17 maggio 2025

Il gioco della morte... tu vinceresti?

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“Ho finalmente capito che rinascere più volte come persone diverse era inutile, se non potevo più vivere come il mio vero me stesso.”

C’è un momento preciso, mentre guardi Death’s Game, in cui ti rendi conto che non stai solo seguendo un drama. Stai ascoltando una confessione. Una supplica. Un grido silenzioso che ti parla attraverso ogni reincarnazione, ogni scelta, ogni sguardo disperato del protagonista. E senza nemmeno accorgertene, inizi a farti le stesse domande che tormentano lui.

Uscito tra dicembre 2023 e gennaio 2024 su TVING, Death’s Game è una webserie coreana tratta da un popolare webtoon firmato Lee Won-sik e Ggulchan. Ma ridurlo a una semplice trasposizione sarebbe ingiusto. Questo è un viaggio emotivo a spirale che, proprio come la vita, non si accontenta di essere lineare. Ti sbatte contro muri, ti rianima, ti illude e ti spezza. Poi, ti rimette in piedi. A patto che tu voglia restarci.


La storia: dodici modi per morire. Uno solo per vivere.

Choi Yi-jae (Seo In-guk) è un giovane che si è perso. Dopo sette anni di fallimenti lavorativi, una truffa che gli porta via tutto e la rottura con la fidanzata, decide di farla finita. Ma non trova la pace. Trova la Morte. Letteralmente.

Questa figura, impersonata da una glaciale Park So-dam, non ha pietà. Gli rinfaccia di essere arrivato da lei troppo presto:

“Sei colpevole di essere venuto a cercarmi, prima che fossi io a cercare te.”

La punizione è brutale. Dodici reincarnazioni, dodici morti imminenti. Ogni volta, l’anima di Choi entra nel corpo di qualcuno destinato a morire. Se riesce a salvarsi, vivrà. Se fallisce, un passo in più verso l’inferno.

Sembra un gioco. E lo è. Ma per Choi è una condanna. O forse, una possibilità che non aveva mai chiesto: quella di guardare la vita da mille angolazioni. E iniziare finalmente a capirla.


Ogni reincarnazione è una finestra

Erede aziendale, atleta spericolato, studente bullizzato, sicario, pittore solitario, poliziotto, modello, madre, neonato… ogni nuova vita è un mondo a sé, ma anche un pezzo di un puzzle più grande. Tutti i corpi che Choi abita, anche quelli più lontani, orbitano misteriosamente attorno al potente gruppo Taekang, creando una rete di connessioni sotterranee, misteriose e dolorose.

Ma ciò che più colpisce non è l’intrigo. È il peso emotivo. Ogni episodio è una mini-storia che, pur nella brevità, riesce a graffiarti l’anima. Ci si chiede ogni volta: “E se fossi io al suo posto? Cosa farei?”

Il drama è impietoso ma umano. Ti costringe a camminare nei panni di chi lotta, ama, sbaglia e muore. Ma soprattutto di chi, nonostante tutto, continua a sperare.


Attori che parlano col corpo (e con lo sguardo)

Seo In-guk è devastante. Non solo recita: vive le emozioni del suo personaggio. È ansia che ti sale in gola, rimpianto che ti chiude lo stomaco, paura che non ti lascia dormire. Basta un suo sguardo per raccontare un’intera tempesta interiore.

Park So-dam, nel ruolo della Morte, è monumentale. Ti entra negli occhi e ti lascia lì, nudo, giudicato. Silenziosa, gelida, eppure così profondamente necessaria.

E poi una parata di guest star che non serve solo a far scena. Ognuno dei volti noti che interpretano le reincarnazioni di Choi – da Lee Jae-wook a Kim Jae-wook, da Oh Jung-se a Kim Kang-hoon – lascia un’impronta. Non sono comparse: sono specchi. Riflessioni. Domande incarnate.


Vita, morte e ciò che lasci dietro

Death’s Game è un’opera che cammina sul filo sottile tra disperazione e salvezza. Parla apertamente di suicidio, di dolore invisibile, di fallimenti che stritolano l’identità. Ma non si limita a mostrarli: li spiega.

Nel punto più buio, Choi guarda indietro e si chiede:

“Perché non ho capito allora che avevo persone nella mia vita pronte a piangere con me nei momenti difficili?”

Ed è lì che la serie ti colpisce davvero. Quando ti mostra ciò che resta dopo. La madre che non smette di cercarti. La fidanzata che avrebbe voluto solo starti accanto. Gli amici che non sapevano come aiutarti, ma che ci avrebbero provato, se solo avessi lasciato loro il tempo.

