Se ti piacciono i K-drama storici, probabilmente hai già incrociato almeno una volta la figura dell’eunuco: quell’uomo sempre a pochi passi dal re, che parla a bassa voce, si muove con fare misurato e ha spesso un tono quasi femminile. In coreano viene chiamato 내시 (nae-shi, 內侍), 내관 (nae-gwan, 內官) o 환관 (hwan-gwan, 宦官): termini diversi, usati però in modo intercambiabile per indicare la stessa figura. Dietro questi personaggi apparentemente secondari, però, si nasconde un universo complesso fatto di potere, sacrificio, umiliazioni, privilegi e contraddizioni che attraversano secoli di storia coreana.
Gli eunuchi erano, a tutti gli effetti, gli assistenti-servitori più vicini al re e ai membri della famiglia reale. Non erano semplici comparse silenziose: stavano accanto al sovrano negli spazi più intimi, gestivano messaggi, rituali, piccole e grandi incombenze quotidiane, e in certi casi arrivavano perfino a influenzare le decisioni politiche. Contrariamente a quanto spesso si immagina, non erano condannati a una vita totalmente isolata e disumanizzata: potevano sposarsi, formare una famiglia e, pur non potendo generare figli, adottarne, a patto che mantenessero lo stesso cognome dell’eunuco.
Durante la dinastia Joseon, diventare eunuco poteva essere considerato, paradossalmente, una “carriera desiderabile”. Il motivo era semplice e brutalmente pragmatico: il salario. Lo stipendio mensile di un eunuco si aggirava attorno ai 150 kg di riso (circa 330 libbre), a cui si aggiungevano benefici e trattamenti di favore difficili da tradurre nei termini economici di oggi, ma che corrispondevano ad almeno cinque volte il guadagno mensile della gente comune. Non esisteva un’età pensionabile obbligatoria e, al momento del ritiro, veniva riconosciuto un trattamento particolarmente generoso. In un contesto di povertà diffusa, questo significava una cosa molto semplice: alcune famiglie numerose, senza molte alternative, arrivavano a costringere uno dei figli a “candidarsi” per questo ruolo, che comportava una mutilazione fisica irreversibile.
La castrazione, in Corea, aveva una duplice funzione: era una delle Cinque Punizioni tradizionali, ma costituiva anche una via d’accesso al servizio imperiale. Gli eunuchi della Corea venivano chiamati Naesi e, nella società tradizionale, erano funzionari del re e della famiglia reale. La prima attestazione documentata di un eunuco coreano compare nel Goryeosa (“Storia di Goryeo”), una compilazione dedicata al periodo Goryeo. Con la fondazione della dinastia Joseon nel 1392, il sistema dei Naesi fu riformato e il relativo ufficio divenne il “Dipartimento dei Naesi”.
La castrazione non avveniva sempre con il consenso diretto dell’interessato. In una società in cui la sopravvivenza della famiglia dipendeva spesso da scelte estreme, capitava che un ragazzo venisse sacrificato “per il bene comune”. La procedura di castrazione non era uguale ovunque. In molti paesi si limitava alla rimozione dei testicoli, impedendo la procreazione ma lasciando, almeno in parte, la funzionalità sessuale. In Corea, questo era il metodo consueto: venivano rimossi i testicoli, così da impedire la generazione biologica di un figlio, ma mantenendo la possibilità di avere rapporti sessuali. Da qui la particolarissima condizione degli eunuchi coreani: mutilati ma non del tutto “neutralizzati” dal punto di vista sessuale, in una zona grigia che oggi ci appare difficile da incasellare.
Diverso era il caso della Cina, dove la tradizione prevedeva la rimozione totale, pene e testicoli, con un coltello affilato. Se il ragazzo non moriva a causa della perdita di sangue o di infezioni urinarie, la guarigione richiedeva circa cento giorni. Nel frattempo, le parti rimosse, considerate “parti preziose”, venivano poste in un vaso, immerse nell’aceto, conservate, quindi essiccate per essere riposte in una piccola sacca da appendere alla cintura dell’eunuco. Può sembrare qualcosa di profondamente disturbante, ma per chi viveva in quel sistema era un gesto fondamentale: essere sepolti insieme a quelle parti significava poter rinascere come uomini completi nell’aldilà.
