28 dicembre 2025

As You Stood By: quando la violenza domestica smette di essere uno sfondo

Ci sono drammi che si guardano per passare il tempo, e drammi che ti restano addosso. As You Stood By appartiene alla seconda categoria. Io l’ho visto tutto in un giorno solo, in apnea, con quella sensazione di nodo fisso alla gola che non se ne va nemmeno quando scorrono i titoli di coda. Non perché sia perfetto – anzi, di imperfezioni se ne potrebbero elencare diverse ma perché, per un buon tratto del suo percorso, osa guardare in faccia qualcosa che di solito viene tenuto ai margini: la violenza domestica. E lo fa con una lucidità e una ferocia emotiva che è difficile dimenticare. La sola performance di Lee You-mi basterebbe a giustificare l’esistenza di questo drama. Nel ruolo di Hui-su, vittima di abusi gravissimi, regge sulle spalle il peso di una storia che, in mani meno attente, sarebbe potuta diventare solo l’ennesima spettacolarizzazione del dolore femminile. Qui invece il dolore ha un corpo, un respiro rotto, una paura che ti entra nello stomaco. Sinceramente, spero davvero che le vengano riconosciuti tutti i premi possibili, perché raramente ho visto un’interpretazione tanto fisica e lacerante.


Due migliori amiche, una sola cosa in comune: la paura

Al centro di As You Stood By ci sono due migliori amiche che hanno imparato presto una lezione crudele: la violenza non è qualcosa che “succede agli altri”. Una cerca di scappare da un passato infestato dalla violenza domestica, cresciuta in una famiglia in cui il terrore era la normalità. L’altra cerca di fuggire dal presente: un matrimonio tossico, logorato da abusi che, dall’esterno, molti non vedono o fingono di non vedere. Quello che mi ha colpita è proprio questo doppio movimento: da una parte la violenza come memoria che non ti lascia mai, anche quando non ci sei più dentro; dall’altra la violenza come quotidiano, come cosa che accade tra le quattro mura di una casa apparentemente perfetta. Per circa cinque episodi, il drama è più che brillante nel restituire questo intreccio di paure, traumi e tentativi di sopravvivere. Ogni scena sembra costruita per farti sentire l’ansia, la claustrofobia, la disperazione di chi vive intrappolato in una dinamica di abuso. Non come concetto astratto, ma come esperienza che ti logora minuto dopo minuto.


La violenza domestica non abita solo nei quartieri “giusti” per soffrire

Una delle scelte più importanti di As You Stood By è quella di spostare la violenza domestica fuori dall’immaginario consueto. Quante volte, nei K-drama come in altri prodotti, la violenza familiare viene relegata ai contesti poveri, marginali, “problematici” nel senso più stereotipato del termine? Quartieri malfamati, famiglie in difficoltà economica, contesti segnati da una precarietà quasi folkloristica. Qui no, qui la violenza abita i piani alti, le case eleganti, le famiglie influenti. Qui gli aggressori hanno: potere, denaro, relazioni, e usano tutto questo come scudo per coprire i loro crimini. Non è un incidente, è un sistema. Le stesse persone che in pubblico parlano di “tutela delle vittime”, in privato insabbiano, minacciano, manipolano. Donne che tacciono solo perché imparentate con il carnefice, figure che tengono conferenze sugli abusi e poi difendono l’abusante in nome della reputazione, una poliziotta che consiglia di ritirare la denuncia perché “tanto non c’è giustizia”. Il drama mette in luce una verità scomoda: guardare e tacere è una forma di violenzaNon è solo codardia, non è solo omissione: è un crimine morale che si affianca a quello fisico. E questa è una delle parti che mi ha fatto più male, perché non riguarda solo la Corea, ma ogni società in cui la facciata conta più della vita di chi subisce.


“Perché non se ne vanno?” – La domanda sbagliata

C’è una scena, all’inizio, che secondo me definisce il tono dell’intera serie. Eun-su chiede a Hui-su perché non abbia mai provato ad andarsene. È la domanda che tutti, prima o poi, abbiamo sentito (o magari fatto) parlando di violenza domestica: “Perché non se ne vanno?” Hui-su la ribalta in un secondo: come fa Eun-su a sapere che non abbia provato? Ed è lì che il drama ti costringe a fare un passo indietro. Perché non solo scopriamo che Hui-su ha provato più volte a fuggire, ma vediamo come ogni tentativo sia stato soffocato: quando cerca di lasciare il Paese, viene costretta a tornare perché Jin-pyo minaccia sua madre; quando prova a denunciare, viene intimidita dalla sorella di lui; ogni volta che tenta di respirare un po’ più forte, qualcuno le stringe di nuovo la catena. Mi è piaciuto moltissimo che la serie insista su questo punto: non è sempre così semplice andarseneNon basta il coraggio, non basta la volontà. Ci sono ricatti, minacce, vincoli economici, figli, genitori, reputazioni, sistemi legali che non funzionano. E ci sono persone intorno che, invece di aiutare, decidono di proteggere l’aggressore. As You Stood By ci sbatte in faccia il fatto che la domanda giusta non è “Perché non se ne vanno?”, ma “Quante volte ci hanno provato, e quante volte il mondo ha permesso che venissero ricacciate indietro?”.


