30 dicembre 2025

cibo (ripugnante) mangiato solo in corea

 


La parola “ripugnante” fa scena nei titoli, è perfetta per attirare click.  Per questo, mentre scrivo di quelli che vengono spesso etichettati come “weird foods”, ci tengo a mettere subito un paletto: non sono qui per ridere di un piatto o giudicare un popolo. Sono qui per raccontare cibi che, visti con occhi esterni, fanno alzare più di un sopracciglio, ma che dentro il loro contesto hanno un senso profondo, storico, affettivo, simbolico. Parto da qui proprio perché credo che sia importante ricordarselo mentre attraversiamo la Corea con il naso arricciato: se non sei nato in quel contesto, certi sapori ti prendono a schiaffi. Ma questo non dà a nessuno il diritto di mancare di rispetto.

Quello che voglio fare, allora, è portarvi a spasso tra alcuni dei cibi coreani più strani, estremi, curiosi, controversi o semplicemente “diversi” rispetto a ciò che siamo abituati a mettere nel piatto. Alcuni vivono di odori che sembrano un’aggressione, altri giocano con l’idea di “mangiare tutto” dell’animale, altri ancora sfidano tabù potentissimi come quello sul cane. In mezzo ci sono insetti, sangue, interiora, zampe, tentacoli ancora vivi, ma anche yogurt all’insalata, pane a forma di pupù e pizze che sembrano un’intera cena impilata su una base di impasto. Il filo rosso che li tiene insieme? L’idea di fondo che il cibo non è solo nutrimento: è identità, memoria, ironia, sopravvivenza, resistenza culturale.

Il mare che si muove nel piatto: polpo vivo e creature “danzanti”

Uno dei piatti che più spesso finiscono nelle classifiche dei cibi coreani “da brivido” è il sannakji (산낙지): piccoli polpi vivi, tagliati a pezzetti e serviti immediatamente, quando i tentacoli ancora si muovono. I bocconcini lucidi, conditi con un filo di olio di sesamo, continuano ad agitarsi sul piatto e, una volta in bocca, le ventose si attaccano alle gengive, al palato, alla lingua. Bisogna masticare bene, senza farsi prendere dal panico, perché quei tentacoli hanno una forza sorprendente. In Corea il polpo “piccolo” viene chiamato 낙지 (nakji), distinto dal più grande 문어 (muneo). Il nakji vive nelle ampie distese fangose (갯벌, gaetbeol) delle coste sud-occidentali, quelle distese di fango che si scoprono con la bassa marea e che rappresentano un ecosistema rarissimo. Da lì arriva questo polpo minuto che, servito ancora “vivo”, diventa una prova di coraggio ma anche un piatto energizzante, spesso accompagnato da soju o makgeolli, i due grandi compagni di molte serate coreane.

Accanto al sannakji, la Corea propone tutto un piccolo universo di creature marine servite crude: gaebul (개불), cetrioli di mare, ascidie (sea squirt). Il gaebul, in particolare, è noto anche come “penis fish” o “dog penis” per la forma e per il nome stesso, che in coreano richiama esplicitamente l’anatomia maschile. Viene venduto nei mercati del pesce intero, poi tagliato a fettine e servito crudo, con una consistenza gommoso-elastica e un sapore molto pulito, quasi “di mare e niente altro”. Per qualcuno è come mangiare “un elastico saporito”, per altri è un afrodisiaco, ma quasi tutti concordano sul fatto che il gusto sia molto meno scioccante dell’aspetto. In alcuni racconti, il gaebul viene descritto persino come una sorta di “pasta carnosa che danza nel piatto”, soprattutto quando è appena tagliato e ancora si muove leggermente. Non è un caso che molte di queste esperienze si vivano nei grandi mercati tradizionali come il Gwangjang Market, dove il confine tra cibo, spettacolo e rito collettivo si sfuma. Per chi ama il mare, questi piatti non sono solo una prova di stomaco, ma anche un modo radicale di incontrare “il gusto vero” del mare, senza filtri, senza cotture, quasi senza condimenti.


