Ci sono temi che scopri un po’ per caso, magari leggendo un articolo qua e là, e improvvisamente ti ritrovi a chiederti: “Ma davvero succede ancora?” La questione delle punizioni corporali in Corea del Sud è uno di questi. Un argomento scomodo, pieno di contraddizioni, e incredibilmente rivelatore di un paese che vive in bilico tra tradizione e modernità, tra autorità e diritti, tra il “si è sempre fatto così” e il tentativo costante di cambiare rotta. Quando parliamo di punizioni corporali, non parliamo solo di scuole rigide o genitori severi: parliamo di un intero modo di percepire l’educazione, l’autorità, il rispetto. Parliamo di maestri che un tempo erano venerati e che oggi si ritrovano allo stremo; di famiglie che si dividono tra chi rivendica la “mano ferma” e chi non la ritiene più accettabile; di bambini intrappolati in un sistema che ancora oscilla tra vecchio e nuovo. È un viaggio scomodo, sì. Ma è necessario per capire un pezzo importante della società coreana che spesso, attraverso i drama, vediamo solo nella sua veste più delicata, romantica o patinata.
Dentro le case coreane: un confine sempre più fragile
Per molti genitori sudcoreani, la punizione corporale non era semplicemente una scelta, ma una tradizione. Era la normalità. La “mano pesante” veniva giustificata come un atto d’amore, un dovere educativo, un mezzo per formare adulti disciplinati e rispettosi. A casa, un ceffone, un colpo con il bastone di bambù o una punizione fisica erano considerati parte del processo di crescita, un modo per prevenire la sregolatezza o l’“indisciplina emotiva”.
Quando le leggi hanno iniziato a cambiare (perché sì, in Corea del Sud la punizione corporale in famiglia è stata effettivamente vietata) non tutti hanno applaudito. Al contrario: molti genitori hanno percepito questo divieto come un’ingerenza diretta nel loro ruolo educativo. Alcuni si sono persino ribellati, lamentando di non poter più “educare correttamente” i figli. C’è chi si è convinto che senza la possibilità di punire fisicamente, i bambini diventeranno ribelli, irresponsabili, incapaci di comprendere l’autorità.
Il cambiamento normativo ha aperto una faglia netta tra generazioni:
- da un lato chi difende la tradizione come un pilastro della crescita;
- dall’altro chi vede nella punizione fisica solo una ferita che continua nel tempo, un’eredità che non vogliono più trasmettere.
La società coreana, ancora oggi, non ha una risposta univoca. Ma una cosa è certa: parlare di punizione corporale significa parlare di identità culturale.
Le scuole: il luogo dove tutto scoppia
Se nelle famiglie la tensione è forte, nelle scuole esplode. Per decenni, l’immagine dell’insegnante in Corea del Sud è stata qualcosa di quasi sacro. I docenti erano figure intoccabili, rispettate, temute. Il loro potere disciplinare era assoluto. Bastoni, righelli, minacce fisiche, o la famigerata “posizione della sedia” (stare a lungo accovacciati o con le braccia alzate) erano strumenti comuni.
Ma quando la Corea del Sud ha iniziato a introdurre norme più stringenti contro le punizioni fisiche nelle scuole, tutto è cambiato. Gli insegnanti si sono trovati improvvisamente privati di uno degli strumenti disciplinari su cui avevano fatto affidamento per tutta la loro carriera.
Il risultato? Una crisi silenziosa, ma devastante.
Molti docenti oggi parlano di perdita totale del rispetto da parte degli studenti. Raccontano di classi ingestibili, genitori iperprotettivi pronti a denunciare per qualsiasi cosa, e di un sistema scolastico che chiede loro risultati impossibili senza darli strumenti adeguati. Alcuni arrivano a provare disperazione, burnout, crolli emotivi. Altri lasciano la professione, sentendo di non avere più spazio né autorità.
È una trasformazione culturale difficile: passare da un modello punitivo e verticale a uno educativo e collaborativo richiede tempo, formazione e un sostegno che spesso manca. Intanto, a soffrire sono tutti: insegnanti che non si riconoscono più, studenti che vivono scuole in crisi, famiglie spaccate tra vecchio e nuovo.
La generazione che non vuole più essere punita
C’è poi un altro pezzo fondamentale di questa storia: i ragazzi stessi. La nuova generazione sudcoreana non accetta più la punizione fisica come metodo educativo. È una generazione cresciuta in una società iper-competitiva, sotto pressione costante, dove anche un singolo errore può diventare una macchia indelebile sulla carriera scolastica o professionale. In questo contesto, il dolore fisico non è percepito come un mezzo educativo, ma come una violenza inutile che si aggiunge a un peso già enorme.
Ed è proprio qui che la Corea del Sud si trova: nel mezzo di un cambiamento culturale così vasto da spaccare ogni sua struttura tradizionale. Una transizione che non riguarda solo educazione e disciplina, ma il modo stesso in cui la società definisce affetto, rispetto e responsabilità.
Tra passato e futuro: un paese in bilico
Raccontare la storia delle punizioni corporali in Corea del Sud significa raccontare un paese che cambia e resiste allo stesso tempo. Un paese che cerca di proteggere i bambini, ma che deve fare i conti con genitori che hanno paura di “perdere il controllo”. Un sistema scolastico che vuole modernizzarsi, ma che rischia di bruciare i suoi insegnanti. Una gioventù che pretende diritti, ma che eredita traumi che non ha scelto.
Non esiste una soluzione semplice. Non esiste un giudizio universale. Esiste, però, una domanda che risuona sempre uguale: come si educa un bambino senza ferirlo? Forse la risposta non è ancora arrivata. Ma parlarne apertamente, senza filtri, senza tabù, è già un primo passo.
Fonti
- https://www.vice.com/en/article/parents-in-south-korea-are-upset-they-cant-beat-their-kids-anymore
- https://10mag.com/corporal-punishment-in-korea
- https://asianews.network/what-drove-koreas-once-revered-teachers-to-despair

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