24 maggio 2025

La piramide di Joseon: un tuffo tra classi, drammi e nobiltà

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Non so voi, ma ogni volta che mi butto in un drama storico (sageuk, per gli amici), finisco sempre per cadere in un tunnel senza fondo fatto di ricerca storica compulsiva, notti insonni e mille pagine di Wikipedia aperte insieme. È come se questi drama accendessero un interruttore nella mia testa: quello della curiosità storica. E il punto è che non riesco a spegnerlo.

Dopo Tree with Deep Roots, che ho visto l’anno scorso, una domanda ha iniziato a tormentarmi: com’era organizzata davvero la società durante la dinastia Joseon? Perché sì, nei drama vediamo nobili vestiti in seta che si inchinano con eleganza e popolani che si rincorrono tra le bancarelle del mercato... ma cosa c’era dietro a tutto questo?

Spoiler: tanto. Tantissimo. Più di quanto avrei mai immaginato. E così, armata di tè caldo, sottotitoli e passione, ho fatto il mio piccolo viaggio nella stratificazione sociale della dinastia Joseon. E oggi vi ci porto con me.


Tutto parte dalla nascita (letteralmente)

La società di Joseon era, come dire... ermeticamente chiusa. Nascere da una famiglia nobile significava avere già mezzo cammino spianato. Il destino? Te lo assegnavano direttamente alla nascita. Interclassismo? Pochissimo. Intermatrimoni? Rari quanto la pioggia nel deserto.

Le famiglie mantenevano lo status attraverso il jokbo, l’albero genealogico in cui venivano registrati solo i membri maschi della famiglia. Perché? Perché erano loro a portare avanti il nome e il potere del clan. Le donne? Accessorie, purtroppo.


L’istruzione: una porta... ma solo per alcuni

Sì, tecnicamente anche un figlio di contadini poteva salire di rango. Ma in pratica? Solo chi aveva soldi e tempo poteva permettersi di studiare Confucio e compagnia bella per affrontare il temuto gwageo, l’esame di stato.

E attenzione: non bastava studiare. Dovevi anche avere una discendenza pulita. Se eri figlio di una concubina, di una vedova o di un funzionario corrotto? Bye bye, sogni di gloria.


Il lavoro nobilita… ma dipende per chi lavori

Secondo Confucio, il valore di un mestiere si misura in base a quante persone serve. Quindi: il funzionario statale che lavora per il paese? In cima. Il contadino che lavora per la sua famiglia? Più in basso.

E poi c’era la terra: chi ne aveva, aveva tutto. I nobili (yangban) ricevevano appezzamenti dal re e li affittavano ai contadini. Più terra, più rendite, più potere. Semplice.


Zoom sulle classi sociali

👑 Re e famiglia reale

La dinastia Yi (이) era al comando. Il re governava, ma aveva consiglieri molto presenti. Vivevano nel palazzo o nei pressi della capitale (Hanyang, oggi Seoul) e godevano di infiniti privilegi. Potevi anche riconoscerli dai gioielli d’oro e dal fatto che erano esentati dal portare il hopae, il documento identificativo.

📚 Yangban (양반)

Ecco l’aristocrazia vera. Divisi in munban (funzionari civili) e muban (militari), erano l’élite burocratica del regno. Lo status si conquistava passando l’esame, ma poi diventava praticamente ereditario… almeno finché qualcuno nella tua famiglia continuava a lavorare per lo stato.

E se eri un po’ furbetto e ricco, potevi anche comprare una genealogia falsa per diventare nobile. (Ciao Yong-Ha di Sungkyunkwan Scandal, ti abbiamo scoperto!)

Con il tempo, però, sempre più yangban finirono in povertà. Troppi titoli, pochi posti di lavoro. E quindi… vendettero lo status ai mercanti arricchiti.

🎓 Jungin (중인)

Letteralmente: gente di mezzo. Né nobili, né popolani. Erano i tecnici, gli esperti, i funzionari minori: interpreti, medici, musicisti, figli illegittimi dei nobili. La vera colonna vertebrale silenziosa del sistema. Disprezzati dai yangban, ma essenziali.

Una figlia di jungin poteva addirittura diventare concubina del re se aveva i contatti giusti. Non male come scalata sociale, no?

