29 maggio 2025

La vera storia dietro ai drama: Re d'espansione – Geunchogo e Gwanggaeto, padri della grande Corea

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Nel tempo antico dei Tre Regni, quando la penisola coreana era divisa tra Goguryeo, Baekje e Silla, non erano le leggi o i trattati a disegnare le mappe.
Erano le spade, la strategia, e la visione dei re.

Due nomi emergono su tutti: King Geunchogo, sovrano di Baekje, e King Gwanggaeto il Grande, gloria di Goguryeo.
Uomini diversi, regni rivali, ma accomunati da un’identica eredità: avere trasformato la Corea in un impero che guardava oltre i suoi confini.

🏹 King Geunchogo – Il signore del Sud

Sovrano della dinastia Baekje tra il 346 e il 375 d.C., Geunchogo fu artefice di un’espansione militare e commerciale straordinaria.
Conquistò territori lungo il fiume Han, sottomise Mahan e impose la sua autorità fino ai confini con Goguryeo.

Ma la sua grandezza non fu solo bellica. Fu lui a promuovere la cultura, l’agricoltura avanzata, e i rapporti diplomatici con la Cina dei Jin Orientali.
Sotto il suo regno, Baekje divenne un crocevia di scambi e innovazioni.

Il drama a lui dedicato racconta una figura decisa, ambiziosa, ma anche profondamente devota alla prosperità del popolo.
Un re che non voleva solo vincere: voleva costruire.

🐉 King Gwanggaeto the Great – Il conquistatore eterno

A nord, un secolo dopo, un altro nome inciderà il proprio nel mito: Gwanggaeto, il 19º re di Goguryeo.
Salì al trono nel 391 d.C., a soli 17 anni, e in meno di tre decenni allargò i confini del suo regno in tutte le direzioni: Corea, Manciuria, parte della Mongolia.

Sotto di lui, Goguryeo raggiunse l’apice della sua estensione territoriale, diventando un vero impero militare e culturale.
Fu un re-eroe, celebrato nella stele di Gwanggaeto, ancora oggi visibile in Cina: un monumento alla gloria, alla strategia, alla lungimiranza.

Nel drama che lo racconta, la sua figura è avvolta da un’aura mitica: saggio ma intransigente, carismatico ma tormentato dal peso della responsabilità.
Un re che non ha mai conosciuto la sconfitta, ma che ha pagato ogni vittoria con la solitudine del comando.


✨ Re diversi, stessa eredità

Geunchogo costruì un regno florido, con le mani nella terra e gli occhi sul commercio.
Gwanggaeto edificò un impero con la spada in pugno e la corona stretta tra i denti.
Entrambi, però, hanno scritto la storia della Corea come nessun altro.

I loro drammi ci restituiscono una verità nascosta sotto secoli di conquiste, invasioni e silenzi:

Prima ancora che Joseon e Goryeo ordinassero la Corea,
furono questi re a darle un cuore espansivo, ambizioso, visionario.

In un’epoca in cui la storia si tramandava attraverso le leggende,
loro divennero leggenda vivendo.

Cose che odio (e amo) nei K-Drama: confessioni da spettatrice affezionata

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Chi guarda drama da tanto tempo lo sa: l’amore per questo mondo è fatto di sospiri, di urla disperate davanti allo schermo, di momenti che ti spaccano il cuore e di altri che ti fanno pensare “ok, adesso basta, mollo tutto e divento sceneggiatrice io!”. Perché ci sono cose che non sopporto più, e altre che mi fanno ancora brillare gli occhi. Quindi eccole qui. Le cose che odio, che mi mandano ai pazzi, che mi fanno dire “di nuovo?”, e quelle che amo con tutto il cuore. Spoiler: se ti ritrovi in almeno tre punti… sei dei nostri.

ODIO QUANDO...


1. Il corpo della protagonista femminile viene umiliato

Questa è una delle cose che mi fa davvero salire la rabbia.
Perché mai si dovrebbe insegnare a una ragazza che deve cambiare per essere amata? Perché mostrarci donne che si sottopongono a chirurgia plastica o si trasformano completamente per attirare lo sguardo di qualcuno?

