18 dicembre 2025

Il lato strano della Corea e le superstizioni che non ti aspetti (seconda parte)


Ogni volta che penso di aver capito un po’ meglio la Corea del Sud, spunta fuori una superstizione nuova pronta a ricordarmi che questo Paese ha un talento speciale per sorprendere anche i fan più navigati. Non importa quanti drama abbia visto, quante ore abbia passato su YouTube, o quante notti insonni a leggere articoli random di cultura coreana: c’è sempre qualcosa che mi sfugge, e sinceramente adoro questa sensazione. Oggi ho scelto 4 nuove superstizioni che forse non avete mai approfondito davvero: il colore rosso, i regali da fare (ma soprattutto non fare), le tradizioni per un perfetto trasloco e lo stravagante mito dell’altezza. Quattro piccole finestre sulla cultura coreana che, ve lo prometto, renderanno ancora più interessante il modo in cui guardate i vostri k-drama preferiti. Pronti a scoprire questo lato meno conosciuto della Corea? Allora accomodatevi: iniziamo il viaggio.
Il colore rosso: tra protezione, paura e piccoli rituali quotidiani
Ci sono colori che, più di altri, sembrano portarsi dietro un peso antico. In Corea, il rosso è uno di quelli. È un colore che vive su due estremi: da una parte è simbolo di fortuna, prosperità e protezione; dall’altra è legato alla morte, agli spiriti e a un senso di sventura imminente. E più scavo tra queste superstizioni, più mi rendo conto di quanto questo colore, così acceso e vivo, abbia modellato gesti quotidiani talmente radicati da essere rispettati più rigidamente della legge. La prima regola, quella che chiunque dovrebbe imparare appena mette piede in Corea, è semplice e assoluta: non scrivere mai il nome di una persona con una penna rossa. Neanche il tuo. È uno di quei divieti che non si discutono, soprattutto con le generazioni più anziane, per cui l’inchiostro rosso è quasi un presagio. Le storie sulla sua origine variano, ma tutte convergono verso un’unica certezza: il rosso richiama immediatamente l’immagine del sangue, e il sangue, in una visione tradizionale, porta con sé dolore, sfortuna, morte.

Tra le tante spiegazioni, ce n’è una che affonda le radici nella storia della dinastia Joseon. Circa 550 anni fa, durante un colpo di stato che spodestò il giovane re Danjong, il potente Han Myeong-hoe compilò due liste: una di persone da risparmiare e una di persone da eliminare. I nomi destinati alla morte vennero scritti in rosso. Da allora, quel colore ha assunto un significato preciso e innegabile: scrivere un nome in rosso significa attirare sventura su quella persona, o addirittura augurarle la morte.
A rafforzare questo tabù ci sono le antiche pratiche funebri. Quando qualcuno moriva, il suo nome veniva registrato nei registri di famiglia in inchiostro rosso, e lo stesso colore appariva sui grandi banner portati durante le processioni. Il rosso serviva a proteggere il defunto, a tenere lontani gli spiriti maligni, a tracciare un confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. E proprio per questo, scrivere in rosso il nome di una persona viva è considerato un gesto capace di rovesciare questo equilibrio, attirando invece ciò che si vorrebbe tenere lontano.

Il legame tra rosso e maledizioni non si ferma qui. Anche alcuni amuleti sciamanici, soprattutto quelli usati per invocare vendette o respingere un avversario, venivano scritti con inchiostro rosso o persino con sangue animale. Una pratica che ha rafforzato l’idea che quel colore, sulla carta, potesse diventare un’arma. Esiste però un’eccezione: il chop, il timbro personale usato per firmare documenti ufficiali. In questo caso l’inchiostro rosso è non solo accettabile, ma obbligatorio. La sua consistenza è densa, pastosa, simile a una torta di riso, e non ricorda affatto il sangue. Nessuna superstizione, nessuna minaccia: solo un gesto amministrativo dalla lunga tradizione. Le regole, insomma, sono semplici. Puoi scrivere con una penna rossa tutto quello che vuoi, purché non sia il nome di una persona viva. Puoi correggere compiti, appunti, liste della spesa. Puoi usarla in qualsiasi contesto che non coinvolga identità o auguri scritti su un biglietto. Ma non scrivere mai il nome di qualcuno in rosso, non scriverlo su un regalo, non farlo neppure per sbaglio. E se proprio senti il bisogno di mandare una lettera minatoria… beh, farlo in rosso sarebbe considerato doppiamente offensivo.

