19 giugno 2025

Seoul: la città che è rinata dalle sue ceneri

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Seoul, la vivace capitale della Corea del Sud, è ormai una delle metropoli più riconosciute e celebrate al mondo. La sua energia brulicante, i suoi panorami notturni fatti di luci e grattacieli, la sua bellezza che mescola tradizione e avanguardia… hanno catturato il cuore di milioni di persone. Nel 2016, si stima che ben 13,5 milioni di turisti abbiano messo piede nella città. Ma c’è qualcosa che molti dimenticano: Seoul non è sempre stata quella città moderna, pulsante e scintillante che conosciamo oggi.

C’è stato un tempo in cui Seoul non era nemmeno la capitale. Ha vissuto guerre, invasioni, distruzioni. Eppure è proprio attraverso questi passaggi duri e complessi che ha trovato la sua vera forma: una gemma che ha brillato solo dopo essere stata temprata nel fuoco del cambiamento.


Dalle origini antiche al cuore di una dinastia

Intorno al 57 a.C., la Corea era divisa tra tre grandi regni: Goguryeo (고구려), Baekje (백제) e Silla (신라), un’epoca ricordata come 삼국시대 (Samguk Sidae). Tra alleanze e scontri, questi regni si sono contesi territori, potere, influenza. E Seoul — o meglio, la regione in cui oggi sorge Seoul — era già allora una posizione strategica contesa e ambita.

Fu solo molto più tardi, durante la dinastia Joseon (1392–1897), che Seoul venne proclamata ufficialmente capitale del regno. Ma anche quel titolo fu messo alla prova: durante la colonizzazione giapponese all’inizio del XX secolo, la città fu ribattezzata Gyeongseong (경성), e solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, tornò a chiamarsi Seoul.

Poco dopo, arrivò un altro colpo durissimo: la Guerra di Corea, che si concluse nel 1953. La città, come il resto del paese, fu lasciata in macerie. Una città ferita. Spezzata. Ma non sconfitta.


Il miracolo che nacque dal dolore

Dopo il conflitto, la Corea fu divisa in due. E mentre il Nord si chiuse su sé stesso, il Sud, aiutato dagli Stati Uniti, iniziò una faticosa risalita. Una rinascita che, con il tempo, prese il nome di Miracolo sul fiume Han (한강의 기적). Un miracolo fatto di sforzi, sudore e sacrifici.

A guidare questa trasformazione fu Park Chung-hee, ex generale militare e poi terzo presidente del Paese. Con i suoi Piani quinquennali (경제사회발전 5개년계획), Park immaginava una Corea del Sud capace di camminare con le proprie gambe, senza più dipendere dagli aiuti esterni. L’obiettivo era chiaro: sviluppare l’industria, l’agricoltura, l’energia. E, più tardi, puntare sull’elettronica, sull’acciaio, sull’innovazione.

È in questo contesto che marchi come Samsung e Hyundai hanno trovato il terreno fertile per crescere fino a diventare giganti globali. Nel 1995, la Corea del Sud era già l’undicesima economia mondiale. Una scalata impressionante. Ma, come sempre, ogni successo porta con sé anche delle ombre: lo sviluppo fu pagato da generazioni di lavoratori sottopagati e sfruttati, vittime silenziose di un sistema che chiedeva tutto, in cambio di una speranza.


Educazione, riforme e apertura al mondo

Dal 1961 al 1996, il paese non si è mai fermato. Investì in educazione come se da essa dipendesse il futuro — e in effetti era proprio così. Il tasso di analfabetismo crollò, e la scuola divenne il primo gradino per sollevare intere famiglie dalla povertà. Anche la terra fu redistribuita, sottraendola ai grandi proprietari giapponesi e consegnandola a una nuova classe media in crescita.

Intanto, la Corea del Sud si apriva sempre di più al mercato globale. Gli Stati Uniti, il Giappone, l’Europa: la Corea iniziò a dialogare con il mondo, a esportare non solo prodotti, ma cultura. Un piccolo paese che voleva farsi sentire. E ci è riuscito.


