno, per cui valga la pena provarci.

Quello che mi ha colpita è proprio questo: Ka-young, pur nella sua assenza di emozioni, cerca la rettitudine. Non perché la senta, ma perché la comprende. C’è una differenza sottile ma profonda tra provare empatia e scegliere consapevolmente di rispettare gli altri. Ed è in quella differenza che ho visto l’essenza umana del personaggio. A volte, chi viene considerato “diverso” riesce a vivere con più coerenza e rigore di chi si crede emotivamente integro.

Genie, Make a Wish ci ricorda che non tutti coloro che appaiono freddi sono privi di profondità. Alcune persone vivono un’emotività nascosta, silenziosa, che non si traduce in lacrime o sorrisi, ma in gesti, abitudini, regole personali.

E mi sono chiesta: quante volte giudichiamo chi non reagisce come noi? Quante volte scambiamo il silenzio per indifferenza, la freddezza per cattiveria, l’intelligenza analitica per insensibilità?

Forse il vero messaggio del drama non è la redenzione di Ka-young, ma il nostro sguardo su di lei. Imparare a osservare senza etichettare, a capire senza giustificare, a riconoscere che anche chi non sente come noi può avere un codice morale, un modo tutto suo di essere “buono”.

In fondo, ognuno di noi combatte contro qualcosa di invisibile. Ka-young lo fa a modo suo, con le armi che ha, in un mondo che non perdona chi non sa mostrarsi vulnerabile. E forse è proprio lì, nel suo sforzo silenzioso di vivere una vita “giusta”, che ho trovato la lezione più importante di tutte: non serve provare empatia per scegliere di non ferire. Serve solo la volontà di non farlo.

21 ottobre 2025

Brothers Welfare Center: parliamone ancora per non dimenticare.

Le prime due puntate del documentario Netflix The Echoes of Survivors: Inside Korea’s Tragedies sono state struggenti, difficili da guardare e impossibili da dimenticare. Per chi segue il blog: ho già scritto delle “Case dei fratelli”, ma dopo questo documentario ho capito che non bastava. Voglio andare più a fondo e offrire, a chi non ha tempo o possibilità di vederlo, un racconto che deve conoscere. Da bambina ho sempre pensato che conoscere le atrocità del mondo serva a formarci una morale, a capire dove fermarci e, soprattutto, chi non vogliamo diventare. Se il tempo me lo permetterà, farò una serie su tutte le tragedie raccontate nel documentario. Intanto, cominciamo.

Ciò che avvenne al Brothers Welfare Center è considerato uno dei più gravi crimini contro i diritti umani nella Corea del Sud contemporanea. Fondato il 20 luglio 1960 come orfanotrofio (Gamman-dong Brothers Orphanage) e trasformato nel 1962 in rifugio per senzatetto sotto la guida di Park In-geun, il centro si trasferì nel 1975 a Jure-dong, a Busan, diventando di fatto un campo di internamento: recinzioni di filo spinato, cani da guardia, gestione militarizzata, sorveglianza costante. Il contesto politico è fondamentale: durante i regimi autoritari di Park Chung-hee e Chun Doo-hwan, il Ministero dell’Interno emanò l’Ordinanza n. 410 (1975), che autorizzava retate indiscriminate contro “vagabondi” e “indesiderabili” — anche minori — senza alcuna garanzia procedurale. La struttura prosperò grazie a corruzione e collusione tra funzionari locali, polizia e personale medico.

Nel corso degli anni, oltre 38.000 persone furono detenute al Brothers Welfare Center. Nel solo 1986 gli internati censiti erano 3.975. Circa il 70% erano civili comuni, inclusi bambini, sequestrati per strada – spesso in luoghi pubblici come la stazione di Busan – o direttamente nelle loro abitazioni. Subivano lavori forzati, turni fino a dieci ore al giorno anche per i minori, pestaggi, malnutrizione, assenza di cure mediche e violenze sessuali su donne, uomini e bambini. Le morti accertate furono 657, secondo la Commissione per la Verità e la Riconciliazione (2022), ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. I corpi venivano sepolti segretamente o venduti alle scuole di medicina per dissezioni, a un prezzo di 3–5 milioni di won ciascuno. All’interno del centro operava perfino una scuola che diffondeva un vero e proprio culto della personalità verso il direttore Park In-geun, mentre nella sezione psichiatrica si abusava di tranquillanti, creando dipendenze. In vista dei Giochi Asiatici del 1986 e delle Olimpiadi del 1988, le retate si intensificarono per “ripulire” le città dai cosiddetti “indesiderabili”.

