Ci sono cose che i K-Drama insegnano senza nemmeno doverle spiegare. Le assorbi con gli occhi, le respiri attraverso le scene lente e i silenzi carichi di tensione. Una di queste è l’Hanok, la casa tradizionale coreana. Magari non ne conoscevi il nome, ma ti sei affezionata alla sua atmosfera senza rendertene conto. Perché se ami i sageuk — i drama storici ambientati nella Corea antica — hai sicuramente incontrato un hanok. Lì dove si tengono i colloqui più intimi, si condividono segreti in sussurri, si vive quel quotidiano che sembra lento solo in apparenza, ma è carico di significati.
A differenza dei palazzi reali, riservati alla corte della dinastia Joseon, gli hanok rappresentano la quotidianità. Non importa se si tratta della casa di un ministro o di un contadino: ogni hanok custodisce la storia di chi ci abita. E oggi, questo termine racchiude l’essenza stessa della casa coreana tradizionale, un ponte tra passato e presente che sopravvive ancora, seppur con fatica, nei vicoli più antichi di Seoul.
Tra tegole e paglia: lo status sociale nel tetto
Come in ogni società rigidamente strutturata, anche nell’architettura dell’epoca Joseon nulla era lasciato al caso. Perfino il tetto parlava. I tetti in tegole, ad esempio, erano il simbolo della classe nobile — i yangban — e dei ricchi commercianti. Costruirli era costoso: dalle materie prime alla cottura delle tegole, tutto comportava spese non indifferenti. Guardare una scena con un hanok dal tetto elegante equivale a riconoscere, senza bisogno di parole, che ci troviamo nella dimora di una famiglia potente.
Al contrario, le abitazioni con tetti di paglia — le più frequenti nei sageuk — raccontano un'altra realtà: quella della gente comune. Erano economiche, pratiche, e adattabili a molti ambienti. Ogni casa, ogni tetto, era una dichiarazione implicita di chi si era e di cosa ci si poteva permettere.
E poi c’erano le varianti meno note ma ugualmente affascinanti: tetti di canne, corteccia di quercia, lastre di legno, persino vere e proprie capanne di tronchi. Tutto dipendeva dalla posizione geografica e dal clima: un hanok in montagna aveva esigenze diverse rispetto a uno vicino al mare.
Uno spazio per ogni cosa (e per ogni persona)
L’hanok non era semplicemente un’abitazione. Era un piccolo mondo, perfettamente organizzato, in cui ogni spazio aveva una funzione precisa, in linea con i valori confuciani che impregnavano ogni aspetto della vita.
Per esempio, uomini e donne vivevano in zone separate. Il cuore femminile della casa era l’anchae (o anbang, la “stanza interna”), dove la padrona di casa trascorreva la maggior parte del tempo: cucinava, custodiva i vestiti e la biancheria, gestiva le attività domestiche. Non è un caso che nei drama venga spesso chiamata “anbang manim” — la signora dell’anbang.
L’uomo di casa, invece, aveva uno spazio tutto suo: il sarangchae, un edificio distaccato dove riceveva gli ospiti, studiava, meditava. Il suo sarangbang era la stanza degli scritti, del tè, dei momenti di riflessione. A metà tra i due mondi, si trovava spesso il daechung, un’ampia sala comune, a cielo aperto o semiaperta, che fungeva da ponte simbolico tra maschile e femminile.
E poi, come dimenticare i figli? I maschi non sposati avevano stanze-studio che di notte diventavano camere da letto. Le figlie nubili vivevano in edifici secondari, più nascosti. Tutto era regolato, tutto aveva un posto — anche i silenzi.
Il cortile: teatro di vita
Chi ama i K-Drama sa bene quanto un cortile possa dire, anche senza parole. È lì che si ricevono gli ospiti, si svolgono matrimoni, si tengono cerimonie. È lì che qualcuno si inginocchia, qualcun altro si allontana con lo sguardo basso, o si lancia una corsa disperata in piena notte. Ma c’è una regola che spesso passa inosservata: nei cortili non ci sono alberi. Non per caso, ma per scaramanzia. Il motivo? La combinazione dei caratteri cinesi usati per rappresentare "casa" e "albero" formava il simbolo di “problema” o “trappola”. Un messaggio sottile, ma potente.
Cancelli, cucine e... kimchi
Ogni hanok aveva più cancelli: il grande portale principale, spesso imponente, che segnalava la potenza della famiglia; i cancelli interni, che dividevano i diversi edifici; e i piccoli cancelli laterali, riservati ai servitori. Anche qui, l’ordine era tutto: i servitori dormivano vicino all’ingresso, i più importanti — come le nutrici o le governanti — un po’ più vicini al cuore della casa.
Nei pressi della cucina c’erano le stanze di servizio, i magazzini, e soprattutto lui, il protagonista silenzioso di ogni hanok: il jangdokdae, lo spazio delle giare. Enormi contenitori di terracotta dove fermentavano kimchi, salse, e pasticci da conservare per mesi. Sempre vicini alla cucina, sempre esposti al sole e al vento. In un certo senso, anche il jangdokdae è un personaggio dei K-Drama: discreto, ma fondamentale.
E per chi poteva permetterselo, non mancava neanche un santuario per il culto degli antenati. Il più lontano dal cancello, il più in alto del complesso. Un luogo sacro, dove si onorava la memoria e si manteneva viva la linea familiare. Se non c’era un edificio apposito, gli antenati venivano ricordati nella sala principale. Perché anche in assenza, gli spiriti avevano il loro posto.
Postilla da spettatrice affezionata
Scrivere questo articolo è stato un piccolo viaggio. Ogni scena che ho rivissuto nella mente — un personaggio che chiude il portone, un litigio sussurrato dietro un paravento, un pasto consumato nel silenzio della corte — mi ha ricordato quanto siano vivi questi spazi, anche se immobili.
L’hanok non è solo un tipo di casa. È il battito nascosto dei K-Drama storici. È l’eco delle scelte, delle parole taciute, degli amori che non trovano la via. E forse, senza accorgercene, ci siamo tutti un po’ innamorati di quelle travi in legno, di quei tetti curvi, di quella compostezza che parla senza fare rumore.
E tu? In quale stanza dell’hanok si rifugerebbe il tuo cuore?
Fonte:
- https://thetalkingcupboard.com/2012/11/12/introduction-to-hanok/
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