La Seoul di oggi: una capitale tra tradizione e Hallyu

Seoul oggi è un mosaico di contrasti. Grattacieli che svettano accanto a case tradizionali. Caffetterie minimaliste con il logo dorato di Starbucks, a due passi dai tetti curvi degli hanok. Adolescenti che ballano sulle note degli idol K-pop lungo il fiume Han, dove un tempo regnavano silenzio e macerie.

Lungo quel fiume — simbolo e spettatore del cambiamento — ora ci sono parchi pieni di giovani, famiglie, turisti. Tutti immersi nell’onda Hallyu, quell’esplosione globale di cultura coreana che ha trasformato il paese in un trendsetter internazionale.

Eppure, camminando per le strade di Bukchon Hanok Village, o varcando le porte di Gyeongbokgung, non è difficile sentire ancora il battito di un cuore antico. Seoul non ha dimenticato da dove viene. E non vuole farlo.


Da nazione chiusa a crocevia globale

Per decenni, la Corea del Sud è stata un paese omogeneo, isolato, abitato quasi esclusivamente da coreani. Oggi non è più così. Nel 2015, i residenti stranieri erano più di 1,8 milioni — il 3,4% della popolazione — e la maggior parte non proveniva nemmeno dalla vicina Cina. A Seoul, oggi, si incontrano cucine di ogni parte del mondo, stili di vita ibridi, culture che si mescolano in un equilibrio fragile ma affascinante.

La globalizzazione ha lasciato il segno. E la nuova generazione lo porta scritto addosso, nei vestiti, nelle scelte, nel modo di pensare. Un cambiamento figlio anche di internet, che ha aperto una finestra sull’Occidente e sul mondo.


Il cuore che non smette di battere

Con i suoi quasi 10 milioni di abitanti, Seoul è il simbolo vivente della resilienza. Ha superato la crisi finanziaria del 2008 come un gigante silenzioso, piegato ma mai spezzato. Continua a cambiare, a reinventarsi. Ma non dimentica. Le sue radici sono salde, anche mentre il vento del futuro le spettina i capelli.

Per questo, Seoul non è solo una città. È una storia. È un messaggio. È la dimostrazione che anche da ciò che è rotto si può ricostruire. Che anche dopo la guerra, l’occupazione, la povertà… si può ancora risorgere. E brillare.


Fiore nazionale coreano: Un promemoria della propria speranza e forza

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C’è qualcosa di profondamente poetico nel fatto che il fiore nazionale coreano non sia il più raro, il più appariscente o il più profumato. È semplicemente il più resistente.

Il Mugunghwa – conosciuto anche come Rose of Sharon – non si lascia abbattere. Anche quando appassisce, anche quando sembra ormai perduto, sboccia di nuovo. E lo fa con una determinazione così tranquilla da sembrare naturale, come se non potesse fare altrimenti.

Ed è proprio questo il punto.

Il Mugunghwa incarna perfettamente lo spirito del popolo coreano: forte, tenace, instancabile. In un mondo in cui i fiori sono spesso associati alla delicatezza, alla fugacità e alla bellezza effimera, la Corea ha scelto un fiore che racconta invece una storia di resistenza, rinascita e identità.

Un fiore che racchiude un popolo intero

Oggi la Corea del Sud è sulla bocca di tutti. Cultura pop, skincare, elettronica, cinema, musica: da Seoul al resto del mondo, la sua influenza sembra inarrestabile. Ma non è sempre stato così.

Fino a pochi decenni fa – e parliamo del 1953, praticamente ieri se si guarda alla storia di una nazione – la Corea era una terra martoriata da guerre, invasioni, colonizzazioni. Una terra che conosceva bene la parola "lotta". Eppure, nonostante tutto, non si è mai arresa.

Come il suo fiore.