Ma l’orrore non fu opera di un solo uomo. Funzionari comunali, polizia e medici parteciparono attivamente: eseguivano rapimenti, falsificavano referti autoptici, redigevano ispezioni mai svolte. Persino un assistente amministrativo del distretto Buk-gu “supervisionava” il centro senza alcuna competenza. Le prime indagini vennero sistematicamente ostacolate dalle autorità locali, tra cui il sindaco di Busan Kim Joo-ho e il vice procuratore Song Jong.

Ciò che accadeva all’interno della Brothers Welfare Center venne alla luce nel 1986, quando Kim Yong-won, procuratore capo della sede di Ulsan dell’Ufficio del Procuratore Distrettuale di Busan, scoprì per caso le prime prove di abusi durante una battuta di caccia. Dopo aver ottenuto un mandato di perquisizione e sequestro, Kim documentò in modo meticoloso la corruzione e le violazioni dei diritti umani commesse all’interno della struttura. Il 17 gennaio 1987, cinque persone furono arrestate presso la Stazione di Polizia Sud di Ulsan:

  • Park In-geun, direttore del centro;
  • Kim Don-yeong, responsabile degli affari generali;
  • Joo Yeong-un, capo ufficio;
  • Seong Tae-eun, caposquadra dell’unità agricola;
  • Lim Chae-heum, vicecaposquadra della stessa unità.

Le accuse includevano appropriazione indebitasequestro aggravatoviolazione della legge sulla gestione della valuta esteraviolazione della legge sui pascoli e violazione del codice edilizio. Nonostante la gravità dei crimini, non furono perseguiti per omicidio, percosse, occultamento o traffico di cadaveri. Durante la detenzione, Park In-geun godette di trattamenti di favore: gli furono concessi 32 permessi di uscita senza manette per motivi personali, grazie alla complicità del sergente Song, successivamente licenziato dopo le denunce della stampa.

La procura aveva inizialmente richiesto 15 anni di carcere e una multa di 681,78 milioni di won per Park In-geun, oltre a pene da 3 a 7 anni per i suoi complici. Tuttavia, nel corso dei processi, le condanne furono progressivamente ridotte. La mancata incriminazione per omicidio e altri crimini gravi, unita alla progressiva riduzione delle pene, mostrò chiaramente la volontà politica di minimizzare lo scandalo. L’allora presidente Chun Doo-hwan arrivò persino a lodare Park con una frase destinata a diventare simbolo dell’ipocrisia di Stato:

“Grazie a persone come il direttore Park, non ci sono mendicanti per strada.”

Dopo l’ondata di indignazione pubblica, il Ministero dell’Interno abolì l’Ordinanza n. 410 il 16 febbraio 1987, trasferendo la competenza in materia di senzatetto al Ministero della Salute e degli Affari Sociali. Poche settimane dopo, con l’Ordinanza n. 523 del 6 aprile 1987, furono introdotte nuove regole per migliorare le procedure di ammissione, la gestione delle strutture e l’orientamento lavorativo. Il Comune di Busan sostituì il consiglio direttivo del centro – incluso Park In-geun – con funzionari pubblici e trasferì gli internati in altre strutture. Nel 1988, la fondazione cambiò nome in Jaeyukwon, segnando apparentemente una nuova fase. Ma la storia non finì lì.

Nel 1991, Park In-geun tornò a controllare tutto, fondando la Siloam House, un centro per disabili gravi. Da quel momento ampliò costantemente i suoi affari: nel 2001 vendette il terreno di Jurye-dong, trasferendo la Siloam House nel distretto di Gijang-gun; nel 2002 acquistò un centro sportivo a Jangrim-dong e, nel 2004, un complesso di sorgenti termali a Gwaebeop-dong. I media iniziarono a chiamare la sua famiglia “il conglomerato dell’assistenza sociale”, perché aveva accumulato immense ricchezze grazie ai sussidi statali: secondo il Sisa Journal (maggio 2014), il 99% dei fondi proveniva da denaro pubblico. Il terzo figlio, Park Cheon-gwang, gestiva la Siloam House, mentre altri membri amministravano attività collaterali, inclusa una istituzione religiosa non autorizzata all’interno del complesso. L’episodio portò solo a una blanda sanzione disciplinare da parte del Comune di Busan.