Quando è l’odore a mangiare te: skate fermentato e “zuppa di cadavere”

Se c’è un punto in cui le cucine nord-orientali si incontrano, è nella capacità di spingersi oltre i limiti dell’odore. La Corea non fa eccezione. Uno dei simboli assoluti è lo skate fermentato, il famoso 홍어 (hong-eo) e la sua versione a crudo 홍어회 (hongeo-hoe). Lo skate è un pesce particolare: non urina come molti altri, ma elimina l’acido urico attraverso la pelle. Quando viene fermentato, questa caratteristica si traduce in un odore pungentissimo, che ricorda l’ammoniaca in maniera molto diretta. L’odore non arriva “di lato”: ti investe in faccia e ti riempie occhi, naso, gola tutto insieme.

Ci sono diversi livelli di fermentazione, da quello “medio” fino al “ma cosa ti è passato per la testa?”. Più il pesce matura, più la carne si scurisce, virando verso il grigio-bruno e più il gas sprigionato diventa aggressivo. C’è chi racconta perfino di essersi trovato con l’interno della bocca irritato dopo aver affrontato una versione particolarmente estrema. Nonostante questo, c’è un pubblico fortissimo che lo adora, soprattutto nel sud del Paese e in particolare nella regione dello Jeolla-do, dove avere l’hongeo-hoe sul tavolo, in certe occasioni, è considerato un vero onore.

Spesso lo skate fermentato viene servito in abbinamento a kimchi ben stagionato e maiale al vapore (samgyeopsal), in quella combinazione nota come 홍어 삼합 (hongeo samhap), completata da makgeolli. L’idea è che gli altri sapori, forti ma “più familiari”, aiutino ad ammortizzare il colpo dell’ammoniaca. Non tutti i coreani, però, lo sopportano: è uno di quei piatti divisivi, che molti rispettano più come tradizione che come reale piacere personale. Un’altra pietra miliare del capitolo “odori estremi” è la 청국장찌개 (cheonggukjang jjigae), una zuppa a base di pasta di soia fermentata, talmente intensa da essersi guadagnata il soprannome di “dead body soup”, la “zuppa del cadavere”. Qui il protagonista è il cheonggukjang, una pasta ottenuta da fagioli di soia bolliti e poi fermentati. Quando questa pasta entra nel brodo caldo, l’odore si amplifica e sembra avvolgere la stanza.

C’è un episodio famoso: un gruppo di studenti coreani, mentre cucinava cheonggukjang in Germania, ha allarmato i vicini al punto da far chiamare la polizia, convinti che in casa ci fosse qualcosa o qualcuno in decomposizione. Invece era “solo” un piatto tradizionale. Alla base, però, c’è una zuppa ricca e saporita, con cipollotti, aglio, peperoncino, spesso servita con riso e altri contorni, molto nutriente e piena di proteine. Chi la ama la considera un comfort food quasi terapeutico; chi la odia, semplicemente esce di casa quando la si cucina.


Insetti, sangue e interiora: la fame non spreca nulla

Per capire molti di questi piatti bisogna ricordare un pezzo di storia: le decadi in cui la Corea era povera, devastata dalla guerra, dalle dittature, con salari bassissimi e una popolazione che doveva far fruttare ogni briciola di ciò che aveva. Un esempio perfetto è 번데기 (beondegi), le pupe del baco da seta. Negli anni ’60 e ’70 il governo spingeva moltissimo sull’industria tessile: i bachi venivano allevati in quantità enormi, e ciò che rimaneva diventava automaticamente una possibile fonte di proteine a basso costo. Per molta gente, soprattutto lavoratori manuali e famiglie a reddito basso, quelle piccole “capsule” marroni erano un modo per riempire lo stomaco e acquisire energie senza spendere troppo. Per i bambini, le beondegi erano uno snack da strada venduto in coni di carta (spesso ricavati da vecchi giornali), morbide e un po’ gommose, con un sapore salato e leggermente “nocciolato”. Per gli adulti, erano anche un ottimo anju, un accompagnamento da bevuta, prima nei bar di quartiere, oggi sempre più nelle case: le larve, infatti, si possono comprare anche in lattina, pronte da scaldare. Con il tempo è diventato più raro trovare il classico venditore ambulante in strada, ma il piatto continua a sopravvivere, soprattutto come “sapore dell’infanzia” e sfida per chi arriva dall’estero.

