25 maggio 2025

Madri nei K-Drama: tra cliché, antagonismi e voglia di riscatto

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Avete mai notato come nei K-Drama le madri siano spesso personaggi secondari, quasi di contorno, che entrano in scena solo per mandare avanti la trama... o per rovinarla completamente alla protagonista?

Eppure, a ben guardare, le madri nei drama coreani sono molto più che semplici comparse: sono archetipi, a volte ripetitivi, altre volte sorprendenti. E in alcuni casi, portano con sé un carico culturale, sociale ed emotivo che merita decisamente di essere approfondito.


🌪️ La madre come ostacolo narrativo: la cattiva per eccellenza

Nei melodrammi e nelle commedie romantiche, la madre è spesso la cattiva della situazione.
Che si tratti della classica madre chaebol che non approva la nuora povera, o della madre gelida che impone standard irraggiungibili al figlio, il ruolo è quasi sempre lo stesso: essere l'antagonista.

Un esempio? Boys Over Flowers e Secret Garden:
in entrambi i casi, la madre del protagonista è la vera "villain" della storia. Ricca, fredda, razionale, calcolatrice. È in grado di gestire un’intera azienda, ma non di accettare che il proprio figlio si innamori di una ragazza senza pedigree.
Il suo messaggio è chiaro: l’amore non basta, se non sei all’altezza della famiglia.

Queste madri vengono spesso rappresentate come donne prive di romanticismo, di compassione, perfino di umanità.
E soprattutto: non hanno mai un vero arco narrativo. Restano ferme nel loro ruolo, rigide come la loro acconciatura impeccabile.


🐅 La “madre tigre”: l’altra faccia del controllo

Altro archetipo molto diffuso nei K-Drama (e in generale nei media asiatici) è quello della “madre tigre”, ovvero la figura materna esigente, determinata, disposta a tutto pur di assicurare il successo scolastico e sociale dei figli.

Questo modello deriva da radici profonde nella cultura confuciana:
l’educazione viene vista come veicolo essenziale per la mobilità sociale.
Una buona università = un buon lavoro = una vita migliore.
E chi più della madre si prende carico di questo obiettivo?

La madre tigre sacrifica se stessa per i figli:
rinuncia al tempo, alle emozioni, al riposo, tutto per garantir loro un futuro brillante.
Ma quel che non si vede è il peso emotivo che porta addosso.
Ai nostri occhi appare ostinata, insensibile, perfino crudele…
ma è solo il volto duro di un amore feroce.


💬 La maternità come femminilità negata

C’è un aspetto fondamentale che raramente viene affrontato nei K-Drama:
le madri sono prima di tutto donne. Ma nei drama questo si dimentica spesso.

Quando una donna diventa madre, perde ogni altra identità narrativa.
Non è più una donna che ama, sogna, cambia. È semplicemente la madre di qualcuno.
Nei drama, non ha mai una storia propria.
Il suo valore viene raccontato attraverso i successi o fallimenti dei suoi figli, non attraverso le sue scelte personali.

E così, anche nei rari casi in cui una madre è vedova o divorziata, nessuno si aspetta che si innamori di nuovo. L’idea che una madre possa anche essere una donna romantica, sensuale o vulnerabile... è praticamente inesistente.


I primi segnali di cambiamento: madri che rompono lo stampo

Fortunatamente, negli ultimi anni abbiamo visto qualche svolta positiva.
Alcuni drama recenti hanno iniziato a riscrivere questo ruolo, mostrando madri complesse, capaci di evolversi, di mettersi in discussione, persino di ricostruire la propria vita.

Non tutte le produzioni lo fanno, ma il cambiamento è iniziato.
E questo è fondamentale per abbattere l’idea che la maternità sia l’unica identità possibile per una donna adulta nei media coreani.


🎯 Quindi, cosa vogliamo dai drama?

  • Madri con una storia personale

  • Madri che sbagliano, ma che cambiano

  • Madri che possono anche innamorarsi, o riscoprire se stesse

  • Madri non sempre perfette, ma profondamente umane

Perché no, non tutte le madri devono essere cattive, e non tutte devono essere sante.
Devono solo essere vere.


