4 luglio 2025

Chuseok: il giorno in cui la Corea si ferma per dire “grazie”

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C’è un momento in Corea del Sud in cui il tempo sembra rallentare. Le strade si svuotano, i treni si riempiono, e le case si preparano ad accogliere sorrisi, lacrime, memorie e abbracci. È Chuseok – il cuore pulsante dell’autunno coreano, il momento dell’anno in cui l’intero Paese si ferma per rendere omaggio al passato e abbracciare il presente.

Se stai pensando che sia solo una sorta di “Thanksgiving coreano”, preparati a ricrederti. Chuseok è molto di più. È una fusione tra il nostro Natale, il Capodanno e la Festa del Raccolto. Una tradizione che profuma di incenso, riso appena cotto e aghi di pino. Una festa che parla di radici, famiglia, gratitudine e legami che vanno oltre il tempo.

Il significato profondo di Chuseok

Chuseok (추석), conosciuto anche come Hangawi (한가위), cade il 15° giorno dell’8° mese lunare, solitamente a settembre. È una di quelle festività che non si dimenticano. Per i coreani, è il momento di tornare al paese natale, pulire le tombe degli antenati e raccontare ai più giovani chi erano coloro che li hanno preceduti. È un modo per dire “grazie” al raccolto, alla vita, ma anche alla memoria.

In fondo, Chuseok non è solo una festa: è una dichiarazione d’amore verso la propria storia.

Non è il Capodanno cinese. È molto di più

Anche se spesso confuso con il Seollal (il Capodanno lunare), Chuseok ha origini diverse e antichissime. Deriva da Gabae, un’antica celebrazione contadina dell’era dei Tre Regni. Col tempo, ha incorporato elementi del pensiero sciamanico e confuciano, trasformandosi in una ricorrenza spirituale e familiare. È una festa che mette al centro il duro lavoro dei contadini e il ciclo della natura, e che oggi si rinnova in una società moderna che non ha dimenticato le sue radici.

Tradizioni che uniscono generazioni

In Corea, prepararsi a Chuseok non significa solo cucinare. Significa creare connessioni. Si comincia con i rituali ancestrali come il Charye (차례), in cui si onorano gli antenati con offerte di cibo e preghiere silenziose. Si continua con la visita alle tombe di famiglia (Seongmyo), un momento intimo e collettivo, quasi sacro. E si conclude con balli tradizionali, giochi popolari e – naturalmente – tavole imbandite.

Tutto questo serve a ricordarci che siamo parte di qualcosa di più grande. Che il nostro oggi esiste grazie a chi è venuto prima di noi.

Il sapore della gratitudine

Se c’è una cosa che Chuseok sa fare bene, è raccontare emozioni attraverso il cibo. Non si tratta solo di nutrirsi, ma di condividere. Di mettere sulla tavola ciò che la terra ha donato e celebrarlo insieme.

Tra i piatti imperdibili:

  • Songpyeon (송편): dolcetti di riso a forma di mezzaluna, ripieni di pasta di fagioli rossi, sesamo o castagne, cotti al vapore su aghi di pino. Si dice che chi riesce a farli perfettamente, avrà una vita fortunata. È una preparazione che si fa la sera prima della festa, spesso tra risate, storie e mani impastate di farina.

  • Jeon (전): una sorta di frittella coreana, fatta con verdure (come zucchine e patate dolci), pesce tritato, uova e farina. Un’esplosione di sapori semplici, autentici.

  • Japchae (잡채): noodles di patate dolci saltati in padella con verdure, carne e salsa di soia. È uno di quei piatti che raccontano tutto il gusto del raccolto autunnale.

Famiglia: il centro di tutto

Ma il vero fulcro di Chuseok non sono i rituali o i banchetti. È la famiglia. Non solo quella biologica, ma tutte le relazioni che nel tempo abbiamo costruito e custodito. Durante Chuseok si riscopre il valore dello stare insieme, del condividere silenzi e parole, del sentirsi parte di un filo che unisce generazioni.

È un momento in cui i vecchi rancori si mettono da parte, in cui ci si guarda negli occhi con onestà e ci si dice: “Sono felice che tu ci sia.”