Sempre legato alle parti “meno nobili” dell’animale c’è il grande mondo delle interiora e del sangue. La 순대 (sundae) è uno dei piatti di strada più iconici: una salsiccia ottenuta riempiendo intestini di maiale o manzo con sangue, riso, verdure, talvolta noodles. In alcune varianti più “rustiche” si parla di 피순대, con una componente ematica ancora più accentuata. Una volta cotta al vapore, la salsiccia viene affettata e servita con sale o altre salse da intingere, spesso accanto ad altri pezzi come fegato, polmone o utero di maiale. Chi la guarda da fuori vede “solo” intestino e sangue e si blocca. Chi la conosce la associa alla scuola, agli spuntini serali, alle chiacchiere con gli amici davanti a un piatto fumante. Esiste anche la versione in zuppa, la 순댓국 (sundae-guk), dove i pezzi di salsiccia finiscono in un brodo caldo, perfetto nelle giornate fredde.

Il sangue ritorna nella 선지 해장국 (seonji haejangguk), una zuppa tradizionale che abbina sangue di bue coagulato, cavolo, cipollotti, germogli di soia e olio di sesamo in un brodo versato su una ciotola di riso. È considerata un classico rimedio post-sbronza, ma anche un piatto robusto da colazione o brunch: un modo per “rimettere insieme i pezzi” dopo una notte pesante o per affrontare una giornata di lavoro. Sempre nel regno delle interiora troviamo la 내장탕 (naejangtang), una zuppa a base di intestini di maiale o manzo. Il loro odore forte richiede una preparazione accurata, lunga bollitura con verdure come carote e cipollotti e spezie varie, fino a costruire un brodo dal sapore deciso ma “arrotondato”. In Corea viene vissuta come un cibo-ripresa, qualcosa che “ridà energia” e scalda, servito in genere a pranzo o cena con una scodella di riso bianco.

Poi c’è la versione “alla griglia” del rapporto con le interiora, come la 곱창 (gopchang), le budella di manzo o maiale tagliate a rondelle, marinate e grigliate su piastre roventi in tavoli rotondi, condivisi in compagnia. È un piatto che mette alla prova non solo chi mangia, ma anche i muscoli della mascella: la consistenza è decisamente tenace, e dopo un po’ si ha davvero la sensazione di aver fatto un piccolo “allenamento facciale”. Di solito arriva in tavola insieme a cipolle, aglio, peperoncini, funghi e salse piccanti, con soju al seguito. Accanto alle budella, ci sono altri “pezzi” spesso considerati di scarto altrove ma qui trasformati in piatti a sé:

  • 닭똥집 (dakttongjip), i ventrigli di pollo, letteralmente “la casa della cacca del pollo” (dak = pollo, ttong = escremento, jip = casa). In realtà non c’è nulla di fecale nel piatto: si tratta della parte muscolare del tratto digestivo, saltata in padella, molto masticabile e popolarissima come contorno da bevuta o da mangiare con una ciotola di riso, soprattutto nelle giornate fredde o quando ci si sente un po’ giù di energia. In Corea gli si attribuiscono anche virtù benefiche per la pelle e per la ripresa dopo le sbronze.

  • 돼지 껍데기 (dwaeji kkeopdegi), la cotenna di maiale. Prima viene bollita per ammorbidirla, poi marinata in salsa di soia, zucchero e spezie, infine grigliata finché non diventa croccante. Anche questa finisce spesso al centro del tavolo come spuntino croccante da condividere, soprattutto accompagnando l’alcool.

In questo mosaico di pezzi “difficili” rientra anche la 선지 해장국, la zuppa di sangue coagulato, e persino piatti come il Seonji Haejangguk vengono raccontati come “piatti di tutti i giorni” che però, agli occhi di chi non è abituato, sembrano usciti da un laboratorio di anatomia.