🌾 Sangmin (상민)

La classe più numerosa. I contadini, artigiani, pescatori, commercianti… insomma, la gente vera. Lavoravano duramente, pagavano le tasse, facevano il servizio militare. I commercianti, però, erano visti malissimo: non producevano, ma guadagnavano. Quindi? Tassati fino all’osso per evitare che diventassero troppo ricchi.

Curiosità: i sangmin non avevano cognomi. Solo un nome. Ma alla fine del periodo Joseon, iniziarono ad “adottarli” per cercare di scrollarsi di dosso lo stigma sociale.

🥀 Cheonmin (천민)

La feccia, secondo il sistema. Facevano lavori “sporchi” o “vergognosi”: gisaeng, attori, boia, fabbri, sciamani… e soprattutto: schiavi (nobi).

I nobi erano considerati proprietà, tatuati per evitare la fuga. Alcuni diventavano schiavi per povertà estrema, altri per punizione. Alcune donne finivano come concubine dei nobili, altre scappavano e si univano a bande di briganti. La storia è dura, ma vera.

Baekjeong (백정)

Ufficialmente “comuni”, ma in realtà erano intoccabili. Butchers, nomadi, mendicanti… vivevano ai margini, esclusi dalla società e persino dalle strade. Ma: non pagavano tasse né facevano il servizio militare. Piccole consolazioni.

Erano i più discriminati, anche per motivi religiosi (il buddismo condannava l’uccisione di animali). Vivevano isolati e spesso si arrangiavano come potevano. Ma anche qui, ogni tanto, si trovava un po’ di umanità.


E nei drama?

Tutto questo lo si può intravedere nei sageuk, se si guarda con occhi attenti. Ecco qualche esempio:

  • Famiglia reale: The Moon that Embraces the Sun, Tree with Deep Roots, Dong Yi

  • Yangban: Sungkyunkwan Scandal

  • Jungin: Dong Yi, Painter of the Wind

  • Sangmin: praticamente ovunque (mercati, taverne, piazze)

  • Cheonmin: Chuno è una miniera

  • Baekjeong: Warrior Baek Dong Soo, The Duo


Conclusioni da fangirl curiosa

Studiare la struttura sociale della dinastia Joseon non è solo un esercizio storico. È un modo per comprendere meglio quello che guardiamo, i personaggi che amiamo (o odiamo) e le scelte narrative dei drama. Ogni inchino, ogni matrimonio combinato, ogni dialogo tra nobili e plebei… è carico di significati profondi che affondano le radici in secoli di storia.

E sì, magari conosco più storia coreana che quella italiana. Ma ehi, l’importante è imparare, no?

Fonte:

  1. https://thetalkingcupboard.com/2012/09/03/social-strata-joseon-dynasty/

La vera storia dietro ai drama: Dae Jang Geum e Kim Man Deok – Donne fuori dal destino

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C’è una parola che in Joseon pesava più di tutte: “limite”.
Limite per ceto. Limite per nascita. Limite per genere.
Eppure, alcune donne non hanno chiesto il permesso. Hanno attraversato la linea. E lo hanno fatto in silenzio, con fermezza, con umanità.

Le protagoniste dei drama Dae Jang Geum e The Great Merchant – Kim Man Deok sono due di queste donne.
Una ha curato i corpi, l’altra ha sfamato le anime.
E in un’epoca che chiedeva alle donne solo obbedienza, loro hanno osato cambiare le regole.


🥣 Dae Jang Geum – La suprema dottoressa che veniva dalla cucina

Jang Geum è una figura storica documentata, la prima donna nella storia coreana a essere nominata medico di corte personale del re.
Ma la sua storia comincia in cucina.

Nel drama del 2003, la seguiamo fin da bambina, cresciuta tra i fornelli della corte, dove diventa una cuoca raffinata e creativa. Ma quando viene coinvolta in intrighi politici, viene esiliata.
E proprio lì, lontano dal palazzo, scopre la medicina.

Il suo talento, la memoria infallibile e il desiderio di capire il corpo umano la portano a scalare una società che le era strutturalmente ostile.
Conquista i suoi nemici non con la vendetta, ma con la competenza.

Dae Jang Geum è l’esempio perfetto di come la cura possa diventare potere.
In un mondo maschile, lei non si traveste, non si piega, non rinuncia alla sua voce.
La raffina. E la usa per salvare vite.