Il peggio è che il “lui” di turno si accorge di lei solo dopo la trasformazione, come se prima non valesse abbastanza.
Birth of a Beauty, Queen of the Ring, Dream High… potrei continuare.

Sì, lo so: in Corea gli standard estetici sono spietati. Ma anche noi spettatrici abbiamo bisogno di vederci rappresentate con dignità, forza e autenticità. Non vogliamo più messaggi che fanno sentire sbagliato il nostro corpo.

Ricordalo: gli specchi raccontano solo metà della storia.


2. La Second Lead Syndrome mi distrugge l’anima

Ogni fan esperto lo sa: la Second Lead Syndrome non perdona.
Arriva quando il secondo protagonista è più gentile, più empatico, più presente del protagonista “ufficiale”. È quello che resta, che consola, che capisce. È quello che ameremmo nella vita vera.

Eppure... finisce per essere rifiutato. Sempre.
Ed eccoci lì, a piangere per lui, a gridare davanti allo schermo:

"MA SCEGLI LUI! O ALMENO... DATEMELO A ME!"

Drama come Kill Me, Heal Me peggiorano la situazione perché ti regalano più di un personaggio che meriterebbe amore. E invece… nisba. E il nostro cuore si spezza. Sempre.


3. I protagonisti adulti si comportano come bambini capricciosi

C’è una bella differenza tra essere giocosi e risultare infantili.
E certi personaggi che dovrebbero essere adulti – parliamo di gente con un lavoro, una vita, magari anche dei figli – sembrano usciti da un cartone animato rumoroso.

Gridolini, reazioni esagerate, scatti d’ira immotivati, risatine fuori luogo… capisco che si voglia creare un tono leggero, ma così si finisce per rendere i personaggi irritanti e poco credibili.

Hwang Jung Eum è stata spesso criticata per questo tipo di interpretazioni, e purtroppo a volte ha davvero compromesso l’intero drama.
Essere simpatici ≠ fare i buffoni.


4. Quando non riescono a scegliere tra due amori (e ci trascinano con loro)

Hai due pretendenti. Non riesci a decidere.
Passano settimane, mesi, sedici episodi, e sei ancora lì a fare il gioco del “chi mi piace di più oggi?”. No, grazie.

È frustrante e a tratti persino ingiusto.
Perché alla fine c’è sempre un cuore spezzato e uno spettatore esausto.
E spesso, mentre i protagonisti si dibattono, gli sceneggiatori cavalcano il triangolo amoroso come se fosse un modo per allungare il brodo.

Drama come Just You, Devil Beside You, Doctor Stranger, Siege in Fog… li ho visti, li ho sofferti, e ancora mi domando:

“Non potevi scegliere prima? Magari senza farci odiare tutti?”


5. Quando uno dei due lascia l’altro “per amore”

Questa è la cosa che mi fa più arrabbiare in assoluto.
Il classico cliché del:

“Lo/la lascio perché non sono abbastanza.”
“Lo/la lascio per proteggerlo/a.”

No.
Il vero amore non scappa. Non si arrende. Non prende decisioni unilaterali in nome dell’altro.

Voglio coppie che lottano insieme, non che si arrendono da sole.
Voglio storie come quella di Siege in Fog, dove anche quando il mondo crolla, i sentimenti non vacillano.

E quando, dopo anni di separazione forzata, tornano insieme con un “Mi sei mancato”, io non piango. Mi arrabbio. Perché non dovevano separarsi affatto.

...MA AMO QUANDO:


1. Un personaggio viene spiegato, non solo mostrato

Non c’è niente di più potente di un buon villain con una buona storia.
Perché sì, nessuno nasce cattivo. E quando il drama ci mostra le ferite, il passato, le scelte dolorose dietro alla maschera, tutto cambia.

Comincio a capirli. A perdonarli. A volte, anche ad amarli.

Amo quando il male ha una motivazione profonda. Quando ti lascia un dubbio: “E se fossi stato io al suo posto? Avrei fatto di meglio?”.
Sono queste le storie che restano.


