Parlare di letteratura coreana significa immergersi in un mondo dove passato e presente si rincorrono tra poesia, lotta e orgoglio nazionale. Una storia fatta di lingue sovrapposte, scritture riscoperte, influenze religiose e ferite ancora aperte. Come ogni popolo che ha conosciuto l’oppressione e la rinascita, anche la Corea ha usato la parola scritta per resistere, ricordare, sognare. E lo ha fatto in modi che, ancora oggi, riescono a toccare corde profonde.
Tra Cielo e Terra: la letteratura classica
Le radici della letteratura coreana affondano nelle credenze popolari e spirituali: buddismo, confucianesimo e taoismo hanno plasmato i testi antichi, ma è il buddismo ad aver lasciato l’impronta più marcata, seguito dalla rigorosa influenza del confucianesimo nei secoli successivi. In epoca Choson, l’élite scriveva e tramandava la cultura in cinese classico. Eppure, tra quei caratteri stranieri, vivevano storie profondamente coreane.
Il punto di svolta arrivò con l’invenzione dell’alfabeto Han-gul nel XV secolo. Un gesto rivoluzionario, voluto da re Sejong, che diede voce anche alle donne, ai popolani, a chi era rimasto ai margini. Ma ci vollero secoli prima che l’alfabeto nativo potesse davvero brillare. Solo dalla seconda metà dell’Ottocento la scrittura coreana divenne il cuore pulsante della letteratura nazionale, decretando il tramonto dell’egemonia del cinese classico.
Gli Hyangga e la poesia degli spiriti
Molto prima che Han-gul vedesse la luce, la Corea aveva già una sua voce poetica. Gli Hyangga, poesie del periodo Shilla, erano scritte usando una complessa combinazione di suoni e significati dei caratteri cinesi. Ci raccontano di fratelli perduti, di lodi ai guerrieri e di preghiere sussurrate ai morti. Alcune erano semplici ballate popolari, altre, come Chemangmaega, custodivano un’epica spiritualità che ancora oggi lascia il segno.
Shijo, Kasa e l’eco del cuore
Nel periodo Choson, lo shijo diventò la forma poetica per eccellenza: tre righe cariche di emozione e riflessione. Gli autori erano spesso studiosi confuciani, e i temi ruotavano attorno alla lealtà, alla morale, alla bellezza austera della vita. Accanto a queste poesie, si svilupparono anche i kasa, componimenti più lunghi, usati per esprimere emozioni o narrare eventi. In entrambi i casi, la poesia si faceva carne, respiro, vita.
Le storie cantate e le narrazioni della gente
C’è un punto in cui poesia, musica e narrazione si fondono: è il p’ansori, la performance epica che unisce canto, racconto e dramma. Nasce dal popolo, racconta storie quotidiane, eppure tocca l’universale. I romanzi classici scritti in Han-gul, come Hong Kil-tong chon, hanno dato vita a personaggi indimenticabili, spesso mossi da un forte senso di giustizia sociale. Con il tempo, anche la satira prese piede, e la narrativa si aprì a nuove voci: ladri, contadini, donne, kisaeng… finalmente anche loro avevano un posto nelle storie scritte.
L’ombra giapponese e il risveglio
Il XX secolo si apre con una ferita profonda: l’occupazione giapponese. In quel buio periodo (1910-1945), la letteratura diventò una forma di resistenza silenziosa. Dopo il Movimento del 1° marzo 1919, iniziò a farsi largo una nuova consapevolezza: il desiderio di raccontarsi, di non dimenticare. I romanzi cominciarono a parlare del dolore dell’individuo, della solitudine, della patria ferita. Mujong di Yi Kwang-su segnò una svolta: era il primo vero romanzo moderno coreano. Da lì in poi, le parole iniziarono a farsi più affilate, più politiche, più vere.
La divisione, la guerra, la rinascita
Dopo la liberazione dal Giappone, la Corea non trovò pace: la divisione Nord-Sud e la guerra civile del 1950 lasciarono un’altra cicatrice profonda. La letteratura rifletté questo trauma con opere dense di angoscia, solitudine, ricerca di senso. Si scriveva di contadini dimenticati, di città crudeli, di lavoratori sfruttati e anime spente. Ma anche di speranza. Nei romanzi e nelle poesie, il popolo coreano cercava una nuova identità. E la trovava proprio lì, tra le righe.
Nel frattempo, la poesia si divise in due correnti: da una parte i tradizionalisti, che cercavano rifugio nei ritmi antichi e nel sentimento popolare; dall’altra gli sperimentalisti, che volevano rompere tutto per ricominciare. Entrambi, a modo loro, raccontavano l’urgenza di un’epoca che cercava se stessa.
Verso la contemporaneità: voci nuove, ferite ancora aperte
Gli anni ’70 portarono industrializzazione, progresso, ma anche alienazione, disuguaglianze, rabbia. La letteratura si fece specchio fedele di tutto questo. Romanzi come Il piccolo proiettile lanciato da un nano di Cho Se-hui raccontano l’assurdità di una società che corre, dimenticando chi resta indietro. Si scriveva di periferie, di operai, di città spietate.
E poi c’era il "romanzo della divisione", che affrontava a viso aperto il trauma del confine. Opere come Le montagne T'aebaeksan di Cho Jong-rae restano testimoni potenti di un dolore ancora presente. Allo stesso tempo, emergevano voci poetiche che cantavano la rabbia del minjung, il popolo oppresso. Poesia e politica, in quel periodo, si tenevano per mano.
Un mondo che ascolta: la letteratura coreana oltre i confini
Fino agli anni ’80, la letteratura coreana era poco conosciuta all’estero. Poi, grazie a pionieri come Peter H. Lee e Bruce Fulton, iniziarono a essere tradotte opere che oggi sono studiate in tutto il mondo. Hwang Sun-won, Kim Tong-ri, Han Yong-un… nomi che oggi suonano familiari a molti lettori internazionali.
Anche nei paesi francofoni le traduzioni sono cresciute: Yi Mun-yol, Cho Se-hui, Gu Sang. Sono voci che, anche se nate lontano, riescono a parlare a chiunque. Perché la letteratura coreana ha un cuore grande, e una memoria che non si spegne.
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