Nel contesto cinese, soprattutto durante la dinastia Ming (1368–1644), gli eunuchi divennero una presenza massiccia e strutturale: si parla di numeri che arrivano fino a centomila eunuchi al servizio dell’imperatore. Il loro compito era gestire gli affari quotidiani del palazzo, ma il loro ruolo andò ben oltre la semplice amministrazione. Erano confidenti, mediatori, consiglieri politici, figure ibride sospese tra subalternità formale e potere informale. La loro impotenza biologica veniva sfruttata come garanzia politica: non potendo avere figli, non avrebbero potuto fondare una dinastia alternativa o alimentare ambizioni ereditarie. In teoria, proprio questa condizione li avrebbe dovuti rendere fedeli solo all’imperatore.
Nella realtà, però, il potere corrompe quasi sempre. In Cina, la lunga storia di eunuchi che abusavano della propria vicinanza all’imperatore e che finivano per usurpare il potere è fin troppo nota. In Corea, invece, la storia prese una piega leggermente diversa. Gli eunuchi di Joseon, pur avendo accesso privilegiato alla corte e potendo talvolta esercitare un certo peso politico, non arrivarono mai a prendere il controllo del governo come i loro omologhi cinesi. Paradossalmente, proprio il fatto di poter costruire una vita familiare al di fuori delle mura del palazzo, sposandosi e adottando figli, li legava a una dimensione “mondana” che li rendeva meno inclini a gettarsi in lotte di potere che avrebbero potuto distruggere tutto ciò che avevano ottenuto con fatica.
Eppure, dire che fossero figure miti e disinteressate sarebbe una grande semplificazione. Nella Corea di Joseon, agli eunuchi venivano associati anche tratti profondamente negativi. C’era chi li definiva “irrequieti, eternamente insoddisfatti e avidi”, “distorti e sospettosi per natura, gelosi, lunatici, inclini a scoppi d’ira improvvisi e a un odio vendicativo”. La loro “unica passione totalizzante”, si diceva, era il denaro, e l’influenza che esercitavano sul re veniva rappresentata come sempre dannosa. Molti di questi eunuchi provenivano da famiglie povere, non avevano ricevuto istruzione formale ed erano spesso illetterati. Ciò non impedì ad alcuni di loro di diventare uomini di grande potere, tanto da essere le persone più influenti dell’intera corte coreana. Proprio per questo furono talvolta presi di mira come bersagli di complotti e attentati.
La figura dell’eunuco porta con sé, inevitabilmente, una ferita simbolica che si rifletteva nel loro modo di stare al mondo. In una società che attribuiva un valore enorme ai figli maschi, essere privati della possibilità di generare significava trovarsi in una posizione dolorosamente marginale rispetto a uno dei pilastri della mascolinità dell’epoca. È facile immaginare quanto risentimento potesse nascere da questa condizione. Eppure, nonostante la mutilazione, non tutti gli eunuchi vivevano in castità. Alcuni si sposavano, altri avevano rapporti sessuali. Il mito dell’eunuco completamente asessuato si incrina di fronte a questi dettagli molto concreti.
La trasformazione in eunuco non si esauriva nella procedura chirurgica. Per entrare davvero a far parte dell’apparato di corte, bisognava passare attraverso una selezione e un addestramento rigoroso. I futuri eunuchi venivano sottoposti a un esame fisico approfondito prima di essere accettati come tirocinanti, e il loro percorso formativo durava dieci anni. Durante questo periodo, erano sottoposti a prove estenuanti sulla resistenza fisica e sulla tolleranza al dolore. Un esempio? Potevano essere costretti a bere grandi quantità di acqua durante il giorno senza avere il permesso di andare in bagno. Oppure veniva loro messa della sabbia nelle narici, che veniva strofinata finché non provocava un fastidio insopportabile. Tutto rispondeva a un principio molto chiaro: qualunque cosa tu possa udire, devi diventare come un sordo, e ogni volta che vorrai parlare, dovrai diventare come un muto. In altre parole: imparare a vedere tutto, ma a non reagire; ascoltare tutto, ma non lasciar trapelare nulla.
