24 dicembre 2025

UN VIAGGIO NEL CUORE DELLA MEDICINA COREANA

 


Ci sono temi che, più li esploro, più mi accorgo di quanto siano intrecciati con la storia profonda di un popolo. La medicina tradizionale coreana è uno di questi. È un universo che non si limita al corpo, né alla semplice idea di guarigione: è un percorso che attraversa la mente, lo spirito, le emozioni, la comunità, la terra, le radici. È un modo di guardare alla vita e alla fragilità umana che, in un certo senso, racconta la Corea più di mille libri di storia. La visione coreana della malattia, per secoli, è stata plasmata da un intreccio raffinato tra pratiche importate dalla Cina e tradizioni spirituali radicate nel territorio. La malattia non era mai vista come un elemento puramente fisico: era un disturbo dell’anima che trovava manifestazione nel corpo. Poteva nascere dentro, come un disordine emotivo o spirituale, oppure scaturire da un ambiente sbilanciato che spezzava l’armonia della persona con ciò che la circondava.

I medici dell’epoca prescrivevano erbe, rimedi naturali e metodi molto simili a quelli cinesi, ma sapevano bene che alcune condizioni richiedevano qualcosa di diverso. Quando le parole non bastavano, quando la sofferenza superava il corpo e si annidava nella memoria e nello spirito, allora intervenivano i mudang, gli sciamani coreani, custodi di un sapere comunitario antico. Le loro cerimonie, chiamate kut, erano momenti collettivi in cui le famiglie si riunivano per cantare, danzare, invocare gli spiriti e sciogliere nodi che nessun medico avrebbe potuto toccare. Il kut non era solo un rituale: era un luogo emotivo. Una parentesi in cui le persone potevano lasciar andare tutto quello che nella vita quotidiana erano costrette a trattenere. Gridare, piangere, ridere, liberarsi. Forse era proprio questa catarsi condivisa, unita al dialogo con gli spiriti, a creare l’energia di guarigione che tanti cercavano. Ogni regione, ogni villaggio, ogni famiglia aveva la sua forma di kut, perché ogni dolore e ogni storia richiedevano un rituale diverso.

E mentre i mudang custodivano la dimensione spirituale, gli yangban, la classe colta formata da studiosi e funzionari, si affidavano a testi medici cinesi e indiani, integrandoli nella cultura locale. La medicina di corte era destinata all’aristocrazia, e fu proprio in questo contesto che nacque una figura fondamentale: Heo Jun. Nel 1613, Heo Jun diede vita al Dongui-Bogam, venticinque volumi che divennero il pilastro della medicina coreana. La sua opera, a differenza di molti testi dell’epoca, non si limitava a copiare la tradizione cinese: integrava rimedi e conoscenze autoctone, rendendo la medicina più vicina al popolo. Non solo: spinto dal desiderio di aiutare anche chi non poteva accedere all’istruzione classica, decise di pubblicare parte dei suoi testi in hangul, gesto rivoluzionario che aprì la conoscenza ai più.

Il suo sistema si basava sulle tre forze fondamentali: Jung, la vitalità fisica; Gi, l’energia che muove la vita; e Shin, il nucleo dell’anima. Quando emozioni come rabbia, avidità o risentimento turbavano questo equilibrio, il corpo si ammalava. Le erbe, la moxibustione, l’agopuntura potevano lenire i sintomi, ma la guarigione vera richiedeva trasformazione interiore. La medicina non era solo cura: era cambiamento. Questa visione olistica continuò ad evolversi nel tempo. Nel 1894, un altro testo fondamentale vide la luce: il Dongui-Susae-Bowon, opera di Lee Jei-Ma. La sua filosofia, ispirata dalla tradizione cinese ma reimmaginata secondo sensibilità coreane, divideva mente e corpo in quattro sezioni la cui armonia determinava la salute del paziente. Il medico non poteva limitarsi a osservare il fisico: doveva comprendere il mondo interiore, il temperamento, i turbamenti emotivi, perché in essi si celava la radice della malattia.

Poi arrivò il Novecento, e con esso un’ondata di trasformazioni che rivoluzionarono il modo di curare. I missionari cristiani portarono con sé non solo la loro fede, ma anche conoscenze mediche occidentali. Nel 1885, il medico Horace Allen salvò la vita del principe Min dopo un attentato e, come ricompensa, ottenne il permesso di aprire il primo ospedale occidentale in Corea. Fu uno spartiacque: la medicina moderna iniziò a radicarsi. L’occupazione giapponese accelerò la diffusione del modello occidentale, fondato su pratiche mediche tedesche adattate. La scuola istituita dai giapponesi divenne poi la Scuola di Medicina dell’Università Nazionale di Seoul. Anche se dagli anni Trenta ci fu un ritorno di interesse verso la medicina orientale, questa non fu mai realmente abbracciata dalle autorità coloniali.

