7 giugno 2025

In difesa dei personaggi Jerk nei kdrama

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Prima di tutto: il tipico jerk da K-drama è, diciamolo chiaramente, un bel cretino. Ma uno di quelli per cui inspiegabilmente finiamo col tifare. È sempre interpretato da un attore di una bellezza quasi irreale e, considerando che il numero di attori coreani veramente famosi è limitato, è molto probabile che quel cretino sia anche il tuo attore preferito di sempre. E quindi… come fai a non fare il tifo per lui?

E quando dico bello, non mi riferisco solo alla mascella scolpita o agli addominali da calendario: parlo di quel modo perfetto in cui appare sempre in ordine, sempre impeccabile, sempre vestito secondo l’ultima tendenza con un tocco di stile personale che urla “guardami, sono meglio di tutti gli altri maschi del drama messi insieme”. L’aspetto conta, inutile negarlo. Non dovrebbe essere abbastanza da giustificare i suoi modi da idiota, eppure… non possiamo fare a meno di apprezzarlo. In tutta la sua arrogante, scintillante gloria.


Il cretino è incompreso

Non sempre in modo esplicito, ma il suo problema principale è che le sue azioni e le sue parole vengono spesso fraintese. Non che faccia molto per farsi capire, eh. Anzi, nella maggior parte dei casi, sembra proprio che si sforzi di essere antipatico. Ma ecco il punto: ha delle emozioni, solo che non sa esprimerle. E mentre i personaggi attorno a lui lo giudicano male, noi spettatori abbiamo il superpotere di vedere tutto: i suoi tentativi goffi di mostrarsi affettuoso, i piccoli gesti che rivelano il suo lato umano… e ci sentiamo male per lui. Perché capiamo che sta lottando.


Il cretino è un uomo solo

La solitudine è il marchio di fabbrica del jerk coreano. È quello che lo ha reso ciò che è: qualcuno che non ha mai avuto nessuno con cui connettersi davvero. Magari è ricco, un classico erede chaebol, vive nel lusso… ma è infelice. Solo. I suoi genitori sono troppo occupati a lavorare per prendersi cura di lui, e le sue relazioni passate? Solo accordi mascherati da matrimoni combinati. Poi, un giorno, arriva lei. Una ragazza che non è interessata ai soldi, che non si fa abbagliare dal suo status. E lui? Non sa cosa farsene. Ci mette un po’ a capirlo, ma alla fine si arrende: tutto quello che vuole è essere amato.


Il cretino ha un passato tragico

Non esiste jerk da K-drama senza trauma. Che sia la morte della madre in un incidente stradale, un oscuro segreto di nascita che lo rivela figlio illegittimo di qualche CEO, o la perdita della sua primo amore… il dolore lo accompagna. E lo blocca. Gli impedisce di lasciarsi andare, di costruire nuovi legami. È il peso che si porta dietro in ogni scena, ed è anche il motivo per cui ci colpisce così tanto.


Il cretino ama con passione

Non tutti i jerk sono uguali, ma una cosa è certa: quando amano, lo fanno con un’intensità devastante. Ci sono due grandi categorie: il tipo irascibile e il tipo gelido. Ma anche il più freddo tra loro ha una fiamma sotto la superficie, pronta a divampare. E questa passione si nota soprattutto quando lo mettiamo a confronto con il secondo lead – Mr. Perfect. Quest’ultimo è sempre gentile, sempre presente… ma spesso passivo. Il jerk, invece, agisce. Non riesce a trattenere i suoi sentimenti, anche se finisce per fare pasticci. Magari la fa arrabbiare solo per attirare la sua attenzione – spoiler: non è un’ottima strategia – ma almeno ci prova. Mr. Perfect, invece, la guarda da lontano e spera. E noi sappiamo che la speranza, nei K-drama, è il primo passo verso la friendzone.