La pratica della castrazione era circondata anche da rituali implicitamente “protettivi”. Il “dottore” poneva al paziente la stessa domanda per tre volte: “Sei disposto a diventare un eunuco?”. Se rilevava anche la minima esitazione nella risposta, non procedeva. Come se, di fronte a un gesto irreversibile, si cercasse almeno una traccia di consenso esplicito, per quanto condizionato. L’operazione, inoltre, veniva eseguita solo in giorni specifici: si aspettava che fuori ci fossero tuoni e fulmini forti, così che il boato del temporale potesse coprire le urla del paziente.
Dal punto di vista fisico, la castrazione precoce lasciava segni evidenti. Se i testicoli venivano rimossi prima della pubertà, la barba non cresceva e, se qualche pelo era già spuntato, cadeva naturalmente entro tre mesi dall’intervento. La voce diventava quella di una bambina, o comunque molto acuta e roca, un timbro che contribuiva a renderli figure immediatamente riconoscibili. Lo squilibrio ormonale, inoltre, favoriva l’aumento di peso e non era raro che gli eunuchi diventassero obesi. Eppure, un dato colpisce più di tutti: vivevano più a lungo. Le statistiche riportano, per l’epoca Joseon, un’aspettativa di vita media per i re di circa 47 anni, per i funzionari di corte di circa 53 anni e per gli eunuchi di circa 70 anni. Una stima che si confronta con una realtà in cui l’aspettativa di vita maschile generale era inferiore ai 35 anni. I registri della corte, a partire dal 1392, indicano un’aspettativa di vita media degli eunuchi pari a 70,0 ± 1,76 anni, ovvero da 14,4 a 19,1 anni in più rispetto agli uomini non castrati appartenenti allo stesso gruppo socio-economico. Il corpo mutilato, paradossalmente, sembrava guadagnare tempo.
Se da un lato gli eunuchi godettero di privilegi materiali e di una longevità sorprendente, dall’altro vivevano anche un quotidiano fatto di umiliazioni, ridicolo e stigma. Spesso erano oggetto di scherni, bersagli di disprezzo e curiosità morbosa. In alcune descrizioni, venivano considerati maleodoranti, perché il controllo della minzione era complesso e fragile. Immaginare l’odore, la fatica, l’imbarazzo, permette di cogliere la distanza tra la loro vicinanza formale al potere e la vulnerabilità concreta iscritta nel loro corpo. Il potere, però, rimaneva una costante. In Occidente, quando si pensa agli eunuchi, l’immagine più immediata è quella dei guardiani degli harem nelle corti mediorientali. In Corea, invece, soprattutto durante la Joseon, gli eunuchi erano a tutti gli effetti alcuni degli uomini più potenti del regno. Molti di loro fungevano sì da guardiani delle donne di palazzo, fattorini o assistenti personali della famiglia reale, ma altri arrivavano a essere consiglieri fidati dei sovrani. Ai diplomatici e ai residenti stranieri, spesso apparivano come le persone più influenti della corte, proprio perché avevano accesso al re in momenti e luoghi preclusi a chiunque altro.
Per garantire la purezza della linea di sangue imperiale, agli uomini, tranne l’imperatore, era proibito trattenersi nel palazzo senza essere costantemente sorvegliati. Era severamente vietato avvicinarsi ai quartieri posteriori, il cosiddetto “harem” dell’imperatore, e l’idea stessa di passarvi la notte era inconcepibile… a meno di essere eunuco. Gli eunuchi, infatti, erano gli unici uomini al di fuori della famiglia reale autorizzati a rimanere nel palazzo durante la notte. Questo status li collocava in una zona privilegiata del sistema: servitori, sì, ma indispensabili, e quindi pericolosamente potenti.