La rete di Park si estese anche nel settore finanziario: depositò 2 miliardi di won derivanti dalla vendita del terreno di Jurye-dong nella Busan Savings Bank, intrecciando rapporti con il vicepresidente Kim Yang, e contrasse prestiti illegali per 11,8 miliardi di won tra il 2005 e il 2009, scoperti durante una verifica statale. Nel 1995 acquistò perfino Jobstown, un campo da golf in Australia gestito dalla moglie, dalla figlia e dal genero — probabilmente un’operazione di riciclaggio, secondo SBS – I Want to Know That (21 marzo 2015) e Hankyoreh. Nel 2013, un’inchiesta del Human Rights Oreum rivelò che le condizioni della Siloam House erano quasi identiche a quelle del vecchio Brothers Welfare Center: i residenti indossavano uniformi identiche e avevano capelli rasati allo stesso modo; le persone con disabilità gravi mangiavano isolate, spesso legate ai letti; i pasti erano poveri e causavano malnutrizione; gli uffici erano sorvegliati da telecamere a circuito chiuso; al terzo piano operava una chiesa non autorizzata, in violazione delle norme pubbliche. Alcuni residenti, intervistati da News Tapa, dissero semplicemente:

“Voglio uscire e vivere fuori.”

Nel 2011, Park In-geun trasferì la guida della fondazione al figlio Park Cheon-gwang, che nel maggio 2014 fu condannato a tre anni di prigione per appropriazione indebita di sussidi pubblici. Poco dopo, lo stesso Park In-geun fu colpito da emorragia cerebrale e morì il 27 giugno 2016 in una casa di cura. Nonostante la morte di Park, la sua famiglia continuò a prosperare: la figlia minore e il genero aprirono un ospedale psichiatrico, mentre il secondo figlio, ex responsabile del Brothers Welfare Center, gestiva un bar e negava pubblicamente ogni abuso (JTBC – Spotlight di Lee Kyu-yeon, 7 febbraio 2019).

Il direttore Park In-geun, fino alla fine della sua vita, negò costantemente ogni responsabilità. In un’intervista del 2004 rilasciata al Christian Newspaper e al Church Gospel Newspaper, dichiarò di aver gestito la struttura “con coscienza e buone intenzioni” e di essere stato vittima di “invidia e calunnie”. Sostenne di aver semplicemente eseguito gli ordini dello Stato, in particolare quelli previsti dall’Ordinanza n. 410 del Ministero dell’Interno, e arrivò perfino a citare in giudizio il procuratore Kim Yong-won per diffamazione, accusandolo di aver esagerato le condizioni di lavoro forzato. A suo dire, avrebbe persino finanziato personalmente l’assistenza agli internati. Ma le prove raccontavano un’altra verità: Park aveva sottratto fondi pubblici e accumulato una fortuna composta da 33 terrenicondomìni, iscrizioni a circoli di golf e riserve di valuta estera. Non mostrò mai alcun rimorso. Anzi, esibiva con orgoglio le fotografie della struttura del 1983, mostrando gli internati sfruttati come trofei dei suoi “successi” alla Siloam House. Le sue dichiarazioni furono unanimemente condannate come manipolatorie e negazioniste, perché ignoravano la devastazione psicologica, la povertà e i disturbi mentali permanenti di centinaia di sopravvissuti.

Molti superstiti ebbero gravi difficoltà di reinserimento nella società. Alcuni finirono nel crimine o soffrirono disturbi psichici e traumi permanenti. Le famiglie, spesso divise per decenni, si ritrovarono solo molti anni dopo. Nel 2012, il sopravvissuto Han Jong-seon, internato con la forza a 9 anni nel 1984, organizzò una protesta solitaria davanti all’Assemblea Nazionale per chiedere giustizia. Nel suo libro Il bambino che è sopravvissuto (scritto con Jeon Gyu-chan e Park Rae-gun), Han racconta la sua esperienza e quella della sua famiglia, anch’essa sequestrata e detenuta. Disse:

“È facile passare da essere umano ad animale… ma tornare completamente da animale a essere umano è molto difficile.”

La sua frase divenne simbolo del trauma subito dalle vittime del Brothers Welfare Center.

