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Se guardi un K-drama – e dico davvero guardarlo, con attenzione – a parte i personaggi… che cos’è che vedi più spesso?
Aspetta, non rispondere subito. Fai mente locale. Una scena casuale: due personaggi si incontrano. Dove sono? Esatto.
Dentro un coffee shop.
E quel coffee shop non è anonimo. Ha un bel logo enorme sulla porta d’ingresso, un nome bene in vista dietro il bancone e magari una bella tazza personalizzata con tanto di brand. Oppure, altra scena classica: il protagonista risponde al telefono con uno smartphone di ultima generazione, logo bene in evidenza, magari con una suoneria che già ci suona familiare.
Tutto questo non è un caso. È product placement, o per gli amici: PPL.
Una forma di pubblicità indiretta (ma neanche troppo) che popola i nostri drama preferiti come comparse silenziose ma persistenti.
La PPL funziona così: invece di interrompere la visione con uno spot classico, ti piazzano il prodotto dentro la scena. Non c’è bisogno di urlarti “Compra questa bevanda!”, perché sarà il tuo attore preferito a berla, mentre piange per amore o sorride al suo primo appuntamento.
È una forma di pubblicità "soft", ma costante, e soprattutto ben studiata.
E non parliamo solo di caffè o telefoni.
Nei K-drama trovi di tutto: detersivi, sneakers, cioccolata, TV, fotocamere, app, libri, bevande energetiche, cibo, moda, automobili, cosmetici, minimarket...
Un piccolo centro commerciale mascherato da serie tv. E la cosa inquietante è che funziona.
Vuoi un esempio?
“My Love from the Star” (별에서 온 그대).
Il rossetto usato dalla protagonista? Sold out in un attimo.
Il pollo fritto, suo comfort food preferito? È scoppiata una vera e propria mania in Cina.
E non dimentichiamo il libro The Miraculous Journey of Edward Tulane di Kate DiCamillo: in Corea non se lo filava nessuno, poi è comparso nel drama e… boom. Oltre 30.000 copie vendute.
Chiariamoci: la PPL non è un’invenzione coreana. Esiste anche in film e serie di altri Paesi.
Ma nei K-drama ha un'intensità tutta sua. Al punto che qualcuno li definisce “pubblicità travestita da fiction”.
E no, non è solo un modo di dire.
C’è una ragione dietro questa esplosione di brand in scena: una legge del 2010.
La Korea Communications Commission ha allentato i divieti sulla pubblicità indiretta in TV. Prima era vietata, poi... via libera, tranne che per notiziari, documentari e programmi politici.
Da lì in poi, i marchi hanno iniziato a colonizzare ogni singolo frame.
Perché?
Perché conviene a tutti.
Il governo spingeva per promuovere i prodotti coreani nel mondo (sfruttando l’onda Hallyu), e le emittenti, in crisi per via dei nuovi media, hanno trovato una nuova fonte di entrate.
Si stima che la PPL copra tra il 10% e il 20% dei costi di produzione. E con i budget esagerati di certi drama, non è poca cosa.
Ma allora tutto bene?
Non proprio.
C’è un lato oscuro, soprattutto per noi spettatori affezionati.
Quando la PPL è ben dosata, nemmeno te ne accorgi. Ma quando è invasiva… ti rovina tutto.
Ti distrae. Ti fa uscire dalla scena.
E a volte, pur di inserire un prodotto, la trama si contorce, diventa forzata.
Una storyline promettente si trasforma in uno spot lungo un’ora.
E lì non vedi più i personaggi. Vedi solo quello che vogliono venderti.
Io non dico che la PPL debba sparire del tutto.
So bene quanto sia importante per tenere in piedi la macchina complessa di un drama.
Ma un buon equilibrio è possibile. E necessario.
Perché alla fine, quello che ci fa amare i K-drama non è la marca di rossetto.
È la storia.
E se anche quella inizia a vendersi… allora sì che abbiamo un problema.
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