C’è un piccolo frutto rosso fuoco che ha rivoluzionato il modo in cui il mondo sente il gusto. No, non è una fragola, né una ciliegia. È il peperoncino. In Corea, è molto più di un semplice ingrediente: è un’identità, un fuoco che brucia sulla lingua ma accende anche lo spirito.
Il piccante che parla coreano
In ogni morso di kimchi, in ogni cucchiaiata di jjigae, in ogni fettina di tteokbokki c'è un retrogusto infuocato che racconta una storia lunga secoli. Il peperoncino rosso – parente stretto della melanzana, per quanto sembri incredibile – è diventato una colonna portante della cucina coreana, eppure la sua origine è lontana: il Sud America. Chi l'avrebbe mai detto che una pianta così esotica sarebbe diventata l’anima delle tavole coreane?
La sua fama non si ferma lì: il peperoncino è la spezia più coltivata al mondo. Piace a un quarto dell’intera popolazione del pianeta. Sì, un boccone su quattro nel mondo ha, in qualche modo, un tocco di fuoco.
Quanto può bruciare un amore?
La scala di Scoville misura il piccante, e più alto è il numero, più forte sarà la fiamma che ti brucia in bocca. Il jalapeño si aggira tra i 2.500 e i 10.000 SHU. L’habanero sale vertiginosamente tra i 350.000 e i 580.000 SHU. Ma ci sono varietà ancora più esplosive come il bhut jolokia e il Trinidad moruga scorpion, capaci di superare i 2 milioni di SHU. A confronto, la capsaicina pura – la sostanza chimica che genera quella sensazione di calore – ha un picco da 16 milioni. Roba da fare tremare anche i più coraggiosi.
Eppure, in questa guerra di fuoco, c’è chi non sente niente: gli uccelli. Non hanno i recettori per la capsaicina, quindi possono mangiare i peperoncini e spargere i semi in giro come se nulla fosse. Madre Natura aveva pensato a tutto: una strategia per allontanare i mammiferi (tranne noi umani temerari!) e sfruttare gli uccelli come messaggeri del seme.
Perché amiamo soffrire?
Perché ci piace mangiare qualcosa che ci fa piangere, sudare e cercare disperatamente un bicchiere di latte? La risposta non è solo nel gusto, ma nel cervello. Secondo il Nobel David Julius, mangiare piccante è un’esperienza paragonabile a salire su una montagna russa: brivido, paura, eccitazione. Il cervello crede di essere in pericolo, ma noi, in fondo, sappiamo che è tutto un gioco.
E se il dolore continuasse? Sorpresa: la capsaicina viene usata anche nelle creme per alleviare dolori muscolari e articolari. Più ti esponi, meno senti. Un po’ come nella vita: certe ferite smettono di bruciare quando impari a conviverci.
Sudare sotto il sole e sorridere sotto la lingua
In Corea, mangiare piccante in estate è una tradizione. Sembra assurdo? Non lo è. Il corpo reagisce sudando, si raffredda e si sente meglio. È un equilibrio tra il calore interno e quello esterno. Non è un caso se nei giorni più torridi si va alla ricerca di una zuppa bollente o di una porzione infuocata di budae jjigae.
Ma anche d’inverno il fuoco non si spegne. Il kimchi, re dell’inverno coreano, non perde la sua anima piccante. Con il tempo, il processo di fermentazione rende il gusto più morbido, quasi dolce. Eppure, quel fuoco rimane lì, come brace sotto la cenere.
Una dolce rivoluzione: il tteokbokki che non ti aspetti
Negli anni ’20 e ’30, alcuni intellettuali coreani cercarono di occidentalizzare la cucina, dicendo che i sapori forti erano “arretrati”. Ma la gente comune non era d’accordo. Anzi, reinventò il modo di mangiare piccante. Così nacque il tteokbokki moderno: prima era un piatto salato a base di salsa di soia. Dopo la guerra di Corea, si trasformò in quella delizia dolce e infuocata che conosciamo oggi, grazie al connubio tra gochujang e zucchero. Una rivoluzione silenziosa fatta da padelle bollenti e mani popolari.
E così, accanto al classico kimchi, cominciarono a spopolare i piatti come il bulgogi piccante e il nakji bokkeum (polpo saltato). Tutto prendeva colore e sapore. Una generazione intera crebbe con la lingua che pizzicava e il cuore che batteva.
Il segreto del successo? Il piacere
Il dolce lo amiamo da quando nasciamo. Il piccante, invece, è una passione che impariamo. Ma quando lo facciamo, ci resta addosso. È un piacere adulto, che mischia dolore e desiderio. Forse è proprio questo il suo fascino.
Oggi esistono versioni più leggere e moderne, come il rosé tteokbokki: una salsa cremosa e piccante allo stesso tempo, resa più “amica” grazie alla panna. La capsaicina, infatti, si scioglie nei grassi, non nell’acqua. Ecco perché bere latte aiuta, e perché i piatti coreani con formaggio fuso, come il cheese dakgalbi, sono amatissimi anche all’estero.
Un amore democratico
Il peperoncino, a differenza del pepe nero, è sempre stato un ingrediente “popolare”. Il pepe, nei secoli scorsi, era un lusso per pochi. Il piccante, invece, è entrato nelle case di tutti. Non è stata l’élite a decidere il gusto della Corea. È stato il popolo, con le sue scelte quotidiane e i suoi piatti condivisi.
E forse è proprio questo il bello del peperoncino. Brucia, sì. Ma unisce. Fa sudare, ma anche ridere. Ti punge la lingua, ma accende i ricordi.
Il mondo del piccante coreano non è solo una questione di papille gustative. È una filosofia. Una cultura. Un modo di vivere.
E ogni volta che un coreano affonda i denti in un pezzo di kimchi o versa una cucchiaiata di gochujang nel piatto, non sta solo aggiungendo sapore. Sta celebrando un’eredità. Sta tenendo vivo un amore rosso fuoco che, da secoli, non smette di bruciare.
Fonte: https://mymileshinesmile.blogspot.com/2024/01/korean-red-hot-chili-peppers.html