2. Le scene d’azione sembrano vere

Combattere non è solo dare pugni. È credere in ciò che stai facendo.
E quando una scena d’azione è ben girata, ben coreografata e soprattutto credibile, allora il drama acquista una forza completamente diversa.

Iljimae resta una delle mie serie preferite proprio per questo.
Ogni colpo sembrava reale. Ogni ferita era visibile. Ogni movimento aveva un peso.

Odio, invece, le scene in cui il protagonista sconfigge dieci uomini armati con una mano in tasca e l’altro sul ciuffo.
La spettacolarità non deve togliere verità. A meno che non sia un fantasy, ovvio.


3. Un drama ti cambia la prospettiva

Ci sono storie che non guardi solo per passare il tempo. Le guardi perché ti parlano. Ti svegliano. Ti spingono a riflettere.

Cruel City è stato così per me.
Uno di quei pochi drama che non addolciscono la realtà, ma te la mostrano per quella che è: sporca, difficile, a volte crudele.

Non era solo una serie. Era una lezione.
E anche ora, a distanza di tempo, alcune sue frasi mi risuonano dentro come promemoria.

La vita non è tutta amore e OST dolci. Ma proprio per questo, va vissuta con forza.


amiamo i K-Drama, nonostante tutto

Guardare drama è un viaggio.
Fatto di cose che ci fanno arrabbiare e altre che ci fanno piangere di gioia. Ma in fondo è proprio questo il bello: esserci dentro, con tutto il cuore.

E anche se a volte diciamo “basta, non ne guardo più”, sappiamo tutti che…
al prossimo “Oppa…” ci ricascheremo di nuovo.

Perché il drama perfetto non esiste. Ma esistono momenti perfetti.
Ed è per loro che restiamo.

Hanok: il cuore nascosto dei K-Drama storici (e non solo)

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Ci sono cose che i K-Drama insegnano senza nemmeno doverle spiegare. Le assorbi con gli occhi, le respiri attraverso le scene lente e i silenzi carichi di tensione. Una di queste è l’Hanok, la casa tradizionale coreana. Magari non ne conoscevi il nome, ma ti sei affezionata alla sua atmosfera senza rendertene conto. Perché se ami i sageuk — i drama storici ambientati nella Corea antica — hai sicuramente incontrato un hanok. Lì dove si tengono i colloqui più intimi, si condividono segreti in sussurri, si vive quel quotidiano che sembra lento solo in apparenza, ma è carico di significati.

A differenza dei palazzi reali, riservati alla corte della dinastia Joseon, gli hanok rappresentano la quotidianità. Non importa se si tratta della casa di un ministro o di un contadino: ogni hanok custodisce la storia di chi ci abita. E oggi, questo termine racchiude l’essenza stessa della casa coreana tradizionale, un ponte tra passato e presente che sopravvive ancora, seppur con fatica, nei vicoli più antichi di Seoul.

Tra tegole e paglia: lo status sociale nel tetto

Come in ogni società rigidamente strutturata, anche nell’architettura dell’epoca Joseon nulla era lasciato al caso. Perfino il tetto parlava. I tetti in tegole, ad esempio, erano il simbolo della classe nobile — i yangban — e dei ricchi commercianti. Costruirli era costoso: dalle materie prime alla cottura delle tegole, tutto comportava spese non indifferenti. Guardare una scena con un hanok dal tetto elegante equivale a riconoscere, senza bisogno di parole, che ci troviamo nella dimora di una famiglia potente.

Al contrario, le abitazioni con tetti di paglia — le più frequenti nei sageuk — raccontano un'altra realtà: quella della gente comune. Erano economiche, pratiche, e adattabili a molti ambienti. Ogni casa, ogni tetto, era una dichiarazione implicita di chi si era e di cosa ci si poteva permettere.

E poi c’erano le varianti meno note ma ugualmente affascinanti: tetti di canne, corteccia di quercia, lastre di legno, persino vere e proprie capanne di tronchi. Tutto dipendeva dalla posizione geografica e dal clima: un hanok in montagna aveva esigenze diverse rispetto a uno vicino al mare.