Eppure, nonostante modernizzazioni, invasioni e rivoluzioni culturali, la Corea non smise mai di custodire le sue radici. Oggi, mentre gli ospedali all’avanguardia si moltiplicano e la medicina contemporanea rappresenta l’approccio dominante, esiste ancora un mondo fatto di erboristeria, agopuntura e trattamenti orientali. Circa 100 ospedali, 11 scuole e 7.000 cliniche praticano la medicina tradizionale. Spesso convivono con strutture occidentali, condividendo pazienti e percorsi di cura, come due strade parallele che a volte si incrociano. E poi c’è tutta quella dimensione più quotidiana, concreta, affascinante e un po’ misteriosa degli ingredienti della medicina tradizionale. Quella che ti fa fermare davanti a un negozio di “health food” coreano e chiederti: che cos’è quella radice rugosa? Perché vendono quel pezzo di legno? E quel fungo stranissimo… davvero si mangia?

Molti alimenti hanno proprietà medicamentose. Il ginseng che infonde energia e rinforza il corpo. Le giuggiole. I semi di ginkgo. Ingredienti che entrano nelle zuppe più amate come il samgyetang, il brodo di pollo al ginseng, o nei tè terapeutici come lo ssanghwacha. E la lista potrebbe andare avanti all’infinito, perché la tradizione erboristica coreana è un universo di piante, radici, semi, funghi, animali, minerali. Non sempre è facile stabilire dove finisca l’alimento e dove inizi il medicinale, perché per la medicina coreana tutto passa attraverso la digestione: ogni rimedio, ogni cura, ogni equilibrio nasce da ciò che entra nel corpo e da come questo lo trasforma La medicina tradizionale coreana, chiamata hanuiyak, hanyak o hanbang, convive oggi con l’hyeondae uihak, la medicina moderna. Entrambe sono rispettate, entrambe fanno parte della vita delle persone. E la tradizione ha radici in testi secolari come il Dongui-Bogam e l’Hyangyak Jipseongbang, ma anche in nomenclature precise, in lessici che distinguono i rimedi per origine: vegetale, animale, fungina o minerale, e perfino per la parte della pianta utilizzata. Ogni ingrediente ha una storia, un nome sino-coreano che a volte differisce da quello d’uso comune, un ruolo nel grande mosaico della guarigione.

Molti di questi ingredienti compaiono anche nella vita quotidiana, mescolando mondi che in Occidente siamo abituati a separare. L’erboristeria non è un sapere improvvisato: è una professione rigorosa che richiede anni di studio e pratica. Esiste una varietà immensa di elementi, alcuni molto diffusi, altri rari o curiosi, altri ancora non più legali o in uso. Ma tutti raccontano un pezzo di questa tradizione che continua a vivere, nonostante il tempo e le trasformazioni. Forse è questo uno degli aspetti che più mi affascina: la capacità della Corea di essere due cose insieme. Di custodire le sue cerimonie sciamaniche e allo stesso tempo di fare ricerca medica d’avanguardia. Di raccogliere radici e funghi in un mercato e, appena girato l’angolo, trovare una clinica moderna con macchinari avanzati. Di restare ancorata alla sua storia, ma senza rinunciare al futuro.

E mentre osservo questo equilibrio, capisco una cosa: non esiste una sola Corea, ma tante. C’è quella che danza nei kut, quella che studia le energie dell’anima, quella che compila testi monumentali per unire scienza e spiritualità, quella che si affida al bisturi, quella che cerca nel ginseng un sostegno per affrontare l’estate. Ed è proprio questo intreccio a renderla così speciale: una bellezza complessa, stratificata, irriducibile. La medicina coreana non è solo medicina. È identità. È cultura. È memoria. È un modo di guardare all’essere umano come a un insieme indissolubile di corpo, emozioni, spirito e mondo. E forse è proprio questo il suo insegnamento più grande: per guarire davvero, bisogna ascoltare ogni parte di sé.

Fonti:

  • https://www.tota.world/article/150/
  • https://sesamesprinkles.home.blog/2021/12/22/vocabulary-medicine/

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