Ci sono drama che non cercano l’estetica perfetta, il romance ben calibrato, la fotografia che ti consola. Drama che scelgono invece di entrare nelle crepe della società e illuminarle senza filtri. D.P. è uno di questi. Quando è uscito, molti spettatori non erano preparati alla sua onestà. La serie racconta il lavoro delle unità D.P., Deserter Pursuit, squadre dell’esercito sudcoreano incaricate di rintracciare i disertori. Una realtà esistente, concreta, che per anni è rimasta ai margini della narrazione pubblica. D.P. non inventa: osserva. Non abbellisce: denuncia. E soprattutto, apre una discussione che in Corea era rimasta troppo a lungo chiusa in silenzio.
La storia vera dietro la serie
Molti non lo sanno, ma D.P. nasce da un webtoon ideato da un autore che ha vissuto lui stesso la vita militare e che, durante il servizio, è stato spettatore diretto di alcune delle dinamiche rappresentate nella serie.
Il webtoon, prima, e la serie, poi, hanno dato forma visibile a ciò che molti avevano sempre saputo ma mai osato dire.
Il sistema che schiaccia: bullismo, gerarchie e silenzi
- reclute costrette a subire violenza fisica e psicologica;
- punizioni degradanti presentate come “formazione”;
- derisione sistematica dei più deboli;
- superiori che ignorano o peggio, favoriscono i soprusi;
- un clima di paura che impedisce alle vittime di denunciare.
Molte di queste dinamiche sono state confermate da persone che hanno servito davvero nell’esercito. Alcuni hanno raccontato che la serie ha mostrato persino meno di ciò che succede nella realtà. Il punto non è il realismo della ricostruzione. È la realtà stessa ad essere inquietante.
I disertori: vittime che diventano colpevoli
D.P. si concentra su una figura ambigua e profondamente tragica: il disertore. Nell’immaginario comune, un disertore è un codardo. Nella realtà, spesso è una vittima. Molti dei soldati che scappano non lo fanno per evitare la disciplina ma per fuggire da violenze, minacce, abusi quotidiani. La serie racconta giovani che abbandonano la base non per sottrarsi al dovere, ma per sopravvivere.
In questo, il lavoro delle unità D.P. diventa ancora più complesso e doloroso. Non sono cacciatori di criminali, ma ragazzi costretti a catturare altri ragazzi, mentre entrambi sono schiacciati dallo stesso sistema.
La serie mette a fuoco questa contraddizione: l’esercito li punisce come colpevoli, ma spesso la società li vede come vittime.
Il fenomeno dopo la serie: i veterani prendono parola
Dopo l’uscita di D.P., molti uomini che avevano svolto il servizio militare hanno iniziato a parlare pubblicamente delle loro esperienze. Forum, social network e spazi digitali si sono riempiti di confessioni anonime e testimonianze dirette.
C’è chi ha scritto che guardare la serie è stato un “trigger”, un ritorno a ricordi sepolti. C’è chi ha rivelato episodi talmente estremi da sembrare irreali, eppure confermati da altri ex soldati. E c’è chi ha raccontato che, durante il servizio, aveva visto situazioni simili ma aveva taciuto per paura di ritorsioni.
Tutto questo ha alimentato un dibattito nazionale sulla necessità di riformare profondamente la cultura militare. Un dibattito scomodo, ma inevitabile.
Le reazioni: pubblico sconvolto, militari divisi
La serie ha provocato reazioni diversissime. Da una parte, il pubblico sudcoreano più giovane ha accolto D.P. con empatia e indignazione: molti hanno percepito il drama come una denuncia necessaria, come un modo per dare voce a chi non ne ha avuta per anni.
Dall’altra, una parte delle forze armate ha criticato la serie, giudicandola un’esagerazione che rischia di danneggiare l’immagine dell’esercito. In altre parole: c’è chi dice che mostra “troppo”, e chi dice che mostra “troppo poco”.
Tra i commenti più significativi emersi dopo la messa in onda, ce n’è uno che riassume tutto: “Se non hai fatto il servizio militare, non capirai mai. E se l’hai fatto, lo capirai fin troppo bene.”
Cosa cambia dopo D.P.?
D.P. non è nato per cambiare il mondo. Ma il mondo, dopo averlo guardato, sembra un po’ meno disposto a rimanere in silenzio. Il drama ha:
- aperto discussioni pubbliche su abusi e suicidi in caserma;
- portato attenzione internazionale sul tema;
- spinto molti veterani a rompere il silenzio;
- generato richieste di revisione dei protocolli interni;
- avviato riflessioni sulla salute mentale dei soldati.
Non è solo una serie: è un trauma collettivo condiviso, trasformato in narrazione. E quando una storia riesce a fare questo, significa che la finzione è arrivata dove la realtà non era riuscita.
D.P. è un drama che non consola e non coccola. È un racconto che mette a disagio, che scava, che espone. Ma è anche uno dei rari casi in cui la televisione diventa spazio di testimonianza.
Uno spazio in cui le storie dei disertori, dei ragazzi puniti, dei bulli e delle vittime, trovano finalmente una forma. E non è poco.
Perché in Corea, dove il servizio militare è obbligatorio e la cultura dell’obbedienza è radicata da secoli, raccontare il dolore non è mai stato semplice.
Oggi lo è un po’ di più. E questo, forse, è il vero merito di D.P..
Fonti
- https://www.korean-culture.org/eng/webzine/202203/sub07.html
- https://creatrip.com/en/blog/11359
- https://koreajoongangdaily.joins.com/2021/09/08/entertainment/television/DP-Netflix-Kim-Botong/20210908145000722.html
- https://www.koreaboo.com/news/netflix-dp-real-korean-men-opinion-military-service-portrayal
- https://www.dojeonmedia.com/post/how-accurate-is-d-p-to-real-life-a-real-d-p-interview-with-real-perspectives

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