Ti è mai capitato di amare una “madre cattiva” in un drama?
O di emozionarti per una madre che è riuscita a riscattarsi lungo la storia?
Parliamone nei commenti 💬



Vergini fino al matrimonio? Solo se sei una donna (nei K-Drama)

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Quanti K-Drama hai visto in cui la protagonista ha più di vent’anni, non ha mai baciato nessuno e non si è mai innamorata? Spoiler: tantissimi. Ed è una costante che, lo ammetto, continua a lasciarmi perplessa. Non tanto perché sia impossibile – ognuno ha i suoi tempi, ci mancherebbe – ma perché nei drama sembra essere la norma. E non posso essere l’unica a trovarlo un po’… strano.

Perché questo stereotipo si ripete così spesso? La risposta sembra affondare le radici in una visione piuttosto squilibrata della sessualità nei media coreani. Da una parte, abbiamo le eroine pure, caste, eteree, che sembrano vivere in un eterno limbo pre-adolescenziale. Dall’altra, i protagonisti maschili sono dei veri Casanova: flirtano, bevono nei club, si fanno accompagnare da donne (senza nome, senza volto, senza ruolo) negli hotel.

Ecco il punto: le donne sessualmente attive nei drama non hanno una storia. Non hanno un nome, né un passato, né un futuro. Sono comparse al servizio della virilità del protagonista. Al contrario, gli uomini sessualmente attivi sono complessi, amabili, travagliati. Possono essere amati nonostante – o addirittura grazie – alla loro esperienza. Le donne no. Se hai una vita sessuale attiva, nel mondo dei drama, sei automaticamente una cattiva ragazza. Un ostacolo. Un pericolo. O peggio, una macchietta.

Questa narrativa ha un nome, e si chiama patriarcato.

Nel mondo dei K-Drama, "uomo che fa sesso = forte e desiderabile", "donna che fa sesso = superficiale e sbagliata". Non è solo fastidioso, è il riflesso di una società in cui il potere è storicamente concentrato nelle mani degli uomini. Dove la castità femminile viene idealizzata al punto da diventare una condizione necessaria per essere una "brava ragazza".

Eppure, la realtà coreana è molto più sfumata. L’Enciclopedia Internazionale della Sessualità riportava già nel 1996 che quasi la metà delle ragazze sudcoreane aveva avuto una relazione sentimentale prima della laurea, e il 16,7% degli adolescenti era sessualmente attivo. Numeri che sono sicuramente cresciuti col tempo. Eppure, nel medesimo studio, oltre il 60% delle donne single adulte dichiarava di non aver mai avuto esperienze sessuali. Un dato che parla di una società sospesa tra apertura e repressione.

Perché? Perché da un lato si sposano sempre meno, e sempre più tardi. Le relazioni amorose fuori dal matrimonio esistono eccome. Ma dall’altro, i valori tradizionali restano duri a morire: "una brava donna aspetta il matrimonio". E questa tensione si riflette nei media.

Uno studio sociologico coreano riporta che l’80% della popolazione è preoccupata per quella che percepisce come una “cultura sessuale troppo aperta”, ma allo stesso tempo il 61% riconosce che la società coreana è sessualmente repressiva. Insomma, un paradosso che genera soprattutto una cosa: stress. Psicologico. E, guarda caso, soprattutto sulle donne.

Ecco perché i drama continuano a raccontare le stesse storie. Perché è più facile. Perché la censura è forte. Perché evitare la sessualità è, ancora oggi, la strada più sicura per non "disturbare". Ma il messaggio che passa è potente: se sei una donna e vivi liberamente la tua sessualità, il tuo destino nei drama sarà sempre quello della comparsa o dell'antagonista. Non della protagonista. Non dell’eroina.

Eppure la realtà è diversa. Non tutte le donne vogliono aspettare il matrimonio. Non tutte vogliono sposarsi. E soprattutto, non tutte sono disposte a sacrificare la carriera o la libertà per adeguarsi a un modello che non le rappresenta. In Corea, troppe donne vengono licenziate dopo il matrimonio, o ostacolate nelle promozioni. Il messaggio implicito è devastante: niente sesso senza matrimonio, ma niente carriera con il matrimonio. E intanto agli uomini viene concesso tutto: amore, sesso, successo, redenzione.

I drama, lo sappiamo, sono industria. Offrono ciò che vende. Ma davvero il pubblico vuole solo castità, censura e stereotipi?

Io non ci credo.

Credo che ci sia spazio – e fame – per racconti più onesti, più complessi, più veri. Storie in cui le donne non siano solo "vergini in attesa dell’uomo giusto", ma persone complete, con desideri, libertà e voce. Storie in cui la sessualità femminile non sia una colpa da espiare, ma una parte naturale della vita.


