Ci sono storie che non si limitano a raccontare. Ci sono storie che scavano. Che smuovono memorie sepolte, rabbie taciute, origini negate. Pachinko è una di queste. Non è solo un drama. È un’opera che attraversa epoche, terre, generazioni. È il racconto stratificato di una famiglia coreana, ma anche il ritratto vivo e doloroso di un popolo intero che ha dovuto imparare a sopravvivere tra l’orgoglio e la vergogna, la patria perduta e quella mai conquistata.
Tratto dal romanzo di Min Jin Lee e portato sullo schermo dalla regista Soo Hugh per Apple TV+, Pachinko ha debuttato nel 2022 e ha subito lasciato il segno. Con una narrazione che alterna lingue, tempi e sguardi, la serie ci accompagna nel viaggio di Sunja, una donna nata in Corea sotto il dominio giapponese, costretta a emigrare in Giappone e a crescere i suoi figli in una terra che non l’ha mai voluta davvero.
Ma dietro ogni frame, ogni silenzio e ogni sguardo spezzato che attraversa questo drama, si cela un mondo di ferite vere, di storie dimenticate, di odio sistemico che la storia ufficiale ha spesso lasciato ai margini. Per capire davvero Pachinko, bisogna tornare indietro. Bisogna risalire a quel filo rosso che unisce l’Impero giapponese alla Corea colonizzata, ai massacri, alla discriminazione, ai pregiudizi che ancora oggi non si sono spenti.
Sunja non è sola: quattro generazioni di resistenza
Pachinko si snoda lungo quasi un secolo, dal 1915 al 1989. Al centro c’è Sunja, interpretata da Kim Min-ha (giovane) e Youn Yuh-jung (anziana), una donna che rappresenta l’intera condizione del popolo coreano sotto il dominio giapponese. Quando resta incinta di Koh Hansu (Lee Min-ho), un uomo potente ma compromesso, Sunja decide di non sottomettersi alla vergogna. Sposa invece il pastore cristiano Baek Isak, e con lui parte per Osaka, in Giappone. Ma l’emigrazione non sarà la liberazione che si aspettava. Anzi.
In Giappone, i coreani sono cittadini di seconda classe. I loro nomi vengono cambiati, le loro lingue soffocate, le loro esistenze rese invisibili. Sunja dovrà lottare ogni giorno per restare in piedi, per mantenere la propria dignità, per proteggere i suoi figli: Noa, figlio biologico di Hansu ma legalmente riconosciuto da Isak, e Mozasu, nato dal matrimonio con Isak.
Attraverso Solomon, nipote di Sunja, la serie ci porta anche nel presente degli anni ’80, quando la Corea del Sud è ormai una potenza economica e culturale in crescita. Ma le ferite, anche se invisibili, continuano a pulsare.
Storia vera, dolore reale
Il mondo in cui vive Sunja non è frutto di fantasia. È una fedele ricostruzione storica di quello che hanno vissuto centinaia di migliaia di coreani durante l’occupazione giapponese della Corea (1910-1945) e nei decenni successivi in Giappone. E non si tratta solo di umiliazioni linguistiche o discriminazioni lavorative: parliamo di un sistema radicato di razzismo istituzionalizzato.
Dopo l’annessione forzata della Corea, il Giappone ha imposto una politica di assimilazione culturale: la lingua coreana fu bandita, i nomi coreani dovevano essere giapponesizzati, e i coreani venivano trattati come inferiori, sporchi, pericolosi. Molti furono deportati per lavori forzati o usati come comfort women, schiave sessuali per l’esercito giapponese.
Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, i coreani rimasti in Giappone furono esclusi da molti diritti civili: non avevano cittadinanza, erano costretti a vivere in ghetti, e i loro figli venivano discriminati a scuola. Il trauma di vivere in una terra che ti disprezza e che ti rifiuta è una delle forze silenziose che muovono Pachinko.
L’odio che non è finito
Ancora oggi, in Giappone esistono movimenti esplicitamente Kenkan — letteralmente “odio per i coreani”. Libri, manga, proteste, adesivi e perfino manifestazioni pubbliche contro la “Korean Wave” e la presenza coreana in Giappone hanno segnato gli ultimi decenni. L’episodio del massacro di Kantō del 1923, in cui centinaia (forse migliaia) di coreani furono uccisi dai giapponesi dopo false accuse di sabotaggio, è solo uno dei momenti più agghiaccianti di questo odio.
A peggiorare le cose, le continue revisioni dei libri di storia in Giappone — che minimizzano o negano del tutto le atrocità commesse durante l’occupazione — contribuiscono a mantenere vivo un clima di ostilità. Perfino statue commemorative per le comfort women sono state oggetto di scandali diplomatici.
E mentre la Corea del Sud cerca ancora giustizia e riconoscimento, parte della società giapponese continua a voltarsi dall’altra parte.
Un drama necessario
Pachinko non è solo una saga familiare. È un atto politico. È una forma di memoria collettiva. È un grido che dice: “No, non ci avete cancellati.” Con la sua narrazione intima e universale, dà voce a chi è stato silenziato. Mostra quanto sia difficile — e al tempo stesso vitale — ricordare.
Attraverso personaggi indimenticabili, un’estetica curata e una scrittura profonda, la serie riesce a trasformare una storia di migrazione e sofferenza in una lezione di umanità. Ci ricorda che l’identità non è qualcosa da cui fuggire, ma qualcosa da proteggere. Che le cicatrici non sono solo dolore: sono anche resistenza.
Guardare Pachinko significa molto più che seguire le vicende di una famiglia. Significa affacciarsi su un pezzo di storia ignorato, su una verità scomoda che continua a bruciare. Significa riconoscere quanto possa essere ingiusto il mondo — ma anche quanto possa essere potente l’amore, la dignità e la forza delle donne come Sunja, che hanno saputo sfidare il destino con la sola arma che avevano: la speranza.
E forse, nel loro silenzio testardo, troviamo anche qualcosa di nostro.
Fonte:
- https://en.wikipedia.org/wiki/Pachinko_(TV_series)
- https://en.wikipedia.org/wiki/Anti-Korean_sentiment_in_Japan