20 novembre 2025

Kim Ji-hoon: sguardi, ombre e quotidianità di un attore che si reinventa sempre


Kim Ji-hoon è uno di quegli interpreti che non restano semplicemente sulla scena: scivolano nelle pieghe dei ruoli, li abitano in silenzio, e poi tornano alla loro vita con una naturalezza che quasi disorienta.  E, più lo osservi, più ti accorgi che tutto ciò che fa nasce dallo stesso impulso: una dedizione feroce al suo lavoro e, allo stesso tempo, una sensibilità sorprendente verso tutto ciò che costruisce un personaggio, un ruolo, una storia.


Se c’è un tratto che definisce davvero Kim Ji-hoon è il suo modo di imparare: senza tregua. La sua giornata non è fatta solo di set o letture di copione: è un percorso a tappe, ognuna dedicata a una parte diversa del suo corpo e della sua mente.

Prima tappa: un’accademia di stretching dove arriva a fare le spaccate, con una precisione che lascia immaginare ore di esercizi, stretching doloroso, disciplina. Poi un’altra accademia ancora, questa volta per il basket. Non gioca “un po’ così”: studia il gesto, la posizione, entra in campo come uno studente vero.

Una volta terminato tutto questo, arriva persino un’accademia di canto. La sera. Con il corpo stanco dopo ore di movimento. Ma c’è qualcosa, in questa sua fame di studio, che torna sempre: la volontà di sentirsi vivo attraverso l’apprendimento. Lui stesso lo dice con la naturalezza di chi ha già fatto pace con questo bisogno: gli piace studiare, gli piace investire tempo, energie e denaro per sentire che sta crescendo. Non vuole smettere mai. Vuole portare questa mentalità avanti per tutta la vita.

E in questo ritmo affollato si inserisce anche il suo modo di alimentarsi: segue il digiuno intermittente, mangia tardi, con precisione e coerenza, come se il corpo e il lavoro dovessero sempre parlarsi, sempre dialogare.


Quando si presenta sul palco per University of Laughs, spiazza. Appare diverso, quasi goffo, lontanissimo dall’immagine sicura e affilata dei ruoli televisivi. Ed è proprio questo a renderlo magnetico: la sua capacità di trasformarsi senza temere di “perdere fascino”.

Nella pièce interpreta un giovane scrittore che deve sottoporre il suo copione alla censura. Il personaggio è servile, umiliato, continuamente schiacciato da una figura di potere che lo corregge, lo insulta, lo svuota. È un ruolo che vive di spalle curve, spalle chiuse, sguardi evitati.

E Kim si ritrova perfettamente in questa difficoltà fisica. In teatro, racconta, non c’è il primo piano rassicurante del drama: tutto è un “full shot”, un’inquadratura continua. Lì non può nascondersi. Deve essere credibile fino in fondo e non solo nel volto. Gli hanno detto persino che inizialmente appariva troppo sicuro di sé, troppo “dritto”. Così ha iniziato a studiare quella postura, a imparare a incurvarsi, a respirare da servo.

La parte più impegnativa, però, non è stata la fisicità. È stata la memoria. Abituato al sistema dei drama, dove le scene arrivano poche pagine alla volta, si è ritrovato a maneggiare un copione completo, finito, da imparare tutto. E ride ricordando come, ai tempi della scuola, fosse bravo a “ripassare tutto all’ultimo minuto”: un talento tornato improvvisamente utile sul palco.

La discesa nell’oscurità: la costruzione dei villain più intensi del k-drama

Quando Kim Ji-hoon veste i panni del cattivo, succede qualcosa di particolare: non diventa solo inquietante, diventa tridimensionale. E questo accade perché dietro ogni villain che interpreta c'è un lavoro di scavo, di trasformazione interiore, di immersione totale.

Il percorso che lo ha portato a essere amato – e temuto – in questi ruoli parte da Flower of Evil, dove la sua interpretazione di un serial killer gli è valsa una nomination ai Baeksang Awards e un pubblico molto più vasto. Poi arriva Ballerina, dove interpreta un criminale coinvolto nel traffico sessuale, un personaggio disgustoso, pericoloso, lontanissimo da chiunque vorremmo incontrare.