Il Mugunghwa, che in coreano si scrive 무궁화, deriva dalla parola mugung (무궁), che significa "eternità", "infinito", "immortalità". È una pianta che può sopravvivere a condizioni estreme. Può sembrare stanca, abbattuta, a fine corsa… e poi, senza preavviso, torna a fiorire con forza. Proprio come la Corea, che ha trovato nella sua sofferenza un’identità solida, nel suo passato doloroso un motivo per andare avanti.

Una bellezza antica, radicata nella leggenda

La storia del Mugunghwa affonda le radici nei miti fondatori della Corea. Secondo la leggenda, il re Dangun – figura semidivina e fondatore del primo regno coreano, Gojoseon – era figlio del dio Hwanung e di una donna nata da un’orsa trasformata in essere umano. In quel tempo lontano, il Mugunghwa veniva chiamato fiore del cielo e rappresentava un dono celeste, qualcosa di sacro.

Non a caso, nella storia coreana, questo fiore ha sempre avuto un posto speciale. Durante l’epoca del Regno di Silla, il territorio era conosciuto come Geunhwahyang, ovvero "Terra del Mugunghwa". E sotto la dinastia Goryeo, le rappresentazioni del fiore erano talmente importanti da diventare persino una forma di ricompensa per i funzionari pubblici più meritevoli.

Un fiore che premiava l’impegno e il valore. Un fiore che non era solo decorativo, ma narrativo. Diceva: "Hai resistito. Hai fatto la cosa giusta. Sei degno."

Quando la bellezza diventa atto di resistenza

Ma c’è un capitolo particolarmente intenso nella storia del Mugunghwa, e riguarda il periodo più buio della Corea moderna: la colonizzazione giapponese (1910-1945).

In quegli anni, ogni simbolo dell’identità coreana era represso. Parlare la propria lingua, tramandare le proprie tradizioni, persino coltivare certi fiori era considerato un atto sovversivo. Ma i coreani non si lasciarono zittire. In segreto, iniziarono a piantare Mugunghwa ovunque. Nei cortili, nei giardini nascosti, nei campi lontani dagli occhi delle autorità.

Era un gesto semplice, silenzioso, ma potentissimo. Un fiore dopo l’altro, il Mugunghwa divenne un simbolo di resistenza, di speranza, di libertà desiderata. E quando finalmente la Corea ottenne l’indipendenza, fu naturale scegliere proprio lui come fiore nazionale.

La sua forma, il suo colore, il suo significato

Il Mugunghwa non è un fiore qualsiasi.
Appartiene alla famiglia degli ibischi, specie Syriacus. I suoi fiori hanno in genere cinque petali, e sbocciano in colori delicati ma intensi: bianco, rosa, viola, rosso. Fiorisce da luglio a ottobre, con una costanza impressionante. Anche quando un fiore appassisce, subito ne sboccia un altro. Il ciclo continua, instancabile.

La pianta ha una forma eretta, a vaso, e viene spesso usata sia come pianta ornamentale che per infusi curativi. Sì, perché il Mugunghwa è anche un rimedio della medicina tradizionale: abbassa la pressione, rinfresca l’organismo, protegge la pelle, combatte l’infiammazione.

In un certo senso, è come se la sua forza si trasmettesse anche a chi lo assume.

Un simbolo vivo che ancora oggi ci parla

Oggi il Mugunghwa si trova ovunque in Corea del Sud: sui documenti ufficiali, negli edifici pubblici, persino nelle uniformi della polizia. È onnipresente, ma non scontato. Perché ogni fiore porta con sé una storia millenaria, fatta di cadute e rinascite, di oppressioni e liberazioni, di sacrifici silenziosi e trionfi fragorosi.

È facile lasciarsi incantare dal K-pop, dalle luci di Seoul, dai drama che ci fanno sognare. Ma c’è qualcosa di ancora più profondo da scoprire.
Qualcosa che va oltre la superficie. Qualcosa che ha radici.