Zampe, piedi e cartilagini: il lato crunchy del comfort food

Se saliamo un po’ lungo la gamba dell’animale, troviamo altre due star della cucina “strana” coreana: 족발 (jokbal) e 닭발 (dakbal). Il jokbal sono i piedi di maiale cotti a lungo in un brodo aromatico con porri, salsa di soia, zenzero, zucchero, vino di riso. Una volta cotti, i piedi vengono disossati, affettati e serviti su un grande piatto, pronti per essere avvolti in foglie di lattuga con salse, aglio, verdure. La consistenza è gelatinosa, ricca di collagene, e non è un caso che molti associno il piatto alla salute della pelle e ai rimedi post-sbornia. È un grande classico delle serate alcoliche: si mangia, si beve, si chiacchiera, si continua a staccare fettine finché il piatto non è vuoto. A Seoul esiste perfino una “via del jokbal”, dove si susseguono locali uno dopo l’altro dedicati quasi solo a questo.

Il dakbal, invece, sposta l’attenzione sulle zampe di pollo. Vengono bollite o cotte in un brodo ricco di zenzero, aglio, cipolla, pasta di peperoncino e poi servite avvolte in una salsa rossa che è fuoco liquido. Ci sono descrizioni che parlano di occhi lucidi, lacrime che scendono, persone che ridono e soffrono allo stesso tempo mentre sgranocchiano ossicini minuscoli, completamente avvolti dalla piccantezza. C’è chi lo vive come un rito di passaggio: se reggi il dakbal, puoi reggere qualsiasi cosa. In più, proprio come per il jokbal, c’è l’idea del collagene “amico” delle articolazioni e della pelle, che rende queste zampe piccanti non solo uno sfizio sadico, ma anche, almeno nella credenza popolare, un piccolo investimento sulla salute.


Sangue, riso e una gag universitaria: la storia della sundae

La sundae merita quasi un capitolo a parte, perché è uno di quei piatti che oscillano tra “orrore iniziale” e “amore incondizionato”. A metà tra il sanguinaccio e l’haggis, la sundae tradizionale riempie l’intestino con un impasto di sangue, riso, verdure, talvolta vermicelli di patata dolce, che viene poi cotto al vapore e affettato. È una delle merende da strada più economiche e diffuse, soprattutto tra i giovani: un cono o un piattino di sundae intinta nel sale o in salse speziate e la fame è sistemata.

C’è anche un piccolo aneddoto universitario che gira: un professore coreano, in anni di studi negli Stati Uniti, entra nella mensa dell’università dell’Iowa, vede scritto “sundae” nel menu e, preso dalla nostalgia di casa, corre a ordinarlo convinto di trovare la sua amata salsiccia di sangue. Si vede invece servire una coppa di gelato, il classico “ice cream sundae” occidentale. In mano ha un dessert, in testa ha un piatto di interiora. Il cortocircuito linguistico è talmente perfetto che sembra una barzelletta, ma racconta benissimo quanto possa essere diverso quello che immaginiamo quando leggiamo una parola.


Zuppe “estreme”, hangover cure e “cibo energia”

Molti di questi piatti hanno in comune una cosa: non sono pensati per stupire il turista, ma per rimettere in piedi il corpo. La già citata Seonji Haejangguk, con il suo sangue di bue coagulato e le verdure, è un esempio chiarissimo: un piatto sostanzioso, che si mangia spesso al mattino o a metà giornata, ideale per chi ha bevuto troppo o per chi deve affrontare una giornata pesante. Viene servito con kimchi, riso e quell’idea sottile che “dentro questa ciotola c’è il segreto della ripresa”. Lo stesso vale per la naejangtang, la zuppa di intestini, vissuta come comfort food che “ridà energia” quando ci si sente svuotati o stanchi, o per il già citato gopchang alla griglia, proposto spesso come cibo per “recuperare le forze”. E, ancora una volta, anche le beondegi rientrano nella stessa logica: proteine a basso costo, tanto da essere state presentate come un’anticipazione di quel futuro in cui, forse, tutti finiremo a mangiare insetti per sostenere il pianeta.


