1 giugno 2025

Sposarsi nella Dinastia Joseon: amore, dovere e destini scritti sotto un velo rosso

 


Se guardi abbastanza K-Drama storici, prima o poi succede. Ti ritrovi a trattenere il fiato mentre una sposa, immobile e silenziosa sotto il suo velo rosso, attende l’arrivo del marito. Gli occhi bassi, le mani giunte, il cuore che non conosciamo. Dall’altra parte, lui: il futuro marito, rigido come la seta dei suoi abiti, avanza con lentezza sotto la pressione di centinaia di occhi e secoli di tradizione. È lì che mi sono chiesta: quanto c’era di vero? Quanto erano solenni – e insieme dolorosamente umani – quei matrimoni così diversi da ciò che oggi chiamiamo amore? Così ho deciso di scavare. E ho trovato un mondo.

Matrimonio nella Joseon: non due cuori, ma due famiglie

Nella Corea della dinastia Joseon (1392–1897), sposarsi non era una questione d’amore. O meglio, non era solo quello. Era un atto profondamente radicato nel confucianesimo, una delle Cinque Grandi Cerimonie di Stato. Un rito di passaggio, di alleanza e di ordine sociale. Sposarsi significava onorare i genitori, perpetuare il lignaggio, entrare nel giusto equilibrio tra yin e yang, tra dovere e armonia.

Eppure, in mezzo a tutta quella solennità, si nascondeva sempre un brivido: quello dell’incontro tra due sconosciuti, destinati a condividere un’intera vita dopo essersi scambiati solo tre inchini e un sorso di vino.

Le quattro tappe del matrimonio comune: da perfetti estranei a sposi per sempre

Per la gente comune, il matrimonio seguiva quattro grandi fasi:

  1. Euihon (의혼) – la trattativa matrimoniale. Famiglie, matchmaker e una rete fittissima di voci decidevano chi fosse degno di chi. Bastava una cattiva reputazione – vera o presunta – per far saltare tutto. L’amore? Un dettaglio. La buona apparenza, l’educazione e il casato contavano di più.

  2. Napchae (납채) – la proposta ufficiale. Un uomo della famiglia dello sposo portava la lettera di matrimonio, sigillata e legata con fili rossi e blu: i colori di yin e yang. Il tutto accompagnato da un’oca di legno, simbolo di fedeltà eterna. Da qui, si sceglieva anche la data più propizia per le nozze, tramite il confronto degli oroscopi dei futuri sposi.

  3. Nappye (납폐) – i doni. Arrivava il famoso ham: un baule colmo di sete, gioielli e semi portafortuna. In alcune zone, la madre della sposa apriva il baule davanti a tutti. E c’era persino una superstizione: il colore della stoffa estratta per primo rivelava il sesso del primo figlio.

  4. Chinyeong (친영) – la cerimonia nuziale vera e propria. Qui, in uno scenario che oggi i drama ci hanno reso familiare, lo sposo arrivava con un corteo, portando con sé l’oca, la veste e la promessa. Sotto gli occhi degli invitati e davanti a una tavola imbandita di simboli, gli sposi si inchinavano uno di fronte all’altra. Poi bevevano dallo stesso calice o da due metà di zucca seccata. Erano, da quel momento, un’unica cosa.

E la prima notte? Una cena formale. Se erano troppo giovani, nulla accadeva. Ma l’indomani, il ragazzo veniva “interrogato” dai parenti della sposa. Un rito goliardico che, a modo suo, scioglieva il ghiaccio.

E se eri della famiglia reale? Preparati a sei (o otto) tappe e zero spontaneità

Se per il popolo sposarsi era un affare importante, per i reali diventava un’impresa titanica. Tutto era amplificato: mesi di preparativi, uffici speciali, cerimonie da manuale.

La cosa più affascinante? La gantaek: la selezione della sposa reale. Centinaia di ragazze venivano valutate in tre fasi, come in un concorso. Dovevano essere perfette: né troppo alte, né troppo giovani, con visi armoniosi e provenienza nobile. Il cuore? Ancora una volta, un dettaglio.

Le vincitrici venivano portate in un palazzo separato, il byeolgung, dove restavano settimane a prepararsi per diventare regine. Non potevano più tornare a casa. I genitori le salutavano come se non fossero più figlie, ma rappresentanti della nazione.

Il giorno del matrimonio, il re (o principe ereditario) andava a prenderle. Non di persona, all’inizio: era troppo alto di rango. Ma con il tempo, anche lui cominciò a presentarsi. Insieme si inchinavano, bevevano, mangiavano. E poi iniziava una nuova vita… spesso vissuta da estranei che si rispettavano, ma non si conoscevano.

E le concubine? Un posto a corte, ma non nel cuore della storia

Le concubine reali erano considerate mogli secondarie. Venivano scelte tramite una selezione simile, ma il loro matrimonio era più semplice, con meno cerimonie e nessuna vera incoronazione. Una volta entrate a palazzo, dovevano inchinarsi a tutti, regina inclusa. Potevano portare figli reali, ma difficilmente avrebbero potuto chiamarsi regine.

Eppure, quante storie di K-Drama sono nate proprio da queste donne “secondarie” diventate protagoniste di amori impossibili?

Alla fine, era tutto scritto… ma forse anche un po’ sentito

Mentre leggevo e scrivevo tutto questo, mi tornavano in mente mille scene: la sposa silenziosa che piange da sola nella sua stanza, il principe che lancia uno sguardo veloce sotto il velo, il primo sorso di vino bevuto a occhi chiusi. Dietro la struttura rigida di quei rituali c’erano cuori vivi. Alcuni battevano per dovere. Altri hanno finito per amare davvero.

E mi sono chiesta: forse è questo che ci affascina ancora oggi. Non solo i costumi, i palazzi, le musiche solenni. Ma quella possibilità, anche nella Corea più antica, che tra due perfetti sconosciuti, un inchino e un calice possano davvero accendere una scintilla.

Una storia d’amore che nasce dove meno te l’aspetti. Proprio come in un drama.

Fonte:

  1. https://thetalkingcupboard.com/2016/11/15/wedding-and-marriage-in-joseon-part-1-historical-stuff/
  2. https://thetalkingcupboard.com/2019/01/21/wedding-and-marriage-in-joseon-part-2-confucian-style/
  3. https://thetalkingcupboard.com/2021/02/09/wedding-and-marriage-in-joseon-part-3-royal-style/

Nessun commento:

Posta un commento