11 giugno 2025

La vera storia dietro al drama: Pachinko

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Ci sono storie che non si limitano a raccontare. Ci sono storie che scavano. Che smuovono memorie sepolte, rabbie taciute, origini negate. Pachinko è una di queste. Non è solo un drama. È un’opera che attraversa epoche, terre, generazioni. È il racconto stratificato di una famiglia coreana, ma anche il ritratto vivo e doloroso di un popolo intero che ha dovuto imparare a sopravvivere tra l’orgoglio e la vergogna, la patria perduta e quella mai conquistata.

Tratto dal romanzo di Min Jin Lee e portato sullo schermo dalla regista Soo Hugh per Apple TV+, Pachinko ha debuttato nel 2022 e ha subito lasciato il segno. Con una narrazione che alterna lingue, tempi e sguardi, la serie ci accompagna nel viaggio di Sunja, una donna nata in Corea sotto il dominio giapponese, costretta a emigrare in Giappone e a crescere i suoi figli in una terra che non l’ha mai voluta davvero.

Ma dietro ogni frame, ogni silenzio e ogni sguardo spezzato che attraversa questo drama, si cela un mondo di ferite vere, di storie dimenticate, di odio sistemico che la storia ufficiale ha spesso lasciato ai margini. Per capire davvero Pachinko, bisogna tornare indietro. Bisogna risalire a quel filo rosso che unisce l’Impero giapponese alla Corea colonizzata, ai massacri, alla discriminazione, ai pregiudizi che ancora oggi non si sono spenti.

Sunja non è sola: quattro generazioni di resistenza

Pachinko si snoda lungo quasi un secolo, dal 1915 al 1989. Al centro c’è Sunja, interpretata da Kim Min-ha (giovane) e Youn Yuh-jung (anziana), una donna che rappresenta l’intera condizione del popolo coreano sotto il dominio giapponese. Quando resta incinta di Koh Hansu (Lee Min-ho), un uomo potente ma compromesso, Sunja decide di non sottomettersi alla vergogna. Sposa invece il pastore cristiano Baek Isak, e con lui parte per Osaka, in Giappone. Ma l’emigrazione non sarà la liberazione che si aspettava. Anzi.

In Giappone, i coreani sono cittadini di seconda classe. I loro nomi vengono cambiati, le loro lingue soffocate, le loro esistenze rese invisibili. Sunja dovrà lottare ogni giorno per restare in piedi, per mantenere la propria dignità, per proteggere i suoi figli: Noa, figlio biologico di Hansu ma legalmente riconosciuto da Isak, e Mozasu, nato dal matrimonio con Isak.

Attraverso Solomon, nipote di Sunja, la serie ci porta anche nel presente degli anni ’80, quando la Corea del Sud è ormai una potenza economica e culturale in crescita. Ma le ferite, anche se invisibili, continuano a pulsare.

Storia vera, dolore reale

Il mondo in cui vive Sunja non è frutto di fantasia. È una fedele ricostruzione storica di quello che hanno vissuto centinaia di migliaia di coreani durante l’occupazione giapponese della Corea (1910-1945) e nei decenni successivi in Giappone. E non si tratta solo di umiliazioni linguistiche o discriminazioni lavorative: parliamo di un sistema radicato di razzismo istituzionalizzato.

Dopo l’annessione forzata della Corea, il Giappone ha imposto una politica di assimilazione culturale: la lingua coreana fu bandita, i nomi coreani dovevano essere giapponesizzati, e i coreani venivano trattati come inferiori, sporchi, pericolosi. Molti furono deportati per lavori forzati o usati come comfort women, schiave sessuali per l’esercito giapponese.

Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, i coreani rimasti in Giappone furono esclusi da molti diritti civili: non avevano cittadinanza, erano costretti a vivere in ghetti, e i loro figli venivano discriminati a scuola. Il trauma di vivere in una terra che ti disprezza e che ti rifiuta è una delle forze silenziose che muovono Pachinko.

L’odio che non è finito

Ancora oggi, in Giappone esistono movimenti esplicitamente Kenkan — letteralmente “odio per i coreani”. Libri, manga, proteste, adesivi e perfino manifestazioni pubbliche contro la “Korean Wave” e la presenza coreana in Giappone hanno segnato gli ultimi decenni. L’episodio del massacro di Kantō del 1923, in cui centinaia (forse migliaia) di coreani furono uccisi dai giapponesi dopo false accuse di sabotaggio, è solo uno dei momenti più agghiaccianti di questo odio.