Cavalli, cani e tabù: dove il cibo tocca la morale

Ci sono poi piatti che non sono tanto difficili da affrontare per gusto, quanto per peso simbolico. Il primo è la 말고기 (mal-gogi), la carne di cavallo, soprattutto quella cruda servita a Jeju. Qui, da oltre 700 anni, dai tempi delle invasioni mongole, il cavallo fa parte della storia dell’isola non solo come animale da lavoro ma anche come fonte di carne. La mal-gogi viene servita in diverse forme: cruda, alla griglia, in stile “sushi” su riso. È considerata una carne molto “sana”: meno grassa del manzo, con un contenuto lipidico ridotto a circa un terzo, grassi insaturi che si assorbono velocemente, alta in proteine, ricca di acidi grassi come gli omega-3 e l’acido linolenico. Accanto a queste proprietà nutrizionali, circolano anche credenze più simboliche: l’idea che “renda più forti”, che trasferisca qualcosa della forza del cavallo a chi la mangia. A Jeju c’è persino un modo di dire: “Il manzo non basta per un pasto, la carne di cavallo sì”.

Ancora più delicato è il discorso sul 보신탕 (bosintang), lo stufato di carne di cane. È un piatto controverso in Corea e famigerato all’estero, tanto da aver contribuito a costruire una certa immagine negativa del Paese. In realtà, non è un piatto comune: è più facile trovarlo in campagna che in città, ed è associato soprattutto a una clientela maschile più anziana, che vi attribuisce poteri di resistenza, virilità, “stamina”, in una logica simile a quella che in altri contesti porta a consumare corna di rinoceronte o altri prodotti di origine animale. Allo stesso tempo, nella società coreana contemporanea esiste un movimento molto forte che si batte per il salvataggio dei cani e contro il loro consumo, e sempre più persone considerano il bosintang qualcosa da superare. Dal punto di vista legale, la situazione è stata a lungo ambigua: il consumo non era esplicitamente vietato. Ma si è arrivati al punto che, nel 2025, è stata approvata una legge che prevede il graduale abbandono del consumo di carne di cane nei prossimi anni. È un passaggio che non cancella dall’oggi al domani una pratica storica, ma che racconta una società che sta cambiando e rinegoziando il proprio rapporto con gli animali, in particolare con quelli che ormai vengono vissuti più come membri della famiglia che come risorse alimentari.


Nord e Sud: noodle freddi e vongole alla benzina

Quando si parla di cibo coreano “strano”, in genere si pensa al Sud, ma anche il Nord ha le sue particolarità. La cucina nordcoreana, in generale, risulta meno piccante e più semplice, con un uso più marcato di cereali e verdure rispetto al Sud. Alcuni piatti sono condivisi, come il kimchi o il bulgogi, ma altri sono diventati quasi simboli della parte settentrionale della penisola, come i 냉면 di Pyongyang, noodle freddi serviti in un brodo limpido, spesso citati come orgoglio gastronomico locale.

Poi ci sono le “petrol clam barbeque”, vongole cucinate letteralmente con la benzina, che si possono assaggiare, per esempio, a Nampo. Le conchiglie vengono disposte a terra, irrorate di carburante e date alle fiamme. Il fuoco brucia il carburante e cuoce le vongole, che non mantengono il sapore della benzina. L’idea stessa di “mangiare qualcosa che è stato cotto con il petrolio” fa gelare il sangue a molti di noi, ma per chi lo vive dall’interno è semplicemente un metodo di cottura spettacolare da accompagnare, anche qui, con una bottiglia di soju.

Pesci velenosi, noodle crudi e altre eccentricità moderne

Non poteva mancare il capitolo sui pesci velenosi. In Corea esiste una zuppa chiamata 복지리 (bokjili), preparata con pesci palla simili a quelli del famoso fugu giapponese. In Giappone il loro consumo è rigidamente regolamentato: anni di formazione, licenze, prezzi elevati. In Corea, pur essendo consapevoli della presenza di potenti neurotossine, il clima è più rilassato: il bokjili è una zuppa di pesce palla con verdure, erbe e spezie, dal sapore delicato, con una carne morbidissima, quasi “soffice”, che si trova soprattutto nelle zone costiere a prezzi molto più accessibili del fugu. Il rischio rimane parte del fascino, ma l’esperienza quotidiana lo normalizza.