Il cretino ha difetti, ed è questo il bello

La perfezione è noiosa. Sì, lo so che Mr. Perfect è adorabile. Dice le cose giuste, c'è sempre quando lei ha bisogno di conforto, ed è pure vestito bene mentre lo fa. Ma proprio perché è così perfetto, finisce per non lasciarci nulla. Il jerk, invece, ha difetti. È reale. È imperfetto, incoerente, a volte fastidioso… ma è umano. E noi, davanti a quell’umanità sghemba, ci sciogliamo. Perché ci sembra più vicino, più vero. E ogni buon personaggio, per essere memorabile, deve avere delle crepe.


Alla fine, il cretino si redime

Ed è forse questo che ci fa amare davvero il nostro cretino preferito: sappiamo che cambierà. Che, a modo suo, si riscatterà. Magari non sarà mai perfetto (per fortuna), ma farà il suo percorso. E noi saremo lì, puntata dopo puntata, a tifare per lui mentre inciampa, cade, si rialza, e finalmente riesce ad amare nel modo giusto. È questa trasformazione che ci coinvolge più di ogni altra cosa.


Lo stronzo è un personaggio interessante. Fine.

Ecco la verità: il jerk è interessante. E in un drama, questo è tutto. Ha strati. Non è solo bello e antipatico. Ha insicurezze, ferite, desideri nascosti. A volte è uno stronzo, sì, ma non a caso. C’è sempre un motivo – magari non giustificabile, ma comprensibile. E quando lo mettiamo accanto a Mr. Perfect, il confronto è impietoso. Il secondo lead è carino, tenero, e immobile come un soprammobile in una scena romantica. Il jerk invece agisce. Sbaglia. Ama male, ma ama tanto. E questo crea conflitto. E il conflitto, nei K-drama, è vita.

Non tutti i cretini sono scritti bene, certo. Alcuni sono solo fastidiosi e stop. Ma quando il personaggio è costruito con cura, ci entra dentro. E a quel punto non possiamo più odiarlo. Possiamo solo sperare che, stavolta, l’eroina scelga proprio lui.

Storia della letteratura coreana

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Parlare di letteratura coreana significa immergersi in un mondo dove passato e presente si rincorrono tra poesia, lotta e orgoglio nazionale. Una storia fatta di lingue sovrapposte, scritture riscoperte, influenze religiose e ferite ancora aperte. Come ogni popolo che ha conosciuto l’oppressione e la rinascita, anche la Corea ha usato la parola scritta per resistere, ricordare, sognare. E lo ha fatto in modi che, ancora oggi, riescono a toccare corde profonde.

Tra Cielo e Terra: la letteratura classica

Le radici della letteratura coreana affondano nelle credenze popolari e spirituali: buddismo, confucianesimo e taoismo hanno plasmato i testi antichi, ma è il buddismo ad aver lasciato l’impronta più marcata, seguito dalla rigorosa influenza del confucianesimo nei secoli successivi. In epoca Choson, l’élite scriveva e tramandava la cultura in cinese classico. Eppure, tra quei caratteri stranieri, vivevano storie profondamente coreane.

Il punto di svolta arrivò con l’invenzione dell’alfabeto Han-gul nel XV secolo. Un gesto rivoluzionario, voluto da re Sejong, che diede voce anche alle donne, ai popolani, a chi era rimasto ai margini. Ma ci vollero secoli prima che l’alfabeto nativo potesse davvero brillare. Solo dalla seconda metà dell’Ottocento la scrittura coreana divenne il cuore pulsante della letteratura nazionale, decretando il tramonto dell’egemonia del cinese classico.

Gli Hyangga e la poesia degli spiriti

Molto prima che Han-gul vedesse la luce, la Corea aveva già una sua voce poetica. Gli Hyangga, poesie del periodo Shilla, erano scritte usando una complessa combinazione di suoni e significati dei caratteri cinesi. Ci raccontano di fratelli perduti, di lodi ai guerrieri e di preghiere sussurrate ai morti. Alcune erano semplici ballate popolari, altre, come Chemangmaega, custodivano un’epica spiritualità che ancora oggi lascia il segno.