Eppure, e questo è uno degli aspetti più affascinanti, lo stesso colore che porta sfortuna può trasformarsi in un simbolo potentissimo di protezione e buona sorte. Nei momenti in cui si desidera attirare prosperità, il rosso diventa protagonista assoluto. Un tempo, il dono più comune era il bok jumoni, un piccolo borsellino tradizionale quasi sempre rosso, colmo di significati legati alla prosperità. Anche oggi viene usato come ornamento o come portafortuna durante le festività come Chuseok o Seollal. Ma c’è una regola fondamentale: mai regalarlo vuoto. Bastano 1.000 o 10.000 won per trasformarlo in un augurio, un gesto di rispetto, un piccolo incantesimo quotidiano. Lo stesso vale per i portafogli rossi, considerati a lungo un magnete per la ricchezza. Fino a pochi anni fa erano tra i regali più popolari, proprio perché il rosso, in questo contesto, non spaventa: attira. Spinge i soldi a “non scappare”, a rimanere. Anche qui vige la regola del “non vuoto”: restituisci un contenitore riempito di qualcosa, regala un portafoglio con dentro un piccolo bilancio di fortuna, compi un gesto che lasci spazio all’abbondanza. E poi c’è una delle tradizioni più affettuose, quella della biancheria rossa. Un tempo, quando il riscaldamento domestico non era diffuso, la biancheria termica rossa era considerata un bene prezioso: calda, resistente, più costosa rispetto ai colori spenti dell’epoca. Da qui nasce l’usanza di regalarla ai propri genitori dopo aver ricevuto il primo stipendio del primo lavoro. Oggi molti scelgono regali diversi, ma la tradizione resiste, trasformandosi in boxer, slip, reggiseni o maglie termiche rosse da regalare in segno di gratitudine.

E c’è un dettaglio curioso: durante il giorno di apertura di un grande magazzino, la biancheria rossa è ovunque. Si dice che comprarla in quel momento porti fortuna sia a chi acquista sia all’attività che sta iniziando il suo percorso. Una piccola superstizione, certo, ma anche un modo per condividere un augurio, un circolo di buona sorte che si muove attraverso gli oggetti. Il rosso, insomma, è un colore doppio. Un colore yang, portatore di protezione, prosperità, energia. E allo stesso tempo yin, simbolo di sfortuna quando usato nei contesti sbagliati, come scrivere un nome sulla carta. È un equilibrio sottile, un gioco di opposti che convivono nella stessa tinta.

E se dopo tutte queste storie senti una punta di inquietudine come se qualcuno, da qualche parte, potesse aver scritto il tuo nome in rosso, la tradizione ha la sua soluzione. Puoi comprare un talismano di carta, spesso decorato proprio con scritte rosse, e metterlo sulla porta, nel portafogli o sotto il cuscino. Il rosso che allontana la cattiva sorte, che spaventa gli spiriti maligni, che protegge ciò che ami. In Corea, il rosso non è solo un colore. È un linguaggio antico, un avvertimento, un talismano, un gesto d’amore. È tutto ciò che si scrive e ciò che non si dovrebbe mai scrivere nello stesso tratto di penna.

Quando un regalo significa qualcosa in più: scarpe, fazzoletti e piccoli presagi
Ci sono superstizioni che sembrano nate per proteggere i sentimenti, quasi come se la cultura avesse trovato un modo simbolico per dare forma alle paure che tutti, prima o poi, sperimentiamo. Una di queste riguarda un oggetto così semplice e quotidiano da sembrare innocuo: le scarpe. In Corea, regalarle alla persona amata è considerato un gesto rischioso, quasi un invito involontario a lasciarti. Si crede infatti che il partner, una volta ricevuto quel paio di scarpe nuove, possa “scappare via” usando proprio quel regalo. È una superstizione che ritorna soprattutto durante il White Day, la festa del 14 marzo in cui i fidanzati donano caramelle alle loro partner, un mese dopo i cioccolatini di San Valentino. In mezzo a dolcezza, cuori e confezioni decorate, l’unica cosa da evitare sono proprio le scarpe: troppo cariche di simbolismo, troppo vicine alla possibilità di un addio.