Il Mugunghwa non è solo il fiore nazionale della Corea. È la memoria di ciò che è stato e la speranza di ciò che sarà. È un promemoria, per tutti noi, che anche nelle fasi più buie possiamo tornare a sbocciare.

E forse, la prossima volta che lo vedrete in un parco di Seoul, in una tazza di tè, su un murales o in un angolo inaspettato del mondo, vi ricorderete che anche voi siete come lui: capaci di rifiorire, sempre.


fonte: X

Il lungo viaggio dei K-Drama: dalle onde radio all'ondata globale

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C’erano una volta le storie. Raccontate con la voce, tra suoni di sottofondo, narratori teatrali e voci alterate per ogni personaggio. Era il 1927, la Corea era ancora sotto il dominio giapponese, e la radio rappresentava uno dei pochi spiragli d’immaginazione collettiva. Il 70% dei contenuti era in giapponese, solo il 30% in coreano. Ma anche in quel piccolo spazio, qualcosa stava nascendo. Un bisogno di raccontarsi, di ritrovarsi, di sperare.

Nel 1956 arrivò il primo esperimento televisivo: la stazione KLKZ-TV. Un piccolo miracolo tecnologico che, per la prima volta, trasmise un pezzo televisivo coreano: “The Gate of Heaven”, della durata di 15 minuti. Poi, l’incendio. La stazione fu distrutta, e con lei il sogno appena nato. Ma la Corea non era pronta a rinunciare. E nel 1961 nacque la KBS (Korean Broadcasting System), il primo canale nazionale di successo. L’anno successivo andò in onda il primo drama ufficiale: Backstreet of Seoul, un racconto che più che intrattenere, voleva educare. Era la televisione del regime militare, e ogni trama doveva sostenere i valori dello Stato.

Nello stesso anno vide la luce anche Gukto Manri, primo drama storico ambientato nell’era Goryeo e diretto da Kim Jae-hyeong. Ma la tv, allora, era un lusso. Pochi potevano permettersi un apparecchio, e i drama erano privilegio di una piccola élite. Solo con gli anni ’70 i televisori iniziarono a comparire nelle case di milioni di coreani, e le storie si fecero più intime, vere, dolenti. Serie come Stepmother (1972-1973), diretta da Kim Soo-hyun, iniziarono a raccontare la sofferenza personale, i drammi familiari, le piccole ingiustizie quotidiane.

Non c’erano effetti speciali, né grandi budget. L’azione e la fantascienza erano sogni lontani. Eppure, quella sincerità, quella capacità di toccare l’animo, bastava a incollare il pubblico allo schermo. Gli anni ’80 segnarono un punto di svolta: arrivò la televisione a colori, e con lei, il primo grande successo nazionale. Love and Ambition (1987), ancora una volta diretto da Kim Soo-hyun, registrò un’audience del 78%. Il paese si fermava, letteralmente, durante la sua messa in onda.

E poi ci fu 500 Years of Joseon: una colossale epopea durata 8 anni e suddivisa in 11 serie, diretta da Lee Byung-hoon, che in seguito avrebbe firmato anche Dae Jang Geum. Era il tempo dei grandi drammi storici, delle saghe familiari, dei valori morali. Ma i tempi stavano cambiando. Gli anni ’90 aprirono le porte a qualcosa di nuovo. Con la nascita della SBS, i drama iniziarono a esplorare nuovi temi e formati. Sandglass (1995) non fu solo un successo: fu una rivoluzione. Raccontò l’insurrezione di Gwangju, un tabù nazionale, con una narrazione intensa e una fotografia da cinema. Fu anche l’inizio del “formato miniserie”: 12-24 episodi, perfetti per una narrazione coinvolgente e senza lungaggini.

Fu quella scintilla a far nascere l’Hallyu, l’onda coreana.