Shijo, Kasa e l’eco del cuore

Nel periodo Choson, lo shijo diventò la forma poetica per eccellenza: tre righe cariche di emozione e riflessione. Gli autori erano spesso studiosi confuciani, e i temi ruotavano attorno alla lealtà, alla morale, alla bellezza austera della vita. Accanto a queste poesie, si svilupparono anche i kasa, componimenti più lunghi, usati per esprimere emozioni o narrare eventi. In entrambi i casi, la poesia si faceva carne, respiro, vita.

Le storie cantate e le narrazioni della gente

C’è un punto in cui poesia, musica e narrazione si fondono: è il p’ansori, la performance epica che unisce canto, racconto e dramma. Nasce dal popolo, racconta storie quotidiane, eppure tocca l’universale. I romanzi classici scritti in Han-gul, come Hong Kil-tong chon, hanno dato vita a personaggi indimenticabili, spesso mossi da un forte senso di giustizia sociale. Con il tempo, anche la satira prese piede, e la narrativa si aprì a nuove voci: ladri, contadini, donne, kisaeng… finalmente anche loro avevano un posto nelle storie scritte.

L’ombra giapponese e il risveglio

Il XX secolo si apre con una ferita profonda: l’occupazione giapponese. In quel buio periodo (1910-1945), la letteratura diventò una forma di resistenza silenziosa. Dopo il Movimento del 1° marzo 1919, iniziò a farsi largo una nuova consapevolezza: il desiderio di raccontarsi, di non dimenticare. I romanzi cominciarono a parlare del dolore dell’individuo, della solitudine, della patria ferita. Mujong di Yi Kwang-su segnò una svolta: era il primo vero romanzo moderno coreano. Da lì in poi, le parole iniziarono a farsi più affilate, più politiche, più vere.

La divisione, la guerra, la rinascita

Dopo la liberazione dal Giappone, la Corea non trovò pace: la divisione Nord-Sud e la guerra civile del 1950 lasciarono un’altra cicatrice profonda. La letteratura rifletté questo trauma con opere dense di angoscia, solitudine, ricerca di senso. Si scriveva di contadini dimenticati, di città crudeli, di lavoratori sfruttati e anime spente. Ma anche di speranza. Nei romanzi e nelle poesie, il popolo coreano cercava una nuova identità. E la trovava proprio lì, tra le righe.

Nel frattempo, la poesia si divise in due correnti: da una parte i tradizionalisti, che cercavano rifugio nei ritmi antichi e nel sentimento popolare; dall’altra gli sperimentalisti, che volevano rompere tutto per ricominciare. Entrambi, a modo loro, raccontavano l’urgenza di un’epoca che cercava se stessa.

Verso la contemporaneità: voci nuove, ferite ancora aperte

Gli anni ’70 portarono industrializzazione, progresso, ma anche alienazione, disuguaglianze, rabbia. La letteratura si fece specchio fedele di tutto questo. Romanzi come Il piccolo proiettile lanciato da un nano di Cho Se-hui raccontano l’assurdità di una società che corre, dimenticando chi resta indietro. Si scriveva di periferie, di operai, di città spietate.

E poi c’era il "romanzo della divisione", che affrontava a viso aperto il trauma del confine. Opere come Le montagne T'aebaeksan di Cho Jong-rae restano testimoni potenti di un dolore ancora presente. Allo stesso tempo, emergevano voci poetiche che cantavano la rabbia del minjung, il popolo oppresso. Poesia e politica, in quel periodo, si tenevano per mano.

Un mondo che ascolta: la letteratura coreana oltre i confini

Fino agli anni ’80, la letteratura coreana era poco conosciuta all’estero. Poi, grazie a pionieri come Peter H. Lee e Bruce Fulton, iniziarono a essere tradotte opere che oggi sono studiate in tutto il mondo. Hwang Sun-won, Kim Tong-ri, Han Yong-un… nomi che oggi suonano familiari a molti lettori internazionali.

Anche nei paesi francofoni le traduzioni sono cresciute: Yi Mun-yol, Cho Se-hui, Gu Sang. Sono voci che, anche se nate lontano, riescono a parlare a chiunque. Perché la letteratura coreana ha un cuore grande, e una memoria che non si spegne.