💰 The Great Merchant – Kim Man Deok – Il cuore generoso dell’isola di Jeju

Anche Kim Man Deok è realmente esistita, e la sua storia è ancora più sorprendente.
Nata da madre nobile e padre ignoto, cresce come gisaeng nell’isola di Jeju. Ma rifiuta il destino già scritto.

Impara il commercio, affronta i pregiudizi, sfida l’autorità e diventa una delle donne più ricche del regno. Ma non è l’accumulo che la interessa.
Quando la carestia colpisce la sua terra, vende tutto per salvare il suo popolo dalla fame.

Il drama la racconta con grande delicatezza, mostrando come la compassione possa diventare atto rivoluzionario.
La sua storia è stata per secoli trascurata, ma oggi il suo nome è sinonimo di altruismo e integrità.


✨ Donne che non si sono fermate

Jang Geum e Kim Man Deok non si sono ribellate con le armi.
Non hanno mai alzato la voce.
Ma hanno scardinato la gabbia del loro tempo vivendo pienamente, senza chiedere scusa per il loro talento.

Una ha cucito insieme erbe e conoscenze per guarire.
L’altra ha riempito il vuoto di una carestia con la propria generosità.

In una società che scriveva il destino delle donne con inchiostro indelebile, loro hanno riscritto la fine con le proprie mani.


Hanbok e nostalgia: un viaggio tra sete, simboli e sogni coreani

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C’è qualcosa di profondamente rassicurante nel guardare (e riguardare) un drama storico.
Quando il presente sembra incepparsi e l’unica connessione stabile è quella con i ricordi, mi rifugio lì — in quelle storie che conosco a memoria, ma che continuo a cercare come un rifugio familiare. E capita, ogni tanto, che mi ritrovi a notare un dettaglio nuovo: un ricamo sull’orlo della manica, un fiocco che non avevo mai visto, un colore che ora mi parla in modo diverso.

Così è nato questo articolo: da un momento di stallo, da un po’ di malinconia e, soprattutto, dalla voglia di riscoprire la bellezza del hanbok, l’abito tradizionale coreano che nei sageuk (i drama storici) è molto più di un costume di scena — è un personaggio silenzioso, che racconta, che rivela, che incanta.

Hanbok: l’eleganza senza tempo

Il hanbok è l’abito tradizionale coreano, indossato sia da uomini che da donne. La sua struttura è semplice, ma i suoi significati sono infiniti. Per le donne, si compone principalmente di una giacca corta (jeogori) e di una gonna lunga (chima). Per gli uomini, invece, il jeogori si accompagna ai pantaloni larghi chiamati baji. Eppure, dentro questi pochi elementi si nascondono mondi.

Le stoffe, i colori e i dettagli cambiano in base allo status sociale, alla professione, alla cerimonia. Le figlie dei ministri brillano in sete vivaci, le gisaeng seducono con trasparenze sottili, le donne comuni indossano toni della terra in tessuti robusti e sinceri. Ogni strato, ogni nodo, ogni ricamo è un codice sociale, un messaggio.

Ma non è solo questione di status. C’è una poesia implicita nell’ondulazione della chima al vento, nel modo in cui la luce attraversa una jeogori di seta trasparente. C’è arte. C’è grazia. C’è silenzio che parla.

Tra veli, nastri e segreti

Forse l’elemento che più mi affascina del guardaroba femminile nei drama storici sono gli accessori. Quei piccoli dettagli che trasformano un abito in un racconto.

Il norigae, ad esempio, è un ciondolo ornamentale che pende dal nodo della chima o dalla cintura. Ogni forma (una farfalla, un fiore, una foglia) è una metafora; ogni movimento, un sussurro.

Poi ci sono i veli — il jangot che copre il viso con eleganza, il sseugae chima che si drappeggia come un sipario di mistero. Quando una donna lo indossa per fuggire da uno sguardo o nascondere un’emozione, il mio cuore batte un po’ più forte. Perché la moda, nei sageuk, è sempre anche un linguaggio dell’anima.

Le acconciature che raccontano vite

Una treccia può dire: “non sono ancora sposata”. Uno chignon basso fermato da un binyeo d’argento può dichiarare: “sono una donna di casa”. Un’acconciatura eoyeo meori, con il peso teatrale delle gache e delle tteoljam fluttuanti, può affermare: “sono la Regina”.