Eppure, come spesso accade nelle credenze popolari, esiste un piccolo trucco per “neutralizzare” la sfortuna. Basta farsi dare in cambio una somma simbolica, anche solo 100 won, trasformando il regalo in un acquisto. In questo modo, secondo la tradizione, il destino smette di essere vulnerabile e l’amore può continuare il suo percorso senza interferenze. Naturalmente, non c’è alcuna prova che regalare scarpe sia davvero un modo efficace per far finire una relazione… ma la superstizione resiste, come un antico sussurro che passa di generazione in generazione. Un’altra credenza, meno diffusa ma ancora presente, riguarda i fazzoletti. Offrirli a qualcuno potrebbe essere interpretato come un addio, un gesto che sa di separazione e malinconia. Non è una superstizione comune come quella delle scarpe, ma è una di quelle piccole attenzioni culturali che raccontano quanto il simbolismo sia radicato nel quotidiano.

E proprio perché certi oggetti sembrano racchiudere più significati di quanti ne portino davvero, anche i coltelli rientrano tra i regali considerati portatori di cattivi presagi. Regalare un coltello, in Corea, è visto come un gesto capace di “tagliare” il legame tra due persone, portando sfortuna sia a chi dona sia a chi riceve. È una di quelle superstizioni che vengono prese molto sul serio, tanto da influenzare perfino episodi televisivi diventati famosi. Qualche anno fa, in una trasmissione dedicata ad aiutare ristoranti in difficoltà, un noto chef donò a un’anziana proprietaria di una piccola trattoria un coltello professionale di qualità altissima. Ma non lo fece davvero come regalo: glielo “vendette” per 1.000 won, una cifra simbolica, proprio per evitare che il gesto venisse interpretato come un presagio negativo. Quel piccolo scambio di denaro trasformò il dono in un acquisto, lasciando intatto il significato del rapporto e, soprattutto, mettendolo al riparo dalla sfortuna.

E parlando di regali, c’è un aspetto della cultura coreana che spesso sorprende gli stranieri: non è considerato educato aprire un regalo davanti a chi lo ha appena consegnato. La ragione è semplice e profondamente legata all’etichetta del paese: ai coreani non piace mostrare emozioni in pubblico, e chi regala preferisce non trovarsi davanti alla reazione, positiva o negativa, del destinatario. Aprire un dono subito può quindi risultare invadente o poco rispettoso. È un gesto che ribalta completamente le abitudini occidentali, dove invece non aprire subito un regalo viene visto come un’assenza di gratitudine. In Corea, la discrezione viene prima di tutto. La cosa migliore da fare è chiedere il permesso con gentilezza: un piccolo gesto capace di evitare imbarazzi.

E poi ci sono quei regali che portano con sé un significato completamente diverso, più luminoso, quasi beneaugurante. Un’idea perfetta per una festa di inaugurazione di una nuova casa è il detersivo per il bucato. Può sembrare curioso, ma le bolle sono considerate simbolo di prosperità: si crede che portino fortuna, che facciano “moltiplicare” le buone cose nella vita del nuovo proprietario. Un dono semplice, pratico, eppure ricco di significato. Il tipo di regalo che va oltre l’oggetto, diventando augurio, incoraggiamento, promessa di un inizio felice. Le superstizioni sui regali sono così: nascono da antiche paure, si intrecciano con la vita quotidiana e, a modo loro, raccontano il bisogno universale di proteggere ciò che conta davvero. Che si tratti di un paio di scarpe, di un fazzoletto o di un flacone di detersivo, ognuno di questi oggetti diventa un simbolo, una metafora delicata di ciò che, nel profondo, tutti temiamo o desideriamo.