Quando la lingua diventa connessione

E se sei curioso di vivere Chuseok in prima persona, imparare qualche parola coreana potrebbe essere un ottimo inizio. Eccone alcune che ti faranno fare bella figura:

  • 추석 (Chuseok) – Festa del Raccolto

  • 차례 (Charye) – Rito ancestrale

  • 송편 (Songpyeon) – Dolce di riso tipico

  • 가족 (Gajok) – Famiglia

  • 수확 (Suhwak) – Raccolto

  • 가을 (Gaeul) – Autunno

  • 향 (Hyang) – Incenso

E qualche frase per sentirsi parte della festa:

  • Quest’anno cosa farai per Chuseok?” – 올해 추석에 뭐 할 거에요?

  • Ho indossato l’hanbok e sono andato a vedere le foglie d’autunno con la mia famiglia.” – 한복을 입고 가족과 함께 가을 단풍을 구경하러 갔어요.

  • Mi aiuti a preparare i songpyeon?” – 송편 만드는 거 도와 줄래?

Un giorno per ricordare, amare e dire grazie

Chuseok non è solo un giorno segnato sul calendario. È un sentimento. È la nostalgia che ti prende pensando ai nonni, il calore di un piatto cucinato con amore, la risata di un bambino che gioca tra le foglie cadute. È un promemoria collettivo che ci ricorda quanto siamo fortunati, quanto sia importante ringraziare… e quanto siano preziose le radici.

Quindi sì, la Corea ha il suo “Thanksgiving”. Ma chiamarlo così è riduttivo. Perché Chuseok è molto di più: è un inno alla vita, alla famiglia e alla memoria.

Fonte: https://ling-app.com/ko/meaning-of-chuseok/

Bellezza in Corea: tra perfezione, storia e ferite invisibili

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C’è una domanda che, prima o poi, tutti ci siamo fatti guardando un K-drama o una performance dei nostri idol preferiti: “Come fanno ad avere una pelle così perfetta?”
Ma questa domanda è solo la punta di un iceberg molto più grande, complesso e – a volte – doloroso.

La Corea del Sud, oggi, non è solo patria di smartphone, idol, drama e street food, ma è anche il centro nevralgico di un impero silenzioso che detta le regole della bellezza globale: il mondo della K-beauty. Un mondo fatto di rituali precisi, cosmetici innovativi, pelle diafana, linee delicate. Un mondo dove apparire giovani, puri e impeccabili non è solo un desiderio, ma quasi un dovere.

La pelle come specchio dell’anima (e della società)

Le radici degli attuali canoni estetici coreani affondano nella filosofia confuciana, in un’idea di purezza che un tempo riguardava non solo l’aspetto fisico, ma anche l’anima. Durante la dinastia Joseon, essere belle significava avere la pelle bianca come la giada, i capelli lunghi e intatti, il volto privo di trucco vistoso. Il corpo, considerato eredità della propria famiglia, doveva rimanere puro e integro.
E la bellezza? Non era frivola, ma riflesso di virtù: la figlia devota, la moglie fedele, la madre premurosa.

Nel tempo, questi ideali si sono trasformati, ma non sono mai scomparsi. Si sono solo adattati, silenziosi e radicati.

Dal colonialismo giapponese alla rivoluzione degli oppa

Un altro spartiacque è arrivato con la colonizzazione giapponese. In quel periodo entrarono in Corea prodotti cosmetici occidentali e giapponesi, considerati più “raffinati” rispetto a quelli tradizionali.
Le pubblicità cominciarono a mostrare modelli giapponesi e occidentali, dando vita a una narrazione sottile ma potente: per essere belli, bisognava somigliare a qualcun altro.

Poi arrivarono gli idol. E con loro, una bellezza nuova, giovane, levigata, costruita al dettaglio.
Kim Ji-soo, Irene, Jin, Kim Tae-hee, Shin Min-ah... nomi che oggi rappresentano la perfezione agli occhi del mondo. Ma anche icone di uno standard quasi impossibile da raggiungere: viso piccolo a forma di V, pelle chiara, occhi grandi, naso sottile, corpo snello, gambe lunghe, spalle a 90 gradi.