I K-drama iniziarono a viaggiare. Prima in Asia, poi ovunque. Winter Sonata (2002) conquistò il Giappone e fece impennare il turismo coreano. My Love from the Star arrivò in Cina e fu visto 40 miliardi di volte. Sì, miliardi. Talmente tanto che alcuni drama vennero riadattati in lungometraggi. Talmente tanto che la Cina iniziò a preoccuparsi. Tra febbraio e novembre 2017, a causa di tensioni diplomatiche, i drama coreani furono bannati dal mercato cinese. Ma l’onda non si fermò.

Anzi, si rafforzò.

Il romanticismo coreano conquistò il mondo. Full House, Secret Garden, Descendants of the Sun, Crash Landing on You. Ma anche thriller politici, storie psicologiche, commedie assurde. I fusion sageuk, drammi storici con elementi moderni, iniziarono a brillare: Damo, Jewel in the Palace, Moon Embracing the Sun. Le protagoniste erano donne complesse, resilienti, tragiche. Gli uomini… spesso semplicemente bellissimi. Eppure, umani.

Con l’arrivo degli smartphone, nacquero i web drama: brevi, intensi, pensati per essere visti ovunque, in metropolitana, a letto, persino in pausa pranzo. E con loro, arrivarono anche le trasposizioni da webtoon, i fumetti digitali coreani: Cheese in the Trap, Misaeng, Orange Marmalade. Era un’epoca nuova. Più rapida, più digitale, più internazionale.

Ma c’era un problema: la lingua.

Solo lo 0,7% della popolazione mondiale parla coreano. Eppure i K-drama sono ovunque. Com’è possibile? Grazie ai sottotitoli. Grazie a Netflix, Viki, KOCOWA. Grazie anche ai siti illegali – lo sappiamo tutti – come KissAsian o Dramacool, che hanno permesso a milioni di persone di scoprire un mondo nuovo. E sì, grazie anche a Dramafever (rip, ci manchi), che dal 2009 distribuiva drama gratuiti sottotitolati in inglese. Dopo la sua chiusura nel 2018, Viki è diventato il rifugio globale per i fan.

I vecchi canali come TV AZN o ImaginAsian, che mandavano in onda drama in Nord America, chiusero nel 2008 e nel 2011. Ma lo streaming prese il sopravvento. Netflix iniziò a distribuire drama coreani già nel 2008. E da lì, tutto cambiò.

La Corea stessa ne è consapevole. Il governo ha istituito centri culturali in tutto il mondo, ha collaborato con Netflix e con case di produzione come Studio Dragon. La KOFICE (Korean Foundation for International Cultural Exchange) aiuta a distribuire i drama gratuitamente in altri Paesi. Il soft power è reale. Parasite ha vinto l’Oscar. Squid Game ha dominato le classifiche globali. Ma tutto era cominciato con Love and Ambition. Con Sandglass. Con la voce narrante del 1927.

E in patria, come vengono vissuti i drama?

Con orgoglio, ma anche con occhio critico. I coreani sanno bene che non tutto ciò che si vede è reale: corpi perfetti, amore idealizzato, amicizie impossibili. Ma riconoscono anche che certi aspetti – il rispetto gerarchico, l’attenzione al cibo, il valore delle tradizioni – sono profondamente autentici. La censura, ancora oggi, è presente. Il KMRB (Korea Media Rating Board) vigila severamente, soprattutto sui contenuti sessuali o troppo violenti. La giovane età media del pubblico impone responsabilità.

Eppure, all’estero, i K-drama vengono amati forse ancora di più che in patria. Perché offrono qualcosa che altrove non si trova. Un’emozione pulita. Un sogno a portata di mano. Protagonisti belli, ma vulnerabili. Cliffhanger che ti obbligano a vedere “solo un altro episodio”. Episodi da un’ora. Stagioni brevi. E quel mix perfetto di malinconia, speranza e colonna sonora struggente che ti fa dire: “Okay, solo un altro.”

Dal primo radiodramma del 1927 alle serie da binge-watching del 2025, i K-drama non sono semplici fiction. Sono specchi, sogni, strumenti di memoria e rivoluzione. Sono mondi in cui rifugiarsi, spesso per tornare a noi stessi.