“Una giornata serena. Una giornata di pioggia. Una giornata ventosa. Ho imparato che la vita è fatta di giorni diversi. E che fallire va bene, finché continuo a camminare.”


Il messaggio: la morte non è una via d’uscita, è una domanda non ascoltata

La forza di Death’s Game sta nell’aver trasformato un tema doloroso in un’opera catartica. Non ti dice solo: “Non farlo.” Ti dice perché. Ti mostra ciò che potresti perdere. E tutto ciò che, senza accorgertene, già hai.

Ti dice che fallire non è la fine. È solo un tipo di giorno. E che ogni giorno diverso ha diritto di esistere. Anche quelli più neri. Anche quelli in cui pensi di non valere nulla.

Come Move To Heaven ci insegnava a onorare chi se ne va, Death’s Game ci insegna a restare. Anche quando fa male.


Guardare Death’s Game è come vivere dodici vite, e poi tornare alla tua con occhi nuovi. Ti fa paura, ti emoziona, ti scuote. Ma soprattutto, ti ricorda che sei ancora qui. Che puoi ancora scegliere.

E forse, a volte, tutto ciò che serve è una serie che ti dica ciò che nessuno aveva il coraggio di dirti.

Death’s Game non è solo un K-drama. È una lettera d’amore alla vita, scritta dal punto di vista della morte. Una serie imperdibile. Ma più ancora, una serie necessaria.


🖤 Attenzione: la serie tratta argomenti delicati come suicidio, lutto, violenza e morte. Se senti che questi temi ti toccano da vicino, affrontala con consapevolezza. E ricordati: parlare con qualcuno può fare la differenza. Sempre.

Fonte:

  1. https://koreancultureblog.com/2024/01/06/k-drama-review-deaths-game-%ec%9d%b4%ec%9e%ac-%ea%b3%a7-%ec%a3%bd%ec%8a%b5%eb%8b%88%eb%8b%a4/
  2. https://korean-binge.com/2024/01/07/k-drama-review-deaths-game-2023-24/


Orecchini, parrucche e regine in incognito: i segreti di stile del passato coreano

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C’è una cosa che amo fare mentre guardo un sageuk, quei drama storici ambientati soprattutto nell’era Joseon: fissare gli accessori. Sì, lo so, potrei perdermi nella trama, nel dolore esistenziale dei personaggi o nei sottili giochi di potere di corte. E invece io mi blocco a guardare... i capelli. Gli orecchini. Le spille. Le parrucche. Le corone. E ogni volta mi faccio la stessa domanda: ma perché le donne non indossano quasi mai gli orecchini nei drama ambientati in Joseon, mentre ogni tanto li vedi sfilare fiero sul volto dei personaggi maschili?

È iniziato tutto da lì. Da un dettaglio. Poi, come spesso accade quando si è drama-dipendenti, sono finita in un tunnel di curiosità storiche e ricerche notturne. Ed ecco il risultato: un lungo viaggio tra i gioielli, le acconciature e i copricapi più affascinanti di tutte le dinastie coreane. Un mondo che sembra fatto per incantare lo spettatore – e per pesare almeno cinque chili sulla testa di ogni donna dell’epoca.


Gli orecchini: una moda per re, regine… e guerrieri

Sorprendentemente, gli orecchini non erano solo un vezzo femminile. Durante i periodi dei Tre Regni e della dinastia Silla, uomini e donne li sfoggiavano con disinvoltura. Spesso erano in oro, simbolo di potere e status. C’erano tre categorie principali: semplici (un solo anello), pendenti (con una parte mobile) e vistosi (con più cerchi e decorazioni, tipo jade o foglie d’oro).

I re, i principi e perfino i guerrieri indossavano orecchini come simbolo di giovinezza, forza e abilità. Gli uomini sceglievano quelli più sottili (sehwan), le donne quelli più spessi (taehwan). E se vi state chiedendo se un giovane Yi Seong-gye, futuro fondatore di Joseon, abbia mai portato orecchini… la risposta è sì. In pratica, il bling era dappertutto.

Tutto cambia con l’arrivo della dinastia Joseon e del confucianesimo: forare il corpo era considerato irrispettoso verso i genitori, da cui si “riceve” il corpo come dono. Addio orecchini, dunque. Per i maschi spariscono del tutto. Le donne? Solo in occasioni speciali, come i matrimoni. E sempre con modelli discreti. La sobrietà diventa legge… letteralmente: lo Stato vieta gli ornamenti troppo appariscenti, soprattutto in oro o argento, per motivi economici.


Gli anelli: tra status e amore eterno

Diversamente dagli orecchini, gli anelli resistono anche in epoca Joseon. Due i tipi principali:

  • Panji: anello singolo, portato dalle ragazze non sposate. Un po’ come dire “sono single, ma non per sempre”.