Choi Seung-woo, detenuto per quasi cinque anni a partire dal 1982, condusse una sciopero della fame di 24 giorni nel 2019 e successivamente un sit-in ad alta quota presso l’edificio dei membri dell’Assemblea Nazionale nel maggio 2020. Le sue azioni, sostenute dal deputato Kim Moo-sung, contribuirono all’approvazione, il 20 maggio 2020, dell’emendamento alla Legge quadro per la soluzione delle questioni storiche e per la verità e la riconciliazione, che rese possibile riaprire ufficialmente le indagini sull’incidente.

Il 20 novembre 2018, il procuratore generale Moon Moo-il presentò un ricorso straordinario alla Corte Suprema per riconoscere gli errori giuridici nelle assoluzioni di Park In-geun per il reato di sequestro aggravato. Sebbene il principio del ne bis in idem – il divieto di essere giudicati due volte per lo stesso fatto – impedisse di condannarlo nuovamente, il ricorso aveva un valore simbolico: mirava a riconoscere pubblicamente i crimini e la responsabilità dello Stato per la violazione della “dignità umana” delle vittime.

L’11 marzo 2021, la Corte Suprema respinse il ricorso, confermando il verdetto di non colpevolezza con la motivazione che Park aveva agito “in conformità alle istruzioni del Ministero dell’Interno”.

Tuttavia, nella stessa sentenza, la Corte riconobbe la corresponsabilità dello Stato, aprendo la strada a azioni civili di risarcimento nei confronti del governo o dei familiari di Park, qualora fosse approvata una legge speciale di sostegno alle vittime del Brothers Welfare Center.

Un passo decisivo arrivò nel 2024, quando il Tribunale Distrettuale Centrale di Seoul ordinò allo Stato di pagare 14,58 miliardi di won a 26 ex detenuti, circa il 70% dei 20,3 miliardi richiesti, calcolando 80 milioni di won per ogni anno di detenzione. Fu la prima sentenza a riconoscere la responsabilità statale diretta per le atrocità commesse nel centro. Il Ministero della Giustizia fece appello, e al 16 luglio 2025 il caso risultava ancora in revisione presso l’Alta Corte di Seoul. Nello stesso anno, una seconda sentenza condannò nuovamente lo Stato: il tribunale ordinò di pagare 4,5 miliardi di won (circa 3,37 milioni di dollari) a 16 ex detenuti, con lo stesso criterio di 80 milioni di won per anno di detenzione, più un indennizzo aggiuntivo per i danni psicologici. Questa decisione fu confermata sia dall’Alta Corte di Seoul sia dalla Corte Suprema nel marzo 2025, diventando definitiva.

Sempre nel 2025, anche il tribunale di Busan stabilì che lo Stato e le autorità locali dovevano risarcire le vittime, riconoscendo che proprio politiche come l’Ordinanza n. 410 del Ministero dell’Interno avevano reso possibili gli abusi.

Fino ad allora, nessuna corte aveva mai riconosciuto la responsabilità diretta del governo in casi di abusi contro emarginati o persone con disabilità. Le sentenze di Seoul e Busan, insieme alla relazione del 2022 della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, hanno ufficialmente stabilito che:

  • Il Brothers Welfare Center non fu un rifugio per senzatetto, ma un campo di internamento forzato in cui furono detenute circa 38.000 persone, molte delle quali erano cittadini comuni, inclusi minori.
  • Autorità locali, polizia e governo centrale cooperarono attivamente nella cattura e detenzione illegale di questi cittadini.
  • Almeno 657 persone morirono, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto, a causa di corpi dispersi e sepolture anonime.
  • Le violazioni sistematiche dei diritti umani – pestaggi, violenze sessuali, lavori forzati, torture psicologiche e persino vendita di cadaveri – furono tollerate e coperte dallo Stato.
  • La motivazione ideologica di tali politiche fu la cosiddetta “purificazione sociale”, volta a eliminare dalla vista pubblica poveri, disabili, mendicanti e persone considerate “indesiderabili” in vista di eventi internazionali come le Olimpiadi.

Oggi, il Brothers Welfare Center è considerato uno dei più gravi crimini contro l’umanità nella Corea del Sud contemporanea.
Non solo per l’entità degli abusi, ma per la complicità istituzionale e la lentezza della giustizia, che per decenni negarono verità e riparazione alle vittime.
Molti sopravvissuti, come Han Jong-seon e Choi Seung-woo, hanno dedicato la vita alla ricerca di giustizia, diventando simboli nazionali di resistenza e memoria.
Il loro coraggio ha spinto l’opinione pubblica e le istituzioni a rivedere il passato, riconoscendo la violenza di Stato esercitata in nome del “benessere sociale”.

