13 giugno 2025

La verità dietro al sangue del trono: la vera storia che ha ispirato The King of Tears, Lee Bang-won

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C’è una linea sottile tra il dovere e l’ambizione, tra la giustizia e il sangue. E in quella linea si muove con passo deciso Yi Bang-won, l’uomo che la storia coreana conosce come il re Taejong, il terzo sovrano della dinastia Joseon. Un nome che può suonare lontano per chi guarda i drama solo per passione, ma che, grazie alla serie The King of Tears, Lee Bang-won, ha ripreso vita sullo schermo con tutta la sua crudezza, il suo tormento e il suo potere.

Questa non è la classica storia di un eroe che conquista il trono e salva il regno. È la storia di un figlio che ha rovesciato i pilastri della sua famiglia. Di un fratello che ha sparso il sangue dei suoi stessi fratelli. Di un uomo che, pur di costruire un impero stabile, ha sacrificato ciò che amava di più.

Una serie, una rinascita

Dopo cinque anni di silenzio nel genere storico, la rete KBS ha riportato in vita la tradizione dei grandi sageuk con The King of Tears, Lee Bang-won, in onda dal dicembre 2021 a maggio 2022. Un progetto ambizioso, con Joo Sang-wook nei panni del protagonista, che si discosta dalla narrazione epica e idealizzata, per raccontare la verità dietro il fondatore dell’assolutismo coreano. Una verità scomoda, a tratti brutale.

Questa serie non è il remake di Tears of the Dragon (1996–1998), ma un nuovo sguardo, più cupo e umano, su uno dei personaggi più determinanti – e discussi – della storia coreana.

L’uomo dietro la corona: Yi Bang-won

Nato nel 1367, quinto figlio di Yi Seong-gye (futuro re Taejo), Yi Bang-won non era destinato al trono. Ma aveva fame. Fame di potere, di riconoscimento, di un ordine che portasse stabilità dopo la fine della dinastia Goryeo.

Era un uomo colto, cresciuto tra i libri dei Confuciani e i silenzi delle strategie militari. Ma ciò che lo distingueva era la capacità di sporcarsi le mani. Fu lui a eliminare Chŏng Mong-ju, l’ultimo grande lealista di Goryeo, con una freddezza che lo rese temuto e rispettato. Il suo fu un gesto che segnò l’inizio di un nuovo ordine, ma anche il primo sangue versato in una lunga catena di tradimenti.

Le lotte fratricide: quando il potere ha il volto di tuo fratello

Chi ha guardato il drama sa che la tensione tra fratelli è il cuore pulsante della storia. Ma forse non tutti sanno che quegli eventi sono realmente accaduti. Alla morte della sua matrigna, la regina Sindeok, Yi Bang-won colse l’occasione: si ribellò, sterminò il Consigliere di Stato Chŏng Tojŏn (che ostacolava la sua ascesa), e fece assassinare i figli della regina, suoi fratellastri.

Fu il primo di due colpi di Stato conosciuti come le “Strife of Princes”, due momenti cruenti che distrussero ciò che restava dell’unità familiare e spinsero suo padre, il fondatore del regno, ad abdicare inorridito.

Ma Yi Bang-won non si fermò. Si scontrò con un altro fratello, Yi Panggan, e, dopo aver sconfitto anche lui, salì al trono nel 1400. Era il re. Ma a quale prezzo?

Il regno del controllo: più potere, meno libertà

Una volta incoronato, Yi Bang-won – ora re Taejong – avviò una serie di riforme senza precedenti. Abolì gli eserciti privati dell’aristocrazia, ridusse l’influenza dei ministri e concentrò il potere nelle sue mani. Nessuna decisione poteva più essere presa senza l’approvazione del re. Una monarchia assoluta, fondata su disciplina e obbedienza.

Rivoluzionò anche il sistema fiscale, aumentò le entrate statali scoprendo terre nascoste e rafforzò l’apparato statale. Fece costruire il Sinmun Office, un luogo dove i cittadini potevano denunciare abusi subiti dagli aristocratici. Una visione moderna, in apparenza illuminata. Ma la sua luce aveva sempre l’ombra del sangue.

Il volto oscuro della giustizia

Taejong fu spietato. E non si pentì mai. Eliminò vecchi alleati, familiari, persino i fratelli della regina Wongyeong e i parenti del futuro re Sejong. Nessuno doveva interferire con il potere. Nessuno doveva essere abbastanza forte da mettere radici dentro la corte. Neanche la famiglia.

Eppure, fu proprio lui a creare le condizioni per il regno d’oro del suo terzo figlio, Sejong il Grande, uno dei sovrani più amati e illuminati della storia coreana. Il paradosso è doloroso: perché Sejong poté brillare solo perché suo padre aveva prima fatto tabula rasa.