  • Garakji: un paio di anelli, riservati alle donne sposate. Simboleggiano l’unione tra marito e moglie. Quando il marito moriva, uno degli anelli veniva sepolto con lui, l’altro restava con la vedova per tutta la vita. Sì, un simbolo di fedeltà struggente.

A proposito: garakji e binyeo (spilloni per capelli) erano anche regali di matrimonio. Donarli a una donna significava chiederle la mano. Se hai visto “Princess Kyung-hye” capiresti perché lei si arrabbia tantissimo quando riceve i garakji da Seung-yoo… credeva fossero per Se-ryung!

Inoltre, gli anelli si sceglievano in base alle stagioni: oro per l’inverno, argento per l’estate, giada per l’autunno. E per la primavera? Forse… il più bello, perché anche i fiori sbocciano.


Le acconciature femminili: tra arte e sopravvivenza

Le donne coreane del passato erano delle vere architette… dei capelli. Soprattutto a corte. Alcune delle acconciature più elaborate avevano anche nomi poetici e simbolici.

  • Eoyeo meori: riservata a regine e vedove reali, con parrucche che formavano un’aura attorno alla testa.

  • Cheopji meori: un’elegante crocchia decorata da cheopji (una sorta di spilla ornamentale), indossata da nobildonne e alte funzionarie.

  • Tteoguji meori: usata per le cerimonie. Elegante, imponente, regale.

  • Daesu meori: l’equivalente di “oggi mi sposo” in formato capillare. Usata durante i matrimoni.

  • Saeng meori: per le giovani cortigiane. Intrecci su misura a seconda del dipartimento di appartenenza. Eh sì, anche i capelli avevano una gerarchia.

Poi c’erano stili per ogni età: badukpan meori per le bimbe, eonjun meori per mostrare bellezza attraverso le parrucche (attenzione però, pesavano tantissimo!), jjokjin meori per le donne comuni dopo il bando delle parrucche da parte di Re Yeongjo. Per le spose, l’acconciatura diventava una scultura viva: spilloni, parrucche, ornamenti. A volte tutto insieme.


Le acconciature maschili: essenziali ma simboliche

I maschi portavano il sangtu, il famoso chignon in cima alla testa, segno di virilità e maturità. Non era solo estetica: sposarsi significava iniziare a portarlo.

I più poveri portavano il minsangtu, senza fascia. Gli uomini indossavano anche il manggeon, una fascia per tenere i capelli fermi, spesso nascosta sotto i cappelli. Niente di appariscente, ma pieno di significati.


I cappelli e gli ornamenti: un’epopea su seta e bambù

Il mondo dei copricapi merita un trattato a parte. Ce n’erano per ogni rango, ogni stagione, ogni cerimonia. Alcuni esempi?

  • Gat: il classico cappello nero cilindrico dei nobili.

  • Ayam: un cappellino invernale aperto in cima, indossato dalle donne.

  • Jokduri e hwagwan: coroncine per matrimoni. Più ricche erano, più alto era lo status.

  • Binyeo, jam, tteoljam: spilloni per capelli, più o meno decorati a seconda della posizione sociale.

  • Jeonmo e noeul: cappelli e veli per gisaeng, spesso decorati a mano.

  • Myeonryugwan: la corona con le perline pendenti per re e principi, degna di una cerimonia importante.

Anche gli uomini non erano da meno: ikseongwan per i re, jeongjagwan per gli studiosi, baekrip durante il lutto, satgat per proteggersi dal sole lavorando nei campi. E no, non erano solo cappelli: erano simboli di ruolo, identità, doveri.


Un mondo di significati sopra la testa

Se i K-Drama ci hanno insegnato qualcosa, è che anche il più piccolo dettaglio racconta una storia. Una spilla, un orecchino, un nastro rosso... dietro ognuno di questi c’era un significato profondo, spesso invisibile a noi spettatori moderni, ma potentemente eloquente nel contesto storico.

Quindi la prossima volta che guardi una regina camminare in silenzio nel palazzo, con quel peso apparentemente leggero sulla testa, sappi che lì sopra non ci sono solo ornamenti. Ci sono secoli di tradizione, potere, dolore e poesia.

E tu? C’è qualche accessorio di scena che ti ha sempre fatto domande nella testa? Qualcosa che hai notato ma che nessuno spiega? Scrivimelo. Potremmo indagare insieme. Perché a volte, per capire davvero un’epoca, basta... guardare i capelli.