Accanto a tutto questo mondo “tradizionale”, ci sono poi le stranezze contemporanee, figlie più della creatività pop e del marketing che della fame:

  • Sandwich alla frutta (과일 샌드위치): una montagna di frutta, arance, kiwi, fragole e altro, incastrata tra due fette di pane soffice, cementata da panna montata. Per chi è abituato a vedere il panino come territorio di formaggi e salumi, è quasi una profanazione; in Corea riempie gli scaffali dei convenience store, a metà tra dessert e snack veloce.

  • Pizza coreana (피자): non tanto per la base, quanto per i topping. Mais onnipresente, patatine fritte, broccoli, maionese a fiumi, sottaceti, panna montata, gambe di calamaro, frutta fresca, pasta… Esistono pizze che sembrano un’intera cena sopra un disco di impasto, con abbinamenti che farebbero impallidire qualsiasi napoletano doc. In mezzo a queste bombe, però, esistono anche varianti davvero buone, come la pizza al bulgogi o con manzo alla griglia e gamberi.

  • Poop latte & poop bread (장미라떼 & 똥빵): a Seoul, in un centro commerciale artistico a Insadong, esiste un locale dove il tema è la pupù. Si può prendere un pane a forma di emoji-fecale ripieno di cioccolato, bere un latte decorato in tazza a forma di mini-water, o perfino mangiare il curry servito in una ciotola a forma di toilette alla turca. Tutto rigorosamente instagrammabile, pensato più per ridere e scattare foto che per “spaventare” davvero.

  • Yogurt all’insalata (요거샐러드): immaginate uno yogurt che al suo interno, invece che solo frutta, ospita pezzi di verdure e ortaggi. Versioni arancioni con zucca, carote, mais e ananas; versioni verdi in cui kiwi e mela convivono con asparagi e sedano. L’idea è quella di una colazione sana e “color coordinated”, dove più che il gusto conta la palette vitaminica.

Sono esempi di come la categoria “weird food” oggi abbracci tanto la tradizione della miseria e del lavoro, quanto il gioco post-moderno con forme, simboli e tabù.


Un altro modo di chiedersi “cos’è davvero ripugnante?”

Alla fine di questo viaggio, la domanda che mi porto dietro è sempre la stessa: che cosa stiamo giudicando davvero quando diciamo che un cibo è “ripugnante”? Molti dei piatti coreani che ho raccontato nascono da anni di povertà, di guerra, di necessità di usare tutto: insetti avanzati dall’industria della seta, interiora che in altri contesti finivano nella spazzatura, sanguinacci diventati street food, zuppe pensate per rimettere in piedi un corpo stanco dopo l’alcool o dopo una giornata nei campi o in fabbrica. Altri, come il bosintang o la carne di cavallo, aprono discorsi etici molto complessi: dove finisce la “tradizione” e dove inizia il bisogno di cambiare, quando i valori di una società evolvono?

Altri ancora ,yogurt all’insalata, poop latte, pizza alla coreana, sono figli di una Corea contemporanea che gioca con la propria immagine, con l’assurdo, con l’estetica del “mai visto”, perfetta per i social e per un pubblico che cerca esperienze sempre più particolari. Posso non volere nel mio piatto lo skate fermentato a livello “che ti spellicola la bocca”, posso attraversare la strada quando sento odore di beondegi, posso decidere che un certo piatto non fa per me. Ma posso farlo senza deridere chi, in quel gusto, ci trova casa, memoria, affetto, storia. Forse il vero passo avanti sta proprio qui: smettere di usare “ripugnante” come giudizio assoluto e farlo diventare solo la descrizione onesta di una distanza culturale, che possiamo scegliere se ridurre, assaggiando, o semplicemente rispettare da lontano.

fonti: 

  • https://inmykorea.com/weird-korean-foods
  • https://www.90daykorean.com/10-unusual-korean-foods-for-the-daring/
  • https://www.ivisitkorea.com/most-unusual-korean-delicacies/
  • https://laseoulite.substack.com/p/repugnant-foods-consumed-only-in


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