La vera storia dietro ai drama: Regine per destino o per amore – Empress Ki & Queen for Seven Days

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Ci sono regine che nascono per regnare, e altre che regnano solo per pochi giorni. Alcune conquistano troni stranieri, altre si ritrovano strappate via dal potere proprio mentre cominciavano a toccarlo con mano. Due drama molto diversi tra loro, Empress Ki e Queen for Seven Days, raccontano due storie profondamente femminili, intense, politiche e struggenti. Ma cosa ci dice davvero la storia su queste due donne? Chi erano, oltre le immagini romanzate che il piccolo schermo ci ha consegnato?

👑 Empress Ki – Dalla schiava coreana all’imperatrice della dinastia Yuan

Il drama racconta l’ascesa di Ki Seung Nyang, una donna di Goryeo che viene portata in schiavitù nel potente impero Yuan, ma che, grazie alla sua intelligenza e astuzia, riesce a diventare imperatrice consorte dell’imperatore Togon Temür, il figlio del cielo. Una scalata che ha dell’incredibile e che – per quanto romanzata – è fondata su fatti reali.

Secondo le fonti, Ki Seung Nyang era una delle concubine più amate di Togon Temür. Ebbero un figlio, Ayushiridara, e fu proprio per garantirgli il trono che Empress Ki si immerse in complesse lotte di palazzo, eliminando rivali e consolidando il suo potere. La corte Yuan era attraversata da tensioni politiche e intrighi continui, e la figura di Ki, seppur vista con sospetto dagli storici cinesi per la sua origine straniera, emerge come una delle donne più influenti della dinastia mongola.

Nel drama, il suo cuore è diviso tra l’imperatore e il re di Goryeo, Wang Yoo, ma nella realtà storica non ci sono prove di una relazione tra i due. Il personaggio di Wang Yoo è probabilmente ispirato a Re Chunghye, ma non fu mai coinvolto nella vita dell’imperatrice.

Quello che è certo è che Ki Seung Nyang ruppe ogni schema: fu una donna coreana che dominò uno dei più grandi imperi del mondo, in un’epoca in cui le donne venivano vendute, cedute, usate come pegni. Lei no. Lei fu protagonista.

🌧 Queen for Seven Days – L’amore più breve della Storia

Dan Gyeong, regina solo per una manciata di giorni, è la protagonista di una delle storie più poetiche e tragiche della dinastia Joseon. Il drama racconta la sua tormentata relazione con il re Jungjong, che la amò profondamente ma fu costretto a rimuoverla dal trono a causa delle pressioni politiche e dei giochi di potere della corte.

Storicamente, Dan Gyeong fu davvero sposa di Jungjong. Salì al trono nel 1506 ma vi rimase solo per sette giorni. Il padre, contrario alla sua unione con il sovrano, giocò un ruolo cruciale nella sua detronizzazione. La sua figura è avvolta in un alone di romanticismo e malinconia, proprio come l’atmosfera del drama: due persone che si amano sinceramente ma sono costrette a separarsi, travolte da forze più grandi di loro.

Il drama arricchisce la narrazione storica con dettagli emotivi, lettere segrete, fughe, promesse e ricordi che restano scolpiti nell’anima dei protagonisti. Ma anche senza finzione, la storia reale di Dan Gyeong e Jungjong parla da sola: una regina spodestata per ragioni di palazzo, ma mai dimenticata dal suo re.


✨ Due donne, due regni, un unico destino: sopravvivere

Empress Ki e Queen for Seven Days raccontano l’opposto di un’idea convenzionale di potere femminile: la prima conquista, la seconda perde, ma entrambe resistono. Una lo fa attraverso l’ambizione, l’altra attraverso il sacrificio. E in entrambi i casi, è l’amore – per un uomo, per un figlio, per la propria dignità – a spingere le protagoniste ad affrontare l’impossibile.

La storia non è sempre gentile con le donne, ma i drama coreani hanno imparato a dar loro voce. E, in queste due figure così diverse ma così vere, ci restituiscono una cosa preziosa: il senso di essere al centro, anche quando tutto cerca di spingerti ai margini.