Traslochi, spiriti e riti per un nuovo inizio
Ci sono momenti della vita che sembrano semplicemente pratici: scatoloni da riempire, mobili da smontare, orari da incastrare, amici da reclutare per aiutare. Eppure, in Corea, il trasloco è un evento che vive a metà tra la logistica e l’invisibile, tra ciò che si vede e ciò che secondo molte credenze potrebbe seguirti senza essere invitato. Il primo gesto, quando ci si trasferisce in una nuova casa, riguarda l’ingresso e gli angoli più bui: vanno cosparsi di sale e fagioli rossi, due degli scaccia-spiriti più antichi e diffusi. Il sale, con la sua funzione purificante, è considerato un muro invisibile contro tutto ciò che è impuro o minaccioso; i fagioli rossi, invece, devono il loro potere al colore, quel rosso così temuto dagli spiriti. È un rito che molti continuano a seguire anche oggi, quasi come un’abitudine protettiva. Una sorta di versione coreana dell’aglio o della croce usati contro i vampiri nel folklore occidentale.

Naturalmente, oltre ai riti spirituali, c’è tutta la strategia pratica del trasloco. Senza professionisti, bisogna assicurarsi che amici e parenti siano disponibili a dare una mano, scegliere un giorno di bel tempo per evitare di inzuppare i mobili, controllare che i vecchi inquilini se ne siano già andati e che quelli nuovi non arrivino troppo presto. In altre parole: tutto ciò che nella vita quotidiana chiunque considererebbe buon senso. Ma in Corea, il giorno del trasloco porta con sé altre preoccupazioni, molto più sottili. Esiste infatti la credenza secondo cui gli spiriti maligni potrebbero seguirti durante il trasferimento, entrando nella nuova casa insieme ai tuoi mobili. Per questo molte persone scelgono di spostarsi solo in giorni considerati “sicuri”, chiamati soneopsneunsal, che significa letteralmente “giorno senza fantasmi”. Sono giorni segnati direttamente nel calendario da alcune ditte di traslochi, che li raccomandano come momenti ideali per spostarsi senza attirare presenze indesiderate. Ogni mese ce ne sono diversi, e il motivo per cui proprio quei giorni siano ritenuti sicuri… be’, quello è uno di quei misteri che nessuno sa davvero spiegare.

Ci sono poi piccoli accorgimenti da seguire per evitare che qualcosa o qualcuno ti segua. Uno dei più curiosi è quello di non spazzare il pavimento della vecchia casa prima di andartene. La polvere rimasta confonde gli spiriti, che penseranno che tu viva ancora lì. Quando i nuovi inquilini arriveranno e inizieranno a pulire, gli spiriti non saranno più in grado di trovarti, perché avrai già lasciato quel luogo da tempo. Il perché questa strategia funzioni o debba funzionare rimane un altro pezzo di tradizione senza spiegazione. Ma fa parte di quelle piccole credenze che, nel loro essere illogiche, raccontano qualcosa di molto umano: la paura di essere seguiti da una parte della vita che si vuole lasciare indietro. A differenza delle storie occidentali, non esiste la credenza che gli spiriti possano tormentare la nuova famiglia che entra nella casa appena lasciata. Almeno su questo, la Corea ha preferito evitare gli scenari da film dell’orrore.

Fortunatamente, il giorno del trasloco può portare anche un tocco di buona sorte, soprattutto quando piove. Nella cultura occidentale si dice che sposarsi sotto la pioggia porti fortuna; in Corea, allo stesso modo, si crede che traslocare in un giorno di pioggia renda molto ricchi. Nessuno, però, consiglia davvero di testare questa teoria: il rischio di rovinare i mobili e dover spendere una fortuna per sostituirli è fin troppo reale. La verità è che certe superstizioni funzionano meglio quando restano metafore, non quando vengono messe alla prova con i propri beni più ingombranti.
Il trasloco, con tutte le sue tradizioni e i suoi piccoli rituali, diventa così un passaggio tra due mondi: la casa che si lascia e quella che si abita, ciò che si vuole tenere con sé e ciò che si spera di allontanare. E nel mezzo, quelle credenze che fanno parte del tessuto invisibile della società, nate per proteggere, per rassicurare, per rendere meno incerto un momento di cambiamento.