La vera storia dietro al drama: Mung Bean Flower

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Mung Bean Flower è un drama storico coreano. Al centro della narrazione ci sono due fratelli, divisi dal destino e dalla guerra, sullo sfondo della Battaglia di Ugeumchi, combattuta nel 1894 durante la Rivoluzione dei contadini di Donghak. Ma cosa fu davvero questa rivoluzione? E perché ancora oggi risuona con tanta forza nella memoria collettiva coreana?


La Rivoluzione dei contadini di Donghak: quando la fede si fece ribellione

La rivoluzione dei contadini di Donghak (동학 농민 혁명; donghak nongmin hyeogmyeong) non fu solo una ribellione armata: fu un grido disperato di giustizia. A guidarla furono contadini oppressi e seguaci della religione Donghak, una fede panenteistica che divenne per molti un’ideologia di lotta contro le ingiustizie sociali.

Nel 1894, il magistrato Jo Byeonggap di Gobu introdusse leggi arbitrarie, costringendo i contadini a costruire dighe, trasferirsi in terre sconosciute e a pagare tasse e multe ingiuste. La tensione esplose a marzo, quando Jeon Bong-jun e Kim Gaenam unirono i contadini in una rivolta che sarebbe passata alla storia come la Rivolta di Gobu.

Anche se inizialmente repressa dalle forze governative, Jeon non si arrese. Fuggì, radunò un nuovo esercito sul monte Baek e riconquistò Gobu. I ribelli, carichi di rabbia e speranza, vinsero nuove battaglie: al passo di Hwangto, lungo il fiume Hwangryong, fino ad assediare la fortezza di Jeonju. A maggio, arrivò una tregua: le due fazioni firmarono un accordo e nelle zone controllate dai ribelli nacquero le Jibgangso, agenzie autonome per la gestione degli affari locali. Fu una pace fragile, come tutte le paci che si limitano a coprire ferite ancora aperte.


Le truppe straniere e il disastro annunciato

Il governo, terrorizzato dall’influenza crescente del movimento, chiese aiuto alla dinastia cinese Qing, che inviò 2.700 soldati. Ma quella mossa, apparentemente tattica, aprì le porte a un conflitto ben più grande: il Giappone, non informato secondo quanto stabilito dalla Convenzione di Tientsin, reagì mandando anch’esso truppe in Corea. Era l’inizio della prima guerra sino-giapponese.

La guerra segnò la fine dell’influenza cinese in Corea e, contemporaneamente, sancì l’ascesa del dominio giapponese. Una presenza che, agli occhi dei ribelli Donghak, si tradusse in ansia, rabbia, minaccia.


L’ultima speranza: la Battaglia di Ugeumchi

Tra settembre e ottobre del 1894, i leader ribelli del nord e del sud si incontrarono a Samrye per unire le forze. Il 12 ottobre nacque un esercito congiunto – una forza composta da 25.000 a forse 200.000 contadini, secondo fonti diverse – che puntò dritto verso Gongju. Ma le speranze si infransero con violenza a Ugeumchi.

La Battaglia di Ugeumchi fu il punto di svolta. Da una parte c’erano contadini armati di lance di bambù e vecchi fucili, dall’altra l’esercito regolare alleato con le truppe giapponesi, armato con fucili moderni e cannoni. Inizialmente, i ribelli ottennero piccole vittorie, ma l’arrivo dei rinforzi giapponesi cambiò tutto. Lo scontro fu impari. Le perdite furono pesanti. Jeon Bong-jun ordinò la ritirata. L’esercito si disperse.


Il crollo del sogno

Dopo Ugeumchi, i superstiti tentarono un'ultima resistenza nella Battaglia di Taein. Ma ormai la rivoluzione stava morendo. Dopo l’ennesima sconfitta a Gumiran, Jeon ordinò la dispersione definitiva dei suoi uomini. Lui stesso fu catturato e impiccato nel marzo 1895.

Il sogno di un popolo libero, retto su giustizia e spiritualità, venne schiacciato nel fango delle battaglie. Ma il sacrificio di quei contadini – semplici, ma determinati – resta impresso nella storia della Corea come un atto di coraggio collettivo. Una ribellione nata dalla fede, dalla fame e dalla speranza.


E proprio di tutto questo parla Mung Bean Flower: di legami familiari spezzati, di ideali che bruciano più forti della paura, di una rivoluzione dimenticata che torna a vivere sullo schermo.