Ci sono argomenti che, per quanto li abbia affrontati mille volte, sembrano sempre sfuggirti tra le dita. Ogni volta che mi siedo per scrivere sull’hanbok, finisco in un vortice di emozioni, immagini, e silenzi che profumano di seta e storia. È successo di nuovo. Ma stavolta ho deciso di cedere a questo richiamo, lasciando che fossero due personaggi a guidarmi in questo viaggio tra pieghe, colori e memorie: Kim Boong-Do, il nostro impassibile studioso Joseon, e Lee Se-ryung, la donna che ha indossato, letteralmente, ogni volto della storia.
Quando l’eleganza è una forma di identità
L’hanbok non è solo un abito. È uno specchio. Di chi lo indossa, di ciò che si è e soprattutto di ciò che si vorrebbe mostrare al mondo. Nel mondo dei drama storici, gli abiti raccontano quasi più dei dialoghi. E se c’è qualcuno che ha saputo raccontare senza dire troppo, quello è Boong-Do, l’uomo dai mille cappotti e sguardi di velluto.
A prima vista, l’hanbok maschile potrebbe sembrare monotono, ma basta osservare attentamente per accorgersi della sua ricchezza: jeogori (저고리) più lunghi rispetto a quelli femminili, baji (바지) ben stretti alle caviglie con le corde daenim, e poi i dettagli – piccoli, essenziali – come le boseon, le immancabili calze bianche indossate da tutti, dal contadino al re.
Boong-Do, poi, ci regala uno sguardo completo su ogni sfaccettatura dell’abito maschile. Non si limita al quotidiano: lo vediamo con il dopo (도포) ampio e fluttuante, spesso accompagnato dal jeonbok, un gilet senza maniche che aggiunge carattere. Ogni strato ha un significato, ogni tessuto racconta un livello sociale. Persino il saejodae, la cintura con frange, cambia colore a seconda del rango.
E i cappelli? Ah, lì si apre un mondo. Il gat (갓), il cappello nero semi-trasparente in crine di cavallo, con tanto di gatkeun, il laccio impreziosito da gemme riservato ai nobili. O ancora il più discreto jeongjagwan, per le ore casalinghe. L’eleganza dell’uomo Joseon si manifesta nel sussurro dei dettagli, mai nel grido dei colori.
L’hanbok femminile: ogni trasformazione, un abito nuovo
E poi c’è Lee Se-ryung. Lei che da figlia di nobile è diventata principessa, poi schiava e infine comune cittadina. Lei che ha attraversato ogni scala sociale e, nel farlo, ha indossato ogni possibile variazione dell’hanbok. Se Boong-Do è la continuità dell’eleganza maschile, Se-ryung è la metamorfosi continua del destino femminile.
Si parte sempre da dentro: il sok-ot (속옷), l’intimo, è bianco e silenzioso. Sokbaji, sokchima e sokjeogori – pantaloncini, sottogonna e sottogiacca. Strati invisibili che definiscono la silhouette e il portamento. Le nobildonne usano seta, le comuni mortali si arrangiano con cotone, se lo hanno.
Il jeogori femminile, corto e vivido, si distingue da quello maschile per l’estro. Il goreum (il nastro che chiude il davanti), il git (colletto) e il kkeutdong (i polsini) sono spesso realizzati con tessuti diversi, a contrasto. Un’arte visiva, oltre che sartoriale.
La gonna, o chima, fluttua come una nuvola e si colora di rossi, verdi, viola. Ogni combinazione racconta un’origine, una classe, una celebrazione. Se sei una principessa, puoi indossare la dangui, con geumbak, ricami dorati che mostrano fiori o draghi. Se sei una sposa, la scelta è l’hwarot, abito rosso da cerimonia tempestato di auguri ricamati.
E quando la vita si fa dura? Quando Se-ryung diventa schiava? Anche l’hanbok cambia. Addio seta, benvenuto cotone grezzo. A volte nemmeno quello è tuo: indossi ciò che resta dei vestiti altrui. Eppure, anche in quel momento, ogni piega racconta chi eri, chi sei e chi non vuoi dimenticare di essere.
Il diritto all’invisibilità
Una nota che mi ha sempre colpita è come le donne, pur vestite a festa, fossero invisibili al mondo esterno. Quando uscivano, dovevano coprirsi. Non con un cappello, ma con un intero mantello: il jangot, o in alternativa il sseugae chima. Un modo per celare il volto, per negare la propria presenza. E mi fa sempre riflettere su come, in quella società rigida, il corpo femminile fosse considerato un segreto da custodire. O da nascondere.
Scarpe, dignità e destino
Sia per gli uomini che per le donne, le scarpe chiudono il cerchio. I contadini indossano le jipsin, sandali di paglia. I nobili, le hye o le taesahye, spesso foderate di pelliccia. Le spose, scarpe ricamate che sembrano uscite da un sogno. Eppure, anche lì, la differenza non è solo estetica: è sociale, è economica, è politica.
Dalla seta dei palazzi ai pixel dello schermo
C’è qualcosa di profondamente toccante nel vedere un personaggio come Se-ryung cavalcare con il suo hanbok spiegazzato o Boong-Do chiudersi il gat con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Sono istanti che condensano secoli di storia in un singolo fotogramma. E noi, spettatori moderni, ci perdiamo tra pieghe e pensieri.
Vorrei tanto toccarli, quegli abiti. Vederli in un museo, annusare il tempo che contengono. Ma per ora mi basta ritrovarli nei drama, nei personaggi che amo, nei movimenti lenti che raccontano un mondo scomparso – ma che in fondo, vive ancora tra le cuciture della mia memoria.
Quindi sì, hanbok. Ancora una volta. Sempre.
Fonte:
- https://thetalkingcupboard.com/2013/04/10/hanbok-for-women-lee-se-ryungs-style/
- https://thetalkingcupboard.com/2012/06/21/hanbok-for-men-kim-boong-dos-style/