Eppure lui non solo accetta questi ruoli: li desidera. E li affronta con una dedizione che racconta moltissimo del suo processo creativo. Confessa, con sorprendente onestà, che proprio perché non sente “il male” dentro di sé, deve crearlo da zero, costruirlo con disperazione, con intensità. Rilegge le sceneggiature decine di volte, come se fossero mappe da decifrare. Parla di questo lavoro come di una stampa tridimensionale: partendo da un blueprint, aggiunge strati, consistenza, dettagli, fino a dare corpo a un personaggio fatto di contrasti, pulsioni e logiche completamente lontane dalle sue.

Per Death’s Game la sfida è ancora più profonda. Park Tae-u, il chaebol che interpreta, è un uomo convinto di essere superiore, incapace di provare empatia, annoiato dal mondo al punto da trovare colore solo nell’omicidio. È un personaggio scomodo, repellente. E proprio qui l’attore affonda il coltello: non cerca giustificazioni morali, cerca il punto di vista del personaggio. Vuole capire cosa lo eccita, cosa lo stimola, cosa accende quel meccanismo di piacere distorto.

Le scene più difficili da girare, quelle piene di sangue, di tensione, di brutalità, diventano anche le più memorabili. In particolare quelle accanto a Kim Jae-wook, dove i due interpretano due psicopatici che si riconoscono, si affrontano, si specchiano l’uno nell’altro. Sono state scene dure, fisicamente ed emotivamente, ma anche incredibilmente soddisfacenti per lui. E, come spesso accade, dietro la brutalità della scena si nascondeva un’atmosfera sul set tutt’altro che cupa: collaborativa, affiatata, piena di rispetto.

Death’s Game, oltre a regalargli un ruolo iconico, gli offre qualcosa di più profondo: un messaggio in cui crede davvero. La storia affronta il tema del suicidio non come scelta individuale isolata, ma come ferita che attraversa chi resta. Mostra il dolore dei legami, la responsabilità emotiva che abbiamo gli uni verso gli altri. E Kim confessa che, anche se il ruolo fosse stato piccolo, avrebbe voluto partecipare comunque. Perché la storia “può salvare vite”, e questo gli basta.

E allora diventa più chiaro anche come sceglie i suoi progetti: non segue la popolarità, non insegue i trend. Cerca sfide. Ruoli che gli facciano provare ansia, tensione, incertezza. È proprio questa tensione a nutrirlo: inizia ogni progetto nel panico, e proprio da quel panico nasce il suo motore creativo. Quando il risultato arriva, la soddisfazione è enorme. È questo, lo dice apertamente, ciò che lo tiene in vita artisticamente.


Il futuro: nuovi drama, nuovi volti, nuove metamorfosi

Kim Ji-hoon non si ferma. Arrivano nuovi drama, nuovi personaggi, nuove sfide. Ruoli caldi e affettuosi accanto a figure più ambigue, varietà investigativi, produzioni in attesa della finestra giusta per uscire. È un attore che non si cristallizza mai: cambia forma, cambia postura, cambia voce.  Ed è proprio lì che nasce la sua magia. Non nei villain in sé, non nei ruoli più acclamati, ma nella capacità di prendere ogni personaggio, buono o cattivo che sia, e renderlo vivo, tridimensionale, unico. Proprio come fa ogni giorno con la sua vita.


Fonti

  1. https://www.soompi.com/article/1436286wpp/kim-ji-hoon-shows-his-home-and-many-hobbies-reveals-what-he-kept-from-flower-of-evil-filminghttps://dramabeans.com/2010/05/kim-ji-hoon-on-his-theater-debut/
  2. https://www.forbes.com/sites/joanmacdonald/2024/02/14/kim-ji-hoon-explains-why-he-makes-such-a-compelling-k-drama-villain/
  3. https://www.allkpop.com/article/2025/10/kim-ji-hoon-marks-23-years-at-drama-talk-concert

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