Sopravvissute, non solo vittime

Uno degli aspetti più belli della serie è che non riduce la violenza domestica a una sola storia, un solo volto, un solo tipo di ferita. Non c’è solo Hui-su. Ci sono: la madre di Eun-su, anche lei intrappolata in una famiglia violenta; la stessa Eun-su, cresciuta in un ambiente in cui l’abuso è stato la cornice della sua infanzia, pur senza aver subito violenza fisica diretta. La serie ci ricorda che si può essere sopravvissute a qualcosa, anche se non si hanno lividi visibili sulla pelle. Le cicatrici emotive, i meccanismi di adattamento, la tendenza a restare in relazioni sbagliate “perché almeno non è come prima” sono tutte conseguenze reali, profonde, difficili da spezzare. E anche quando Eun-su sceglie il silenzio, tace sugli abusi subiti da sua madre per proteggere il fratello e tenere insieme una famiglia già a pezzi, tace sugli abusi del suo ricco cliente per non perdere il lavoro, quel silenzio non è mai neutro. È un silenzio portato sulle spalle come una strategia di sopravvivenza, ma pur sempre un pezzo di quella catena di complicità che permette alla violenza di continuare.


Il silenzio che protegge l’aggressore

Se da un lato c’è il silenzio che nasce dalla paura, dall’altro c’è il silenzio che nasce dall’ipocrisia. Quello di Jin-young e di sua madre, per esempio. Donne che conoscono perfettamente gli abusi di Jin-pyo su Hui-su, ma scelgono di ignorarli. Non solo: li coprono, li minimizzano, li giustificano, tutto in nome dell’apparenza, della promozione, del prestigio sociale. E qui il drama colpisce duro: queste donne parlano in pubblico di “preoccuparsi delle vittime”; costruiscono un’immagine di sé come alleate, professioniste, figure sensibili al tema; ma in privato sacrificano una vittima in carne e ossa sull’altare della facciata. È un ritratto amaro, che però ha il pregio di essere onesto. Perché l’epidemia di violenza domestica non esiste solo grazie agli uomini che la esercitano, ma anche grazie a tutte le persone, uomini e donne, che scelgono di proteggere il violento invece della sopravvissuta.


Una serie che ti fa arrabbiare (e per fortuna)

Mi sono ritrovata ad arrabbiarmi quasi in ogni scena. Arrabbiata con Jin-pyo, ovviamente. Arrabbiata con chi sapeva e taceva. Arrabbiata con chi minimizzava, con chi diceva “è una questione privata”, con chi usava la parola “famiglia” per coprire il sangue. Questa rabbia, però, è la prova di quanto fossero potenti la scrittura e la recitazione nella prima metà della serie. Le emozioni sono crude, dolorosamente reali. Ogni secondo ti tiene con il fiato sospeso, ma non con il semplice trucco del colpo di scena: ti tiene sospeso perché temi per la vita, per la dignità, per la possibilità stessa di salvezza dei personaggi. La violenza che vediamo non è mai gratuita. Ci viene mostrato abbastanza da comprendere la brutalità della vita di Hui-su, ma senza compiacimento. Il focus non è sul “quanto” viene picchiata, ma su cosa significa vivere ogni giorno sapendo che qualcosa di terribile può succedere in qualsiasi momento, e che nessuno, nemmeno le istituzioni, è davvero dalla tua parte.