Uno spazio per ogni cosa (e per ogni persona)

L’hanok non era semplicemente un’abitazione. Era un piccolo mondo, perfettamente organizzato, in cui ogni spazio aveva una funzione precisa, in linea con i valori confuciani che impregnavano ogni aspetto della vita.

Per esempio, uomini e donne vivevano in zone separate. Il cuore femminile della casa era l’anchae (o anbang, la “stanza interna”), dove la padrona di casa trascorreva la maggior parte del tempo: cucinava, custodiva i vestiti e la biancheria, gestiva le attività domestiche. Non è un caso che nei drama venga spesso chiamata “anbang manim” — la signora dell’anbang.

L’uomo di casa, invece, aveva uno spazio tutto suo: il sarangchae, un edificio distaccato dove riceveva gli ospiti, studiava, meditava. Il suo sarangbang era la stanza degli scritti, del tè, dei momenti di riflessione. A metà tra i due mondi, si trovava spesso il daechung, un’ampia sala comune, a cielo aperto o semiaperta, che fungeva da ponte simbolico tra maschile e femminile.

E poi, come dimenticare i figli? I maschi non sposati avevano stanze-studio che di notte diventavano camere da letto. Le figlie nubili vivevano in edifici secondari, più nascosti. Tutto era regolato, tutto aveva un posto — anche i silenzi.

Il cortile: teatro di vita

Chi ama i K-Drama sa bene quanto un cortile possa dire, anche senza parole. È lì che si ricevono gli ospiti, si svolgono matrimoni, si tengono cerimonie. È lì che qualcuno si inginocchia, qualcun altro si allontana con lo sguardo basso, o si lancia una corsa disperata in piena notte. Ma c’è una regola che spesso passa inosservata: nei cortili non ci sono alberi. Non per caso, ma per scaramanzia. Il motivo? La combinazione dei caratteri cinesi usati per rappresentare "casa" e "albero" formava il simbolo di “problema” o “trappola”. Un messaggio sottile, ma potente.

Cancelli, cucine e... kimchi

Ogni hanok aveva più cancelli: il grande portale principale, spesso imponente, che segnalava la potenza della famiglia; i cancelli interni, che dividevano i diversi edifici; e i piccoli cancelli laterali, riservati ai servitori. Anche qui, l’ordine era tutto: i servitori dormivano vicino all’ingresso, i più importanti — come le nutrici o le governanti — un po’ più vicini al cuore della casa.

Nei pressi della cucina c’erano le stanze di servizio, i magazzini, e soprattutto lui, il protagonista silenzioso di ogni hanok: il jangdokdae, lo spazio delle giare. Enormi contenitori di terracotta dove fermentavano kimchi, salse, e pasticci da conservare per mesi. Sempre vicini alla cucina, sempre esposti al sole e al vento. In un certo senso, anche il jangdokdae è un personaggio dei K-Drama: discreto, ma fondamentale.

E per chi poteva permetterselo, non mancava neanche un santuario per il culto degli antenati. Il più lontano dal cancello, il più in alto del complesso. Un luogo sacro, dove si onorava la memoria e si manteneva viva la linea familiare. Se non c’era un edificio apposito, gli antenati venivano ricordati nella sala principale. Perché anche in assenza, gli spiriti avevano il loro posto.


Postilla da spettatrice affezionata

Scrivere questo articolo è stato un piccolo viaggio. Ogni scena che ho rivissuto nella mente — un personaggio che chiude il portone, un litigio sussurrato dietro un paravento, un pasto consumato nel silenzio della corte — mi ha ricordato quanto siano vivi questi spazi, anche se immobili.

L’hanok non è solo un tipo di casa. È il battito nascosto dei K-Drama storici. È l’eco delle scelte, delle parole taciute, degli amori che non trovano la via. E forse, senza accorgercene, ci siamo tutti un po’ innamorati di quelle travi in legno, di quei tetti curvi, di quella compostezza che parla senza fare rumore.

E tu? In quale stanza dell’hanok si rifugerebbe il tuo cuore?

Fonte:

  1. https://thetalkingcupboard.com/2012/11/12/introduction-to-hanok/