Un re che divide: tra ammirazione e condanna

Taejong è una figura che non si lascia definire facilmente. Viene celebrato come il sovrano che stabilì l’autorità reale, che portò ordine in un regno instabile, che pose le fondamenta di un governo centralizzato efficiente. Ma allo stesso tempo, è impossibile ignorare la scia di sangue che lo precedette.

Per ogni riforma, c’era una condanna. Per ogni progresso, un’esecuzione. Per ogni passo avanti, un fratello dimenticato.

The King of Tears, Lee Bang-won ha il merito di non edulcorare questi eventi. Di mostrarci l’uomo dietro la corona, con tutte le sue ombre e tutte le sue ambizioni. Non c’è glorificazione, ma neanche demonizzazione. Solo la cruda complessità di un leader che fece della forza la sua unica legge.

E oggi?

Guardare questa serie significa fare un viaggio nella brutalità della storia, ma anche nella psicologia del potere. Ci ricorda che dietro ogni grande re, spesso, c’è un uomo solo. E che la grandezza ha sempre un prezzo. Anche quando lo pagano gli altri.

Fonte:

  1. https://en.wikipedia.org/wiki/The_King_of_Tears,_Lee_Bang-won
  2. https://en.wikipedia.org/wiki/Taejong_of_Joseon

Gli spuntini preferiti dai coreani con storie interessanti alle spalle

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Chiunque sia stato almeno una volta in Corea del Sud — o abbia semplicemente sfiorato l’universo k-pop e k-drama — sa che lì gli snack non sono solo snack. Sono esperienze di vita. Piccoli morsi di cultura pop, comfort food da condividere o tenere nascosti gelosamente nell’ultimo cassetto della scrivania.

Ecco allora quattro piccoli tesori da supermercato che, a modo loro, raccontano la Corea del Sud meglio di tante guide turistiche.


🍯 Honey Butter Chips (허니버터칩)

Le Honey Butter Chips sono diventate un fenomeno nazionale quasi da un giorno all'altro. Create dalla joint venture Haitai-Calbee, queste patatine combinano la dolcezza del miele di acacia con la cremosità del burro francese, mescolando dolce e salato in un mix tanto improbabile quanto irresistibile.

Nel giro di soli 100 giorni dal debutto, avvenuto nell’agosto del 2014, avevano già incassato 9 milioni di dollari. Si dice che, una volta arrivate nei supermercati, le confezioni sparissero in meno di mezz’ora. E per chi non riusciva ad accaparrarsene una, restava solo un’alternativa: pagarle il doppio online.

Uno snack diventato status symbol. Altro che borse firmate.


🍫 Choco Pies (초코파이)

Le Choco Pies sono un’istituzione. Due morbidi dischi tipo pan di Spagna, un cuore di marshmallow, tutto ricoperto da uno strato di cioccolato. Esistono dal 1974, quando il marchio Orion lanciò il primo Choco Pie. Lotte seguì qualche anno dopo, nel 1978, dando il via a una storica rivalità commerciale. Persino i tribunali si sono espressi, decretando che "Choco Pie" è un nome così comune da poter essere usato da chiunque. E come dar loro torto? In fondo, chi non ne ha mai assaggiata una?

Ma la vera curiosità arriva dal Nord. Nel complesso industriale di Gaesong, le Choco Pies sono così amate che fanno parte della retribuzione degli operai nordcoreani. E sapete cosa succede? Le rivendono al mercato nero a un prezzo da 4 a 5 volte superiore. Il capitalismo che incontra il marshmallow.


🍡 Pepero (빼빼로)

Impossibile parlare di snack coreani senza citare lui: il Pepero. Un bastoncino di biscotto sottile e croccante, ricoperto di cioccolato (o mille altre varianti, dalle mandorle al matcha). In Corea, l’11 novembre è il “Pepero Day” — una specie di San Valentino bis, dove ci si scambia Pepero tra amici, fidanzati e... potenziali cotte.

Perché proprio l’11/11? Facile: quattro bastoncini, quattro "1". E c’è anche una leggenda metropolitana che dice che mangiarli ti faccia diventare snello e slanciato. Sarà vero? Chissà. Ma nel dubbio, uno tira l’altro.


🍤 Saewookkang (새우깡)

Ultimo ma non meno importante: il Saewookkang, uno snack salato a base di gamberi, nato nel 1971. Un classico senza tempo. Lo trovi nei bar servito come snack gratuito insieme alla birra, oppure tra le mani dei bambini (e degli adulti) nei parchi, intento a sfamare stormi di gabbiani.

Non è sofisticato, non è glamour, ma è autentico. E, in fondo, è questo che cerchiamo in un vero comfort food, no?