Quando il K-drama torna sulla “retta via” morale

E poi, come spesso accade, arriva la seconda metà. E lì As You Stood By fa quello che tantissimi K-drama fanno: si rimette in riga rispetto alla “regola morale”. L’ingiustizia viene risolta in maniera pressoché impeccabile: punizioni, cadute in disgrazia, momenti catartici in cui finalmente “il male paga”. È una conclusione che conforta: il pubblico trova una forma di risarcimento emotivo, il sistema narrativo si chiude, le colpe sembrano trovare una collocazione ordinata. Ma c’è un prezzo. Perché nel momento in cui Jin-pyo muore prima di affrontare davvero delle conseguenze legali, il messaggio cambia. L’uomo che ha abusato per anni della moglie esce di scena senza scontare una pena in prigione, senza attraversare responsabilità concrete dentro il sistema giudiziario. Al centro, come antagoniste della seconda metà, restano la sorella e la madre: le donne della sua vita. Da un lato, è quasi fin troppo realistico, lo vediamo spesso anche nella cronaca: un uomo commette un crimine e i riflettori finiscono sulle donne intorno a lui (“Perché non l’hanno fermato?”, “Perché non hanno detto niente?”). Dall’altro lato, però, indebolisce un po’ il messaggio. Perché se sposti quasi tutta la colpa narrativa sulle figure femminili che hanno taciuto, rischi di far scivolare sullo sfondo il fatto che il vero colpevole è lui. Non fraintendetemi: la sorella e la madre ottengono quello che meritano, e non mi dispiace affatto vederle cadere dal piedistallo. Ma resta quella sensazione strana addosso: per una serie che parla di un uomo che abusa della moglie, è curioso che, alla fine, il focus dell’odio e della punizione finisca soprattutto sulle donne.


Non vediamo mai due “assassine”, ma due donne schiacciate

Un’altra cosa che apprezzo è che, nonostante la svolta più melodrammatica e narrativa, la serie non trasforma mai Hui-su e la sua amica in due efferate assassine da manuale. Anche quando la storia imbocca binari più estremi, rimane sempre chiaro, lampante, cristallino il contesto: quello che si vede sono due donne disperate, logorate da anni di violenza e di silenzio, che arrivano a un punto di rottura. La serie, pur con tutte le sue contraddizioni, non ti invita a giudicarle dall’alto, ma a chiederti come siano arrivate fin lì, e chi abbia reso inevitabile quella spirale. È qui che As You Stood By resta importante, anche quando cede alla tentazione del melodramma: perché non perde mai davvero di vista il cuore del suo discorso. Il centro è sempre lo stesso: un matrimonio tossico; un’epidemia di violenza domestica contro le donne; una società che preferisce la facciata alla protezione delle sopravvissute; un sistema che chiede alle vittime di essere perfette, lucide, razionali, mentre agli aggressori è concesso tutto, fino all’ultimo.


La verità che il finale non può sistemare

Come molti K-drama, As You Stood By alla fine sembra dirci: “Guarda, la giustizia esiste. Magari arriva tardi, ma arriva. I cattivi pagano, il sistema – in qualche modo – si aggiusta”.
È una favola morale, e in quanto tale funziona sul piano emotivo: chi ha sofferto vede almeno una parte del proprio dolore riconosciuto. Ma la realtà è diversa. Nella vita vera, spesso i carnefici non pagano davvero, le sopravvissute portano addosso traumi che nessuna sentenza cancella; sia innocenti che colpevoli devono convivere con conseguenze che vanno molto oltre qualsiasi giustizia “programmata”. E forse è proprio questo scarto tra fiction e realtà a fare più male quando spegni lo schermo. Non perché la serie sbagli a offrire una chiusura, ma perché ti ricorda, per contrasto, quante storie simili non avranno mai la stessa “coerenza narrativa”.


Perché questo drama fa male, ed è giusto così

Alla fine della maratona di As You Stood By mi sono sentita non solo triste, ma quasi in lutto. Non tanto per i personaggi, che pure restano impressi, quanto per tutte le persone reali che subiscono questo tipo di abuso ogni giorno e che non avranno mai un palcoscenico, una sceneggiatura o un finale “funzionante” da offrire al mondo. È un drama pieno di emozioni intense, di secondi che ti tengono col fiato sospeso, ma soprattutto è un drama che non ti lascia indifferenteTi mette davanti domande scomode: quante volte abbiamo giudicato qualcuno chiedendoci “Perché non se n’è andata?”; quante volte abbiamo fatto finta di non vedere situazioni che “non ci riguardavano”; quante volte abbiamo difeso la facciata, la famiglia, il lavoro, la reputazione, e non la persona ferita. As You Stood By non è una serie perfetta. Ma è una serie necessaria. Perché osa dire che la violenza domestica non è un incidente privato, ma un fenomeno strutturale. Che il silenzio non è neutrale. Che la parola “vittima” non è una condanna alla passività, ma una condizione da cui ripartire per riconoscere la forza e la resistenza di chi sopravvive. E soprattutto, ci ricorda una cosa semplice e fondamentale: non basta “stare a guardare”. Bisogna decidere da che parte stare.

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