A peggiorare le cose, le continue revisioni dei libri di storia in Giappone — che minimizzano o negano del tutto le atrocità commesse durante l’occupazione — contribuiscono a mantenere vivo un clima di ostilità. Perfino statue commemorative per le comfort women sono state oggetto di scandali diplomatici.

E mentre la Corea del Sud cerca ancora giustizia e riconoscimento, parte della società giapponese continua a voltarsi dall’altra parte.

Un drama necessario

Pachinko non è solo una saga familiare. È un atto politico. È una forma di memoria collettiva. È un grido che dice: “No, non ci avete cancellati.” Con la sua narrazione intima e universale, dà voce a chi è stato silenziato. Mostra quanto sia difficile — e al tempo stesso vitale — ricordare.

Attraverso personaggi indimenticabili, un’estetica curata e una scrittura profonda, la serie riesce a trasformare una storia di migrazione e sofferenza in una lezione di umanità. Ci ricorda che l’identità non è qualcosa da cui fuggire, ma qualcosa da proteggere. Che le cicatrici non sono solo dolore: sono anche resistenza.

Guardare Pachinko significa molto più che seguire le vicende di una famiglia. Significa affacciarsi su un pezzo di storia ignorato, su una verità scomoda che continua a bruciare. Significa riconoscere quanto possa essere ingiusto il mondo — ma anche quanto possa essere potente l’amore, la dignità e la forza delle donne come Sunja, che hanno saputo sfidare il destino con la sola arma che avevano: la speranza.

E forse, nel loro silenzio testardo, troviamo anche qualcosa di nostro.

Fonte:

  1. https://en.wikipedia.org/wiki/Pachinko_(TV_series)
  2. https://en.wikipedia.org/wiki/Anti-Korean_sentiment_in_Japan

La vera storia dietro al drama: The Tale of Nokdu

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Quando ho iniziato The Tale of Nokdu, mi aspettavo un drama romantico in costume come tanti. E invece, mi sono ritrovata in un mondo molto più complesso, fatto di identità segrete, giochi di potere e… di donne. Donne forti, fragili, marginali. Donne come le kisaeng. Così, episodio dopo episodio, ho sentito il bisogno di andare oltre la finzione. Di capire davvero chi fossero queste figure che riempivano lo schermo con i loro sorrisi truccati e i loro dolori taciuti. Perché The Tale of Nokdu non racconta solo la storia di Nokdu che si traveste da donna per entrare in un villaggio di vedove. Racconta la storia di un intero sistema che ha usato e dimenticato le donne per secoli.

La trama tra realtà e invenzione

Il drama, andato in onda nel 2019 con protagonisti Jang Dong-yoon e Kim So-hyun, parte da un espediente narrativo brillante: un uomo che si traveste da donna per entrare in un villaggio proibito agli uomini. Il motivo? Scoprire la verità sulle sue origini. Ma finisce per imbattersi in Dong-joo, una ragazza dal passato doloroso che sogna vendetta e rifiuta il destino di diventare kisaeng.

Fino a qui, la fiction regna sovrana. Ma il contesto in cui si muovono i personaggi – il periodo Joseon – è tutt’altro che inventato. E il villaggio di vedove? Non esisteva davvero, ma affonda le radici in dinamiche sociali vere: in epoche in cui le donne sole, soprattutto vedove, erano escluse, isolate, eppure a volte anche alleate tra loro.

Kisaeng: tra arte, schiavitù e sopravvivenza

È impossibile guardare The Tale of Nokdu senza restare affascinati dalle kisaeng. Colorate, eleganti, ma anche malinconiche. Chi erano davvero? Non semplici prostitute, come molti pensano. Le kisaeng erano donne schiave, appartenenti alla classe più bassa della società, eppure educate alla poesia, alla musica, alla danza. Intrattenevano nobili, ambasciatori e ufficiali, ma spesso erano loro stesse le più colte della stanza.

Paradossalmente, erano considerate “con il corpo da schiava e la mente da nobile”. Erano artiste, letterate, a volte mediche. Ma mai libere. Potevano essere riscattate solo da un uomo ricco che ne acquistasse la libertà. Eppure, proprio per questo, molte di loro riuscivano a esercitare un potere invisibile: sapevano tutto di tutti, erano spie perfette, amanti indispensabili, ma anche voci poetiche che sfidavano i limiti della loro epoca.