✈️ Un souvenir che sa di Corea

Se state per fare un viaggio in Corea del Sud — o se conoscete qualcuno che ci andrà — vi consiglio con tutto il cuore di cercare questi snack. Non sono solo buoni. Sono piccoli frammenti di cultura pop coreana, dolci e salati come la vita.

Metteteli in valigia. O in dispensa. O nel cuore.



Le uniformi scolastiche coreane

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È davvero facile distinguere gli adolescenti in Corea: basta guardare le loro uniformi scolastiche. In metro, nei caffè, per strada — quegli outfit impeccabili raccontano immediatamente una parte della loro vita quotidiana. Eppure, dietro quei blazer ben stirati e quelle gonne plissettate si nasconde una storia molto più lunga e interessante di quanto si pensi.

In questo articolo voglio portarti a fare un piccolo viaggio nella storia delle uniformi scolastiche in Corea del Sud, partendo dagli hanbok tradizionali fino alle versioni più moderne (e rivisitate), in cui gli studenti, nonostante regole ancora piuttosto rigide, cercano in tutti i modi di esprimere sé stessi.

Come in molti altri Paesi, anche in Corea la maggior parte degli studenti delle scuole medie e superiori è tenuta a indossare un’uniforme: si chiama 교복 (gyobok). Ma ciò che colpisce è che dietro ogni cucitura c’è un passato fatto di trasformazioni sociali e culturali, che vale la pena conoscere.

Dall’hanbok al gyobok

Nel XIX secolo, le uniformi scolastiche in Corea erano ispirate agli abiti tradizionali, il 한복 (hanbok). Poi arrivò il 1910, con l’annessione della Corea da parte del Giappone, e l’influenza coloniale trasformò anche il modo di vestire degli studenti. Le gonne delle ragazze si accorciarono, i pantaloni dei ragazzi iniziarono ad assomigliare a divise da lavoro, e i colori si ridussero a una gamma austera di nero, bianco e marrone.

Dopo l’indipendenza, il modello occidentale restò comunque predominante. Anzi, per un brevissimo periodo, tra il 1983 e il 1985, le uniformi vennero addirittura abolite: era un tentativo di incoraggiare l’individualismo, dopo anni di oppressione. Ma il sogno durò poco, e le uniformi tornarono a essere la norma.

Uniformi diverse, studenti diversi

Oggi, le uniformi scolastiche sono ancora largamente utilizzate — e difese — in Corea del Sud. Ma questo non significa che siano tutte uguali. Le scuole pubbliche e le scuole private, ad esempio, spesso adottano stili molto differenti.

Le scuole private, in particolare, puntano su un’estetica più ricercata: è il caso della Seoul School of Performing Arts, famosa per la sua uniforme gialla e nera, con blazer doppiopetto e profili a contrasto. Più che un’uniforme, sembra un outfit da palcoscenico.

Il tocco personale

Anche se le regole sono severe, gli studenti non rinunciano al desiderio di distinguersi. Negli anni ’80 lo facevano con le scarpe — le sneakers Nike erano un must. Negli anni ’90 è esploso il culto degli accessori: zaini Eastpak, maglioni Calvin Klein sotto le camicie… piccoli dettagli che dicevano: “Io sono diverso”.

Oggi, le ragazze accorciano le gonne e a volte indossano camicie da uniforme maschile per creare silhouette più trendy. Le giacche imbottite The North Face sono onnipresenti, e l’abbigliamento sportivo casual è ormai entrato nel quotidiano scolastico.

Certo, le restrizioni non sono sparite. In molte scuole è ancora vietato tingersi i capelli, truccarsi o avere piercing. Ma rispetto agli anni ’70 e ’80, la situazione è decisamente cambiata: un tempo, le ragazze non potevano portare i capelli più lunghi di 5 cm sotto le orecchie. I ragazzi? Niente capelli lunghi, punto.

Ribellarsi, in punta di piedi

Il desiderio di esprimersi non sempre viene accolto con entusiasmo. Le modifiche alle uniformi vengono spesso punite, e la severità dipende molto dalla singola scuola. È anche per questo che molte ragazze e ragazzi aspettano l’università per liberarsi davvero e sperimentare con la moda, il make-up, il colore dei capelli.

Eppure, c’è qualcosa di affascinante in questo contrasto. Le uniformi non sono obbligatorie per legge, ma quasi tutte le scuole le adottano ancora. Per tradizione, per praticità, per creare senso di appartenenza.

Ma in mezzo a tutto questo ordine, quella piccola ribellione — la calza colorata, la camicia più larga, lo zaino fuori moda — è un modo per dire: “Io ci sono. E anche se indosso la stessa cosa di tutti gli altri, resto me stesso”.