Se guardi abbastanza K-Drama storici, prima o poi succede. Ti ritrovi a trattenere il fiato mentre una sposa, immobile e silenziosa sotto il suo velo rosso, attende l’arrivo del marito. Gli occhi bassi, le mani giunte, il cuore che non conosciamo. Dall’altra parte, lui: il futuro marito, rigido come la seta dei suoi abiti, avanza con lentezza sotto la pressione di centinaia di occhi e secoli di tradizione. È lì che mi sono chiesta: quanto c’era di vero? Quanto erano solenni – e insieme dolorosamente umani – quei matrimoni così diversi da ciò che oggi chiamiamo amore? Così ho deciso di scavare. E ho trovato un mondo.
Matrimonio nella Joseon: non due cuori, ma due famiglie
Nella Corea della dinastia Joseon (1392–1897), sposarsi non era una questione d’amore. O meglio, non era solo quello. Era un atto profondamente radicato nel confucianesimo, una delle Cinque Grandi Cerimonie di Stato. Un rito di passaggio, di alleanza e di ordine sociale. Sposarsi significava onorare i genitori, perpetuare il lignaggio, entrare nel giusto equilibrio tra yin e yang, tra dovere e armonia.
Eppure, in mezzo a tutta quella solennità, si nascondeva sempre un brivido: quello dell’incontro tra due sconosciuti, destinati a condividere un’intera vita dopo essersi scambiati solo tre inchini e un sorso di vino.
Le quattro tappe del matrimonio comune: da perfetti estranei a sposi per sempre
Per la gente comune, il matrimonio seguiva quattro grandi fasi:
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Euihon (의혼) – la trattativa matrimoniale. Famiglie, matchmaker e una rete fittissima di voci decidevano chi fosse degno di chi. Bastava una cattiva reputazione – vera o presunta – per far saltare tutto. L’amore? Un dettaglio. La buona apparenza, l’educazione e il casato contavano di più.
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Napchae (납채) – la proposta ufficiale. Un uomo della famiglia dello sposo portava la lettera di matrimonio, sigillata e legata con fili rossi e blu: i colori di yin e yang. Il tutto accompagnato da un’oca di legno, simbolo di fedeltà eterna. Da qui, si sceglieva anche la data più propizia per le nozze, tramite il confronto degli oroscopi dei futuri sposi.
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Nappye (납폐) – i doni. Arrivava il famoso ham: un baule colmo di sete, gioielli e semi portafortuna. In alcune zone, la madre della sposa apriva il baule davanti a tutti. E c’era persino una superstizione: il colore della stoffa estratta per primo rivelava il sesso del primo figlio.
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Chinyeong (친영) – la cerimonia nuziale vera e propria. Qui, in uno scenario che oggi i drama ci hanno reso familiare, lo sposo arrivava con un corteo, portando con sé l’oca, la veste e la promessa. Sotto gli occhi degli invitati e davanti a una tavola imbandita di simboli, gli sposi si inchinavano uno di fronte all’altra. Poi bevevano dallo stesso calice o da due metà di zucca seccata. Erano, da quel momento, un’unica cosa.
E la prima notte? Una cena formale. Se erano troppo giovani, nulla accadeva. Ma l’indomani, il ragazzo veniva “interrogato” dai parenti della sposa. Un rito goliardico che, a modo suo, scioglieva il ghiaccio.
E se eri della famiglia reale? Preparati a sei (o otto) tappe e zero spontaneità
Se per il popolo sposarsi era un affare importante, per i reali diventava un’impresa titanica. Tutto era amplificato: mesi di preparativi, uffici speciali, cerimonie da manuale.
La cosa più affascinante? La gantaek: la selezione della sposa reale. Centinaia di ragazze venivano valutate in tre fasi, come in un concorso. Dovevano essere perfette: né troppo alte, né troppo giovani, con visi armoniosi e provenienza nobile. Il cuore? Ancora una volta, un dettaglio.
Le vincitrici venivano portate in un palazzo separato, il byeolgung, dove restavano settimane a prepararsi per diventare regine. Non potevano più tornare a casa. I genitori le salutavano come se non fossero più figlie, ma rappresentanti della nazione.
Il giorno del matrimonio, il re (o principe ereditario) andava a prenderle. Non di persona, all’inizio: era troppo alto di rango. Ma con il tempo, anche lui cominciò a presentarsi. Insieme si inchinavano, bevevano, mangiavano. E poi iniziava una nuova vita… spesso vissuta da estranei che si rispettavano, ma non si conoscevano.
E le concubine? Un posto a corte, ma non nel cuore della storia
Le concubine reali erano considerate mogli secondarie. Venivano scelte tramite una selezione simile, ma il loro matrimonio era più semplice, con meno cerimonie e nessuna vera incoronazione. Una volta entrate a palazzo, dovevano inchinarsi a tutti, regina inclusa. Potevano portare figli reali, ma difficilmente avrebbero potuto chiamarsi regine.
Eppure, quante storie di K-Drama sono nate proprio da queste donne “secondarie” diventate protagoniste di amori impossibili?
Alla fine, era tutto scritto… ma forse anche un po’ sentito
Mentre leggevo e scrivevo tutto questo, mi tornavano in mente mille scene: la sposa silenziosa che piange da sola nella sua stanza, il principe che lancia uno sguardo veloce sotto il velo, il primo sorso di vino bevuto a occhi chiusi. Dietro la struttura rigida di quei rituali c’erano cuori vivi. Alcuni battevano per dovere. Altri hanno finito per amare davvero.
E mi sono chiesta: forse è questo che ci affascina ancora oggi. Non solo i costumi, i palazzi, le musiche solenni. Ma quella possibilità, anche nella Corea più antica, che tra due perfetti sconosciuti, un inchino e un calice possano davvero accendere una scintilla.
Una storia d’amore che nasce dove meno te l’aspetti. Proprio come in un drama.
Fonte:
- https://thetalkingcupboard.com/2016/11/15/wedding-and-marriage-in-joseon-part-1-historical-stuff/
- https://thetalkingcupboard.com/2019/01/21/wedding-and-marriage-in-joseon-part-2-confucian-style/
- https://thetalkingcupboard.com/2021/02/09/wedding-and-marriage-in-joseon-part-3-royal-style/