Anche fuori dal palazzo, la loro esistenza continuava a lasciare tracce concrete. Qualche decennio fa, è stato raccontato l’incontro con l’ultimo eunuco vivente in Corea, avvenuto nel 1977. In quell’occasione si parlò del suo jokbo, il libro genealogico di famiglia, che mostrava come i figli adottati dagli eunuchi mantenessero il cognome della famiglia di origine, suggerendo una composizione familiare complessa, stratificata, in cui il legame di sangue doveva convivere con un’identità costruita a partire da una mutilazione. Quell’incontro ha suscitato curiosità e domande, tanto che, nel tempo, chi ne aveva letto il resoconto ha chiesto ulteriori approfondimenti sulle case degli eunuchi e sulla loro vita quotidiana.
Una delle storie più suggestive riguarda proprio una casa che, ancora oggi, si trova a Seoul e viene indicata come “casa di un eunuco”. Si tratta di un’abitazione nascosta dietro l’ambasciata giapponese, vicino al Palazzo Gyeongbok. A un primo sguardo, passando per strada, sembra vuota e abbandonata. Due negozi sul lato della strada sono stati ristrutturati e appaiono nuovi di zecca, ma l’edificio alle loro spalle mantiene un aspetto sospeso nel tempo. Per osservarlo meglio, c’è chi è salito nel grattacielo accanto, guardando dall’alto la struttura e scattando fotografie. Eppure, nonostante la fama, a chi possiede qualche conoscenza sulle case degli eunuchi, quella costruzione non sembra corrispondere all’immagine tramandata.
Secondo la letteratura storica e narrativa, le case degli eunuchi avevano caratteristiche molto precise. Uno dei testi che le descrive è un racconto storico di An Sugil del 1948, intitolato “Chwiguk” in coreano e tradotto come “Il crisantemo verde”. Al centro della storia c’è una ragazza sfortunata, venduta alla casa di un eunuco per diventare la sposa del nipote dell’eunuco stesso, anch’egli eunuco. L’azione si colloca in un’epoca in cui gli eunuchi non erano più funzionari di corte, ma residui di un’istituzione ormai obsoleta, frammenti di un passato che non aveva più posto nella nuova Corea.
In questo racconto, la casa dell’eunuco viene descritta come un luogo protetto da diverse porte interne che conducono a un cortile riparato, uno spazio in cui la moglie e i figli dell’eunuco potevano muoversi al sicuro, lontani dagli sguardi degli estranei e dalle possibili derisioni. La porta più interna viene chiamata “ilgak-mun”, la “porta a un angolo” o “a un corno”, che nel testo assume un valore simbolico fortissimo: rappresenta l’imprigionamento delle donne e dei bambini, racchiusi all’interno di questo microcosmo familiare isolato dal mondo. Una casa, quindi, non solo fisicamente compartimentata, ma anche psicologicamente chiusa, carreggiata di ombre e di vincoli.
La casa dietro l’ambasciata giapponese, invece, è molto diversa. Assomiglia di più a una tipica casa yangban dei tempi passati, con una divisione chiara tra il quartiere esterno, riservato agli uomini, e quello interno, destinato alle donne. Manca quella stratificazione di porte e cortili protetti che contraddistingueva le abitazioni degli eunuchi. E c’è un altro elemento che fa dubitare della sua autenticità come “casa di eunuco”: la posizione. Questo edificio si trova a sud-est del Palazzo Gyeongbok, mentre è noto che gli eunuchi vivevano per lo più nella zona ovest, in un’area oggi conosciuta come Hyoja-dong.