Il mito dell’altezza: quando crescere diventa una questione di fede
Tra le superstizioni più curiose e forse più radicate c’è quella legata all’altezza. In Corea, l’idea che alcuni esercizi possano far crescere è praticamente un sapere comune, qualcosa che non viene neppure messo in discussione. Basket, salto della corda, stretching: tutto ciò che coinvolge movimenti ampi, salti o spinta verso l’alto è considerato un buon alleato per aumentare la statura. Se sei già alto, tutti danno per scontato che tu sia un asso nella pallacanestro; se sei basso, allora un numero indefinito di partite, salti in palestra o sessioni di “double dutch” prima o poi porterà a un’improvvisa impennata di centimetri.

L’altezza di una persona, nella stragrande maggioranza dei casi, è determinata dalla genetica. In genere non ci si discosta molto dai propri genitori; se qualcuno risulta particolarmente più basso o più alto, è probabile che quel tratto provenga da un nonno e abbia “saltato” una o due generazioni prima di ricomparire. Una possibilità rara  ma statisticamente reale  quando una persona presenta caratteristiche fisiche completamente diverse da entrambi i genitori riguarda il fatto che il padre non sia, biologicamente, il padre vero. È un’ipotesi che nessuno ama menzionare, ma che fa parte delle eccezioni possibili. Accanto alla genetica, poi, c’è il tema dell’alimentazione. Nei paesi sviluppati, come la Corea, non c’è alcun motivo per temere che un bambino non cresca alla propria altezza naturale: solo anni di grave malnutrizione potrebbero interferire davvero con il processo.

A questo punto, sorge spontanea una domanda: quanto è importante l’esercizio per crescere? Senza dubbio muoversi è salutare: fa bene al sistema cardiovascolare, mantiene i muscoli forti e tonici, stimola il rilascio di ormoni che contribuiscono al benessere generale. Ma tutto questo non ha alcun effetto sul “progetto” della nostra altezza, che è scritto nel nostro DNA. Essere in forma può dare l’impressione di essere più slanciati; un lavoro costante sul corpo può migliorare la postura e dare maggiore armonia alla figura, ma non cambia le ossa. E se qualcuno decidesse di usare quei dispositivi che sembrano usciti da una stanza di tortura medievale, nel tentativo disperato di “stirarsi”… il risultato sarebbe soltanto temporaneo. Naturalmente, qui restano esclusi i casi degli interventi chirurgici per aumentare la statura, una strada ben diversa dal mito che stiamo osservando.

La parte più affascinante è chiedersi come sia nato un mito del genere. Il desiderio di essere più alti è comprensibile e universale, ma quando si è cominciato a credere che fosse possibile modificare la propria altezza attraverso il movimento? E soprattutto: perché questa convinzione è rimasta così viva fino a oggi? Il mito dell’altezza è così: nasce dal desiderio di trasformare il possibile in realizzabile, di credere che la volontà possa superare il corpo. È una superstizione gentile, quasi tenera, che racconta la speranza di poter cambiare qualcosa che, invece, è scritto dentro di noi molto prima che iniziamo a saltare, correre o giocare a basket.Più mi addentro in queste superstizioni, più mi rendo conto che la Corea ha un’incredibile capacità di trasformare anche le piccole stranezze quotidiane in qualcosa di affascinante. Ed è proprio questo che mi fa amare così tanto la cultura coreana: il mix perfetto tra modernità e tradizione, tra linee pulite dei grattacieli e vecchie storie che ancora resistono. Sono sfumature che spesso passano inosservate nei k-drama ma che, quando le scopri, ti fanno guardare tutto con occhi diversi. Se queste quattro superstizioni vi hanno incuriosito, sappiate che non finisce qui. La Corea ha un repertorio infinito di credenze bizzarre, poetiche, assurde o tenerissime, e nelle prossime settimane ne esploreremo altre. Perché in fondo, conoscere un Paese significa anche ascoltare le sue piccole leggende… e magari, la prossima volta che vedrete un ventilatore acceso di notte in un drama, ci farete un pensierino.

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