L’arte di resistere (e risplendere)

Il mondo delle kisaeng era regolato come un’istituzione: registri governativi, esami, gerarchie interne. Entravano giovanissime, a volte vendute dalle famiglie, e studiavano per anni in scuole speciali. Le migliori appartenevano alla “prima categoria” (ilp’ae) e potevano scegliere i loro clienti. Le peggiori, invece, erano costrette a lavorare fin da giovanissime e spesso fino alla morte.

Alcune, però, sono passate alla storia. Come Hwang Jin-i, celebre per la sua bellezza e i suoi versi arguti, o Non Gae, che si lanciò da una scogliera abbracciando un generale giapponese per ucciderlo. E anche se i loro nomi sono pochi, la loro eredità è immensa. Perché le kisaeng hanno saputo trasformare il loro ruolo imposto in una forma di arte, di potere, di sopravvivenza.

Il peso del passato sulle spalle di Dong-joo

In The Tale of Nokdu, Dong-joo incarna questo conflitto. È una ragazza piena di rabbia, intrappolata in un ruolo che rifiuta. Non sa cantare, non sa ballare, ma sa costruire armi. E vuole vendetta. Non vuole essere vista come oggetto decorativo, ma come soggetto della propria storia. In questo, forse, è l’eroina più moderna di tutte.

Attraverso di lei, il drama restituisce voce a tante donne che non hanno mai potuto parlare. Racconta la dignità nascosta dietro ai veli di seta, le ferite dietro ai sorrisi smaltati, e le scelte difficili dietro ogni passo di danza.

La verità dietro i costumi

A rendere ancora più potente il messaggio del drama, c’è la cura dei dettagli. I costumi delle kisaeng, i rituali, le cerimonie, persino i canti: tutto è studiato per riflettere fedelmente la vita dell’epoca. Anche il personaggio di Nokdu, travestito da donna, diventa un ponte narrativo per osservare il mondo femminile dall’interno. Un mondo di restrizioni ma anche di complicità, di bellezza ma anche di dolore.

E oggi?

Il sistema delle kisaeng è stato ufficialmente abolito nel 1895, ma molte di loro hanno continuato a esistere anche durante il periodo coloniale giapponese, trasformandosi lentamente in intrattenitrici più moderne o, tristemente, in lavoratrici del sesso. Alcune hanno partecipato ai movimenti di resistenza contro i giapponesi, come Aengmu, che donò tutto per la causa. Altre hanno visto la propria arte svanire nel silenzio.

Oggi, le vere kisaeng non esistono più. Ma restano i loro canti, i loro versi, le danze imitate nei palchi teatrali e nei drama storici. E ogni volta che una Dong-joo alza la voce o un Nokdu attraversa i confini del possibile, una parte di quella storia torna a respirare.

Perché The Tale of Nokdu è più di un semplice drama

Alla fine, quello che colpisce di The Tale of Nokdu non è solo la storia d’amore, o le scene comiche ben scritte. È la forza con cui riporta alla luce un mondo dimenticato. È il rispetto con cui racconta vite spezzate ma mai vinte. È la poesia nascosta dietro un travestimento.

Guardarlo significa ridere, commuoversi, e soprattutto ricordare. Ricordare che dietro ogni leggenda c’è una verità. E che, a volte, la verità è ancora più affascinante della finzione.

Fonte:

  1. https://en.wikipedia.org/wiki/The_Tale_of_Nokdu
  2. https://en.wikipedia.org/wiki/Kisaeng

L'importanza dei libri nei kdrama

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In K-Dramaland si legge. Eccome se si legge.

Se pensi che le serie coreane siano solo baci rubati sotto la pioggia o litigi infiniti tra suocere e nuore, allora forse non hai guardato abbastanza da vicino. Perché c'è un dettaglio che torna sempre, in modo discreto ma costante: i libri. Scaffali colmi, titoli sparsi sui tavolini, copertine lasciate in bella vista sui comodini. E spesso non sono messi lì per caso. In K-Dramaland, la lettura è un gesto rivelatore, un modo per raccontare il mondo interiore di un personaggio, senza bisogno di parole.

E no, non sono solo le donne a leggere. In realtà, sono soprattutto gli uomini. Quei protagonisti silenziosi, spesso freddi all’apparenza, che ti conquistano pagina dopo pagina proprio come fanno con chi li guarda. Leggere, nei drama, è un atto d'amore verso se stessi e verso l’altro. È vulnerabilità, curiosità, malinconia. È una porta aperta sulla mente e sul cuore.