L’eredità del Brothers Welfare Center continua a influenzare la Corea del Sud anche nel XXI secolo: le organizzazioni civili e i gruppi per i diritti umani chiedono da anni l’approvazione di una Legge speciale di sostegno alle vittime, che preveda:

  • il riconoscimento ufficiale dello status di vittima;
  • indennizzi completi;
  • la creazione di un memoriale nazionale a Busan;
  • la declassificazione dei documenti governativi ancora secretati.

Alcuni progetti commemorativi sono già in corso, tra cui una mostra permanente al Museo dei Diritti Umani di Seoul, che espone documenti, fotografie e testimonianze dirette dei sopravvissuti.

Nonostante i riconoscimenti giudiziari e le indagini ufficiali, la giustizia resta parziale. Molti sopravvissuti vivono ancora in povertà, con disabilità permanenti o disturbi psichici causati dagli anni di detenzione e tortura. Le famiglie delle vittime chiedono non solo risarcimenti, ma anche scuse ufficiali del governo e un vero riconoscimento pubblico del ruolo dello Stato.

La Corte Suprema, pur respingendo nel 2021 il ricorso straordinario, ha fissato un principio destinato a restare nella storia:

“Lo Stato ha la responsabilità di proteggere la dignità umana, e ha fallito nel farlo.”

Questa frase è diventata la base morale e giuridica per ulteriori azioni collettive e per la proposta di una legge speciale di riparazione, ancora in discussione nel 2025.

Oggi, la vicenda è oggetto di ricerche universitarie, documentari e opere teatrali, che mantengono viva la memoria e sensibilizzano le nuove generazioni. Molti studiosi lo paragonano ai campi di lavoro forzato sovietici (Gulag) o ai campi di prigionia nordcoreani, per il livello di controllo, brutalità e disumanizzazione raggiunti. Altri vi leggono una forma estrema di biopolitica, in cui lo Stato decide chi merita di essere “riabilitato” e chi invece può essere escluso o annientato in nome dell’ordine sociale.

Il Brothers Welfare Center non fu semplicemente una struttura abusiva, ma un intero sistema di controllo sociale legalizzato, nato dall’illusione di proteggere la società “purificandola” dai suoi margini. 

Dietro la retorica della “riabilitazione dei senzatetto” si nascondevano interessi economici, ossessioni per il decoro urbano e una cultura istituzionale del silenzio. Le testimonianze dei sopravvissuti ricordano che la dignità umana non può essere concessa o revocata dallo Stato. Oggi, il Brothers Welfare Center è ricordato come un simbolo di memoria civile, che obbliga la Corea del Sud – e il mondo intero – a confrontarsi con il dovere di garantire che nessuna politica pubblica giustifichi mai più la sofferenza di innocenti. Le voci di Han Jong-seon e Choi Seung-woo restano il promemoria che la giustizia non è completa finché la verità non viene raccontata fino in fondo, e che ogni politica pubblica deve essere fondata sulla dignità, non sull’esclusione.

20 ottobre 2025

Sfondi per cellulare - Genie, Make a Wish

 


Lo sapete, quando un drama mi ossessiona diventa parte di me per giorni. Ascolto in loop l’OST, riguardo le foto, rivivo i momenti salienti nella mente... e ovviamente cambio anche la lockscreen del telefono. Se avete amato Genie, Make a Wish quanto me, allora sapete esattamente di cosa parlo. Ecco, allora, una selezione di lockscreen creati da me. Qui sotto potete vederli in anteprima: se qualcosa vi colpisce, vi basta cliccare sull’immagine per salvarla direttamente nella vostra galleria, con un semplice click. Buona ossessione a tutti!



19 ottobre 2025

Sfondi per cellulare - Bon Appetit, Your Majesty

 


Lo sapete, quando un drama mi ossessiona diventa parte di me per giorni. Ascolto in loop l’OST, riguardo le foto, rivivo i momenti salienti nella mente... e ovviamente cambio anche la lockscreen del telefono. Se avete amato Bon Appetit, Your Majesty quanto me, allora sapete esattamente di cosa parlo. Ecco, allora, una selezione di lockscreen creati da me. Qui sotto potete vederli in anteprima: se qualcosa vi colpisce, vi basta cliccare sull’immagine per salvarla direttamente nella vostra galleria, con un semplice click. Buona ossessione a tutti!