E poi ci sono le piccole cose, come la baetssi daenggi delle bambine, o le acconciature delle gisaeng, elaborate fino all’esagerazione, ma sempre magnetiche. Non sono solo belle: sono parte della narrazione. E ogni volta che provo a ricreare quelle pettinature con una coperta in testa, torno un po’ bambina anche io.

I colori del potere: quando l’abito è legge

Nei palazzi della dinastia Joseon, l’abbigliamento era regolato con la stessa precisione delle cerimonie. Ogni evento — dal lutto alla celebrazione, dal rituale al matrimonio — prevedeva un codice preciso di vesti. C’erano i jebok per i riti ancestrali, i jobok per le cerimonie ufficiali, i sangbok per l’uso quotidiano del re. E poi gli infiniti dettagli che cambiavano da un grado all’altro, da un momento all’altro.

I re indossavano il myeonbok, con i suoi nove simboli ricamati, e il copricapo myeonryugwan con le sue nove file di perle pendenti. Gli ufficiali di corte portavano i jeokchoui e i dalryeong, con gradi e creature cucite a seconda del rango: gru per i civili, tigri per i militari, kirin per i principi.

Ogni filo era parte di una gerarchia. Ogni stivale, ogni cintura, ogni manica aveva un significato.

Eppure, nonostante l’apparente rigidità del sistema, c’è una bellezza struggente nella ricchezza di questi abiti, una delicatezza nei contrasti fra colori e materiali, fra potere e vulnerabilità.

Le spose, le regine, le figlie del popolo

Il hwarot, con i suoi motivi floreali e la sua regalità intrinseca, era riservato alle principesse per i matrimoni. Il wonsam, con le sue sfumature di verde, rosso o giallo a seconda del rango, veniva concesso anche alle donne comuni per le nozze, ma solo nella versione più semplice.

Il dangui, invece, è forse il capo più noto — quella giacca lunga con orli curvi, che vediamo spesso nei drama quando le regine passeggiano nei corridoi in silenzio, lo sguardo perso, il cuore pieno. È una veste che sa di quotidianità e insieme di sogno.

E poi c’è l’hyangdae — quel nastro lungo che pende dalla giacca delle spose, bianco come un addio. Si dice servisse a raccogliere le lacrime mentre le ragazze lasciavano la casa paterna. Una delle immagini più poetiche che io abbia mai incontrato.

Gli uomini e la sobria eleganza

Mentre le donne sfoggiano veli e ricami, gli uomini si affidano a una raffinatezza più contenuta ma altrettanto intensa. I loro jeogori, i baji, i durumagi, e soprattutto i copricapi — dai classici gat trasparenti per i nobili, ai jeonrip per i militari, fino ai heukrip con fili di giada per i reali.

C’è un dettaglio che adoro: le decorazioni dei cappelli. Le gatkkeun (i cordoncini dei gat), le perle incastonate, i fermagli. E poi il modo in cui tutto è progettato per contenere, valorizzare e proteggere il sangtu, quel nodo alto che raccoglie i capelli degli uomini adulti. Un piccolo gesto che racchiude anni di cultura e crescita.

La nostalgia si cuce a mano

Mentre scrivevo questo articolo, mi sono accorta di quante cose abbiamo perso nel tempo. Non parlo solo degli abiti o dei rituali — parlo dell’attenzione ai dettagli, della lentezza del gesto, del rispetto per ciò che si indossa.

I drama storici non sono solo fiction. Sono archivi viventi, sono finestre sul passato, sono piccoli scrigni in cui la memoria si cuce a mano. E ogni volta che vedo una principessa sistemarsi il jeogori o un giovane studioso indossare il suo dopo prima degli esami, io sento che una parte di me si raddrizza. Come se anche io, nel mio piccolo, stessi tornando in forma.

Che sia un hanbok color lavanda o una chima sbiadita, ogni abito racconta una storia. E noi, spettatori affamati di bellezza e significato, non possiamo che lasciarci vestire dalla nostalgia.

Fonte:

  1. https://thetalkingcupboard.com/2011/06/11/traditional-korean-clothing-inspired-by-kdramas/
  2. https://thetalkingcupboard.com/2014/09/29/traditional-korean-clothing-part-2/