Fonte:

  1. https://thetalkingcupboard.com/2013/04/17/a-guide-to-joseon-hairstyles-and-headgears/
  2. https://thetalkingcupboard.com/2012/10/25/of-rings-and-earrings-throughout-the-dynasties/

Intrattenimento e speranza in The Hymn of Death

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Alle 4 del mattino del 4 agosto 1926, due corpi scomparvero tra le onde del mare di Hyunhaetan. Erano quelli di Yun Sim-Deok, una cantante lirica di talento, e Kim Woo-Jin, un drammaturgo brillante e tormentato. Salirono su un traghetto diretto a Busan, ma non per arrivare a destinazione. Il loro viaggio era un addio al mondo, un ultimo gesto in cui la vita si fondeva con la tragedia e l’amore diventava immortale.

Quasi un secolo dopo, la loro storia continua a parlarci. E non solo perché il loro gesto estremo ci scuote, ma perché dietro quel salto nel vuoto c’è un mondo che ancora oggi ci riguarda. La Corea degli anni ’20 era un Paese sotto il dominio coloniale giapponese, e Yun Sim-Deok e Kim Woo-Jin non erano solo amanti clandestini: erano artisti, anime libere in una società che non lasciava spazio né all’amore né alla libertà.
Netflix, con il drama The Hymn of Death (사의 찬미), ha trasformato questa vicenda in una sinfonia visiva struggente e intensa. Interpretati da Shin Hye-Sun e Lee Jong-Suk, i due protagonisti diventano per lo spettatore moderno una sorta di Romeo e Giulietta coreani, ma con una consapevolezza adulta, storica, profondamente umana.

Il drama racconta il loro incontro, il loro legame profondo e la battaglia silenziosa che combattono ogni giorno contro le aspettative familiari, i doveri sociali e un Paese che non è più il loro. Woo-Jin è un uomo sposato, intrappolato in una vita che gli è stata imposta. Sim-Deok è una delle prime donne coreane a studiare musica in Giappone, simbolo di emancipazione e di rottura, ma sempre sul filo di un equilibrio impossibile. Entrambi appartengono a un mondo che li soffoca, ma trovano rifugio l’uno nell’altra, e soprattutto nella loro arte.

Ed è qui che The Hymn of Death smette di essere una semplice storia d’amore tragico. Diventa un inno, come suggerisce il titolo, alla forza dell’arte. Al suo potere di consolare, di resistere, di liberare. Per Sim-Deok, il canto è molto più di una professione: è la voce della sua anima, l’unico spazio in cui può essere se stessa. Per Woo-Jin, la scrittura è un atto rivoluzionario. In un’epoca in cui ogni parola è sorvegliata, lui scrive per esistere, per dire “io sono” anche quando il mondo intorno sembra ignorarlo. L’intrattenimento, per entrambi, è una forma di sopravvivenza. Ma anche una forma di lotta.
La loro musica, i loro testi, le loro performance sono piccoli atti di ribellione, luci accese nel buio di un tempo difficile.

Eppure, The Hymn of Death non edulcora la realtà. Sa che l’arte non basta sempre a salvarci. Che le parole, le note, le emozioni, a volte arrivano troppo tardi. Quando Sim-Deok, alla fine dello show, dice: “Va bene anche se non possiamo cambiare nulla. Quello che conta è il fatto che stiamo provando qualcosa con la speranza”, ci ricorda che il valore non è solo nel risultato, ma nel tentativo stesso. Nell’atto di provarci, nonostante tutto.

C’è qualcosa di struggente nel sapere che questa frase non è solo un’idea poetica scritta per la sceneggiatura, ma una verità che riguarda moltissime persone, ieri come oggi. In un mondo che spesso ci spinge a rinunciare, a scegliere la sopravvivenza al posto della vita vera, l’arte rimane una delle poche possibilità che abbiamo per non spegnerci del tutto.

Guardare The Hymn of Death non è un’esperienza “piacevole”, nel senso più superficiale del termine. È un’immersione lenta in un dolore elegante, in una bellezza malinconica. È un drama che non strappa le lacrime con colpi di scena forzati, ma le fa scendere in silenzio, mentre la musica scorre e i personaggi scompaiono nel mare.
È anche una riflessione sulla responsabilità degli artisti. Su quanto sia difficile, ma necessario, raccontare la verità in tempi di censura e paura. E su quanto sia fragile la linea tra vivere per sé e vivere per gli altri.

La storia di Sim-Deok e Woo-Jin è, in fondo, una storia di scelta. Una scelta disperata, sì, ma anche consapevole. Scelgono l’amore in un mondo che non lo accetta. Scelgono la libertà in un contesto che imprigiona. Scelgono di non essere spettatori passivi della loro vita.
E forse, è proprio per questo che, quasi cento anni dopo, ancora li ricordiamo. Perché la loro fine non è solo una tragedia, ma una dichiarazione.
Un canto.
Un inno.