Qui entra in gioco un altro pezzo di storia nascosta nel linguaggio. Hyoja significa “figlio filiale” e rimanda a uno dei concetti centrali della dottrina confuciana: il dovere del figlio di onorare e rispettare i genitori. Il nome suona nobile e rispettabile, e una fonte sostiene che il quartiere abbia preso questo nome grazie a due celebri “figli filiali” che vi avrebbero abitato. Ma c’è anche un’altra versione, più cruda e, probabilmente, più vicina alla realtà: in origine, quel quartiere si sarebbe chiamato Hwaja-dong. Hwaja era un termine dispregiativo usato per indicare gli eunuchi, con un significato che si avvicina a “bruciato” o, in un registro ancora più triviale, “finocchio”. Con la caduta del regno Joseon, quell’area vicina al centro della città divenne una zona residenziale di pregio. Ma non si poteva presentare al mondo con un nome tanto carico di disprezzo, così venne ribattezzata “quartiere dei figli filiali”, Hyoja-dong, cancellando dal toponimo la memoria esplicita del suo passato legato agli eunuchi.
Questo non significa, però, che tutti gli eunuchi vivessero esclusivamente in quel quartiere. L’ambientazione della casa con la porta “ilgak” nel racconto di An Sugil si trovava leggermente più a est rispetto alla casa osservata dietro l’ambasciata giapponese, a suggerire che gli eunuchi potessero abitare in varie zone di Seoul e persino fuori dalla capitale. L’eunuco incontrato nel 1977, per esempio, viveva in campagna, lontano dal palazzo reale. Esistono anche testimonianze di case di eunuchi nelle province di Gyeongsang, con strutture architettoniche particolari, diverse dalle tipiche abitazioni contadine.
L’immaginario sulle case degli eunuchi si arricchisce anche grazie a resoconti medici e descrizioni di viaggiatori stranieri. In uno di questi, per esempio, si dice che la casa di un eunuco si riconosce dal fatto che ha un solo portale, invece dei due tipici ingressi: uno per gli uomini e uno per le donne. Questa caratteristica viene interpretata come una precauzione per impedire alle donne di lasciare la casa: si diceva che non amassero i loro mariti eunuchi e tendessero a scappare, motivo per cui la struttura stessa dell’abitazione doveva “trattenerle”. Un’immagine potente e inquietante, in cui la casa diventa un dispositivo di controllo e reclusione oltre che uno spazio domestico. Provare a immaginare la vita di una giovane donna sposata a un eunuco significa confrontarsi con un altro tipo di frustrazione: quella di una vita coniugale segnata dalla castità forzata. Eppure, come già accennato, la realtà non era sempre così netta. I
Guardando a questo quadro complessivo, l’istituzione dell’eunuco appare come una lente curiosa attraverso cui leggere la società premoderna, non solo in Corea. Gli eunuchi, infatti, non erano una peculiarità esclusivamente coreana: si trovavano in moltissimi palazzi antichi del mondo. E ogni volta, in contesti e culture diverse, questa figura ha messo in crisi la nostra idea rigida di genere, corpo, potere e desiderio. Nel caso specifico della Corea del periodo di Joseon, gli eunuchi incarnano una combinazione di opposti difficilmente conciliabili: erano al tempo stesso potenti e vulnerabili, privilegiati e stigmatizzati, vicinissimi al centro del potere eppure segnati per sempre da una perdita inflitta al proprio corpo. Sacrificare una parte fondamentale della propria identità di uomo poteva garantire, in cambio, una vita lunga e prospera, stipendi elevati, una vecchiaia relativamente sicura e la possibilità di abitare al fianco del re. Ma tutto questo aveva un prezzo: sopportare dolori inauditi, test di resistenza disumani, umiliazioni quotidiane, sguardi di disprezzo e un destino che, spesso, si inscriveva nel corpo ben prima che il bambino diventasse adulto. Alla fine, la storia degli eunuchi coreani non è solo un capitolo curioso nella storia delle corti reali: è anche un modo per ricordarci quanto lontano possa spingersi una società pur di mantenere il controllo sulla purezza dinastica, sul potere e sul corpo dei suoi membri. E quanto, nella costruzione di un ordine politico, la linea tra privilegio e violenza sia spesso sottilissima.