I libri che non ti aspetti (e quelli che sì)

A volte i titoli sono famosi e riconoscibili. Come "Orgoglio e Pregiudizio" di Jane Austen, che appare in Pride and Prejudice 2, quasi a fare da eco letteraria al titolo stesso. O "Alice nel Paese delle Meraviglie" di Lewis Carroll, che in Secret Garden diventa il simbolo di una realtà che si capovolge, proprio come succede nel drama.

Ci sono poi libri che parlano di emozioni, in modo diretto, disarmante, come "He’s Just Not That Into You" di Greg Behrendt e Liz Tuccillo, che compare in Marriage Not Dating. Un manuale semi-serio sull'amore che funziona — o che smette di funzionare.

E che dire di "Demian" di Hermann Hesse, letto in Producer? Quel romanzo che ti scompone dentro, che ti costringe a guardare in faccia il tuo doppio, il tuo lato oscuro, la tua trasformazione.

I momenti che restano impressi

Ci sono scene che sembrano scritte con l'inchiostro più delicato dell'anima. Come in Father, I’ll Take Care of You, quando Han Sung-Joon legge a Oh Dong-Hee “Le stelle” di Alphonse Daudet, proprio nel cuore della Forest of Wisdom. È un momento sospeso, che odora di carta e di sogni, in cui i libri diventano un ponte tra due cuori.

Oppure c’è Witch’s Romance, dove spunta "The Magical Moment" di Paulo Coelho. E la magia non è solo quella del titolo, ma quella di sentirsi compresi da parole scritte a chilometri di distanza, in un tempo lontano.

A volte i libri sono una via di fuga, altre volte un modo per dire ciò che non si riesce ad ammettere. Come in Mad Dog, dove si legge "Sette anni di notte" di Jeong Yu-jeong. O come in Love Detective Sherlock K, dove appare "Tess dei D’Urberville" di Thomas Hardy, forse per raccontare la vulnerabilità nascosta sotto la corazza dell’investigazione.

Quando i libri parlano di solitudine

Molti dei testi che appaiono nei drama parlano di solitudine, perdita, desiderio di riscatto. Come in Second Time Twenty Years Old, dove in un solo episodio troviamo "Nina" di Luise Rinser e "Writing Down Today’s Joys", un semplice quaderno per annotare i momenti felici. Piccoli gesti che diventano resistenza, promemoria di bellezza.

E poi ci sono i titoli che spiazzano. "Popular Remedies For Colon-Related Troubles" in Reply 1988, ad esempio, che strappa un sorriso e ci ricorda che i drama sono anche autoironia, umanità e normalità.

Gli autori coreani e la letteratura che cura

In Secret Garden, il protagonista Kim Joo-Won possiede una vera e propria biblioteca. Tra gli scaffali troviamo versi profondi e poetici di autori coreani come Kim Nam-il, Hwang Dong-gyu, Jin Dong-kyu e Hwang In-sook. Libri che non troverai facilmente tradotti, ma che in Corea sono voce dell’anima. Sono titoli che raccontano il dolore, l’amore sommesso, l’attesa, come in "Quando mi affido al caso" o "Qualcuno cammina dentro il mio petto". Non servono effetti speciali quando le parole bastano a far tremare il cuore.

Leggere per amare, sopravvivere, guarire

In un mondo sempre più visivo, dove tutto è veloce, vedere qualcuno che legge è un atto quasi rivoluzionario. Nei drama coreani, leggere è ancora un rituale lento, privato, intimo. È un modo per guarire, per sognare, per amare. È lo spazio interiore che resta quando tutto il resto crolla.

I libri non sono solo accessori di scena. Sono messaggi silenziosi. Sono scelte narrative precise, dense di significato. Quando un personaggio prende in mano Anna Karenina, non lo fa per caso. Lo fa perché in quel momento, forse, si sente anche lui sul bordo del precipizio dell’amore.

In Glorious Temptation si legge "Memories: A Story of German Love" di Max Müller. In Master’s Sun, compare "One Stormy Night" di Yūichi Kimura. Ogni libro, un indizio. Ogni copertina, uno specchio dell’anima.

In fondo, anche questo è amore

C’è chi si innamora tra una battuta e un abbraccio, e chi si innamora leggendo insieme. Chi si conosce scambiandosi libri, versi, sogni. E chi si salva, semplicemente, trovando le parole giuste al momento giusto.

E forse è proprio questo che i K-Drama ci insegnano: che le storie curano, e che i libri sono un modo di amarsi in silenzio.