La bellezza coreana ha continuato a evolversi, mantenendo sempre un comune denominatore: apparire giovani, puri, perfetti.

Il prezzo del sogno: chirurgia, lookism e pressione sociale

A prima vista, la Corea può sembrare un paradiso della bellezza. I cosmetici sono ovunque, i trattamenti accessibili, la chirurgia estetica quasi un regalo di laurea.
A Seoul, Gangnam non è solo un quartiere, è un’industria del ritocco. “Gangnam Unnie” è il soprannome ironico con cui si indicano le ragazze che hanno rifatto più parti del volto. Ma sotto l’ironia, spesso, si nasconde un’inquietudine profonda.

Perché quando ti dicono continuamente che il tuo viso è “troppo tondo”, che il tuo naso è “troppo largo”, che i tuoi occhi “sembrano spenti”... prima o poi inizi a crederci. E allora la bellezza smette di essere piacere, e diventa ansia.
E questa ansia ha un nome: lookism, la discriminazione basata sull’aspetto fisico. Un fenomeno che può condizionare il lavoro, le relazioni, persino la propria autostima.

In Corea, non è raro vedere ragazze a dieta ferrea fin dai 14 anni, idol che svengono sul palco, giovani che spendono stipendi interi per “aggiustare” ciò che non va. Eppure, nonostante tutto, è raro trovare qualcuno che condanni chi si sottopone a questi interventi.
Perché in fondo, in una società che premia la bellezza, chi si rifà lo fa per sopravvivere.

Quando il trucco non è trucco

C’è però anche un’altra faccia della medaglia. Quella fatta di innovazione, ricerca, amore per la pelle.
In Corea, la skincare è cultura. Non un lusso, ma un rituale quotidiano. Si impara da piccoli, si fa in famiglia. La pelle non è solo estetica: è benessere, è rispetto per sé stessi.

Marchi come Etude House, TONYMOLY, Holika Holika non vendono solo cosmetici, ma raccontano un’idea di cura che va oltre il make-up.
È il famoso effetto “no-makeup makeup”: sembrare al naturale, ma con dietro ore di attenzione, prodotti specifici, formule leggere e tecnologie avanzate.
Il tutto con un vocabolario infinito: 화장 (Hwajang) per dire trucco, 스킨케어 (Seukinkeeo) per indicare la skincare, 쌍꺼풀 (Ssangkkeopul) per le doppie palpebre, e via dicendo.

Persino il concetto di “essence”, che da noi è quasi sconosciuto, in Corea è un passaggio essenziale, una fusione tra tonico e siero che potenzia ogni trattamento.

Bellezza o battaglia?

Negli ultimi anni qualcosa, lentamente, sta cambiando.
Alcuni idol iniziano a rompere gli schemi. Hwasa, con il suo look potente e provocatorio, Jennie Kim, con la sua unicità elegante, Felix degli Stray Kids, con la sua androgina bellezza fuori dagli standard... stanno aprendo spiragli.

Anche i giovani cominciano a interrogarsi: “È davvero questo il volto che voglio?”
Certo, il cammino è lungo. Gli standard sono ancora lì, ben saldi. Ma il fatto stesso che se ne parli, che si metta in discussione il dogma della perfezione, è un primo passo importante.

E noi, da qui?

Noi che guardiamo da lontano, affascinati, spesso non vediamo tutto. Ci perdiamo nei visi luminosi degli idol, nei drammi romantici pieni di visual da sogno, nei colori pastello delle maschere viso.
Ma dietro ogni BB cream, ogni linea di eyeliner perfetta, ogni sorriso candido... c’è una storia fatta di orgoglio culturale, innovazione, ma anche pressione e sacrificio.

Amare la Corea significa anche questo: conoscerne le ombre. E imparare, magari, a prenderci cura di noi senza inseguire modelli irraggiungibili.
Perché la pelle perfetta esiste. Ma quella vera, quella che parla di vita vissuta, di libertà, di identità... è ancora più bella.

Fonte:

  1. https://ling-app.com/ko/korean-makeup-vocabulary/
  2. https://ling-app.com/ko/korean-beauty-standards/