4 giugno 2025

Quando un K-Drama diventa uno spot pubblicitario ambulante: la verità sul product placement

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Se guardi un K-drama – e dico davvero guardarlo, con attenzione – a parte i personaggi… che cos’è che vedi più spesso?
Aspetta, non rispondere subito. Fai mente locale. Una scena casuale: due personaggi si incontrano. Dove sono? Esatto.
Dentro un coffee shop.

E quel coffee shop non è anonimo. Ha un bel logo enorme sulla porta d’ingresso, un nome bene in vista dietro il bancone e magari una bella tazza personalizzata con tanto di brand. Oppure, altra scena classica: il protagonista risponde al telefono con uno smartphone di ultima generazione, logo bene in evidenza, magari con una suoneria che già ci suona familiare.

Tutto questo non è un caso. È product placement, o per gli amici: PPL.
Una forma di pubblicità indiretta (ma neanche troppo) che popola i nostri drama preferiti come comparse silenziose ma persistenti.


La PPL funziona così: invece di interrompere la visione con uno spot classico, ti piazzano il prodotto dentro la scena. Non c’è bisogno di urlarti “Compra questa bevanda!”, perché sarà il tuo attore preferito a berla, mentre piange per amore o sorride al suo primo appuntamento.
È una forma di pubblicità "soft", ma costante, e soprattutto ben studiata.

E non parliamo solo di caffè o telefoni.
Nei K-drama trovi di tutto: detersivi, sneakers, cioccolata, TV, fotocamere, app, libri, bevande energetiche, cibo, moda, automobili, cosmetici, minimarket...
Un piccolo centro commerciale mascherato da serie tv. E la cosa inquietante è che funziona.


Vuoi un esempio?
“My Love from the Star” (별에서 온 그대).
Il rossetto usato dalla protagonista? Sold out in un attimo.
Il pollo fritto, suo comfort food preferito? È scoppiata una vera e propria mania in Cina.
E non dimentichiamo il libro The Miraculous Journey of Edward Tulane di Kate DiCamillo: in Corea non se lo filava nessuno, poi è comparso nel drama e… boom. Oltre 30.000 copie vendute.


Chiariamoci: la PPL non è un’invenzione coreana. Esiste anche in film e serie di altri Paesi.
Ma nei K-drama ha un'intensità tutta sua. Al punto che qualcuno li definisce “pubblicità travestita da fiction”.
E no, non è solo un modo di dire.

C’è una ragione dietro questa esplosione di brand in scena: una legge del 2010.
La Korea Communications Commission ha allentato i divieti sulla pubblicità indiretta in TV. Prima era vietata, poi... via libera, tranne che per notiziari, documentari e programmi politici.
Da lì in poi, i marchi hanno iniziato a colonizzare ogni singolo frame.

Perché?
Perché conviene a tutti.
Il governo spingeva per promuovere i prodotti coreani nel mondo (sfruttando l’onda Hallyu), e le emittenti, in crisi per via dei nuovi media, hanno trovato una nuova fonte di entrate.
Si stima che la PPL copra tra il 10% e il 20% dei costi di produzione. E con i budget esagerati di certi drama, non è poca cosa.


Ma allora tutto bene?
Non proprio.

C’è un lato oscuro, soprattutto per noi spettatori affezionati.
Quando la PPL è ben dosata, nemmeno te ne accorgi. Ma quando è invasiva… ti rovina tutto.
Ti distrae. Ti fa uscire dalla scena.
E a volte, pur di inserire un prodotto, la trama si contorce, diventa forzata.
Una storyline promettente si trasforma in uno spot lungo un’ora.

E lì non vedi più i personaggi. Vedi solo quello che vogliono venderti.


Io non dico che la PPL debba sparire del tutto.
So bene quanto sia importante per tenere in piedi la macchina complessa di un drama.
Ma un buon equilibrio è possibile. E necessario.

Perché alla fine, quello che ci fa amare i K-drama non è la marca di rossetto.
È la storia.
E se anche quella inizia a vendersi… allora sì che abbiamo un problema.


La storia del Tè in Corea

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Il mondo del tè in Corea è un universo antico e affascinante, che affonda le radici in oltre duemila anni di storia. Eppure, nonostante la sua lunga tradizione, è ancora oggi un tesoro nascosto, spesso messo in ombra dalla fama più ampia della cultura del tè in Cina o in Giappone. In Corea, l’industria del tè ha subito un forte ridimensionamento negli ultimi decenni, surclassata da una vera e propria ossessione collettiva per il caffè. Ma le tracce del legame profondo tra il popolo coreano e il tè non sono svanite. Sono lì, sotto la superficie, pronte a riemergere nei momenti in cui si sente il bisogno di rallentare. Sempre più spesso, in questi ultimi anni, i coreani stanno riscoprendo questo legame antico come una strada per ritrovare equilibrio, radici e serenità.

La leggenda vuole che il tè sia arrivato in Corea grazie ai monaci buddhisti, attorno al VII secolo. Come spesso accade in Asia, le rotte culturali passavano attraverso la spiritualità: furono proprio i monaci, di ritorno dagli studi in Cina, a portare con sé non solo il sapere religioso, ma anche la pratica raffinata del tè. Tuttavia, secondo un’antica cronaca coreana, il Samguk Yusa ("Memorabilia dei Tre Regni"), esiste anche un'altra affascinante versione della storia: il tè sarebbe stato introdotto da Heo Hwang-ok (허황옥), la prima regina del Geumgwan Gaya, una figura leggendaria di origine indiana. Si narra che, sposando Re Suro e approdando per la prima volta in Corea, portò con sé una pianta di tè che piantò nella nuova terra. Ma al di là della leggenda, è opinione diffusa che furono i monaci buddhisti a dare vera linfa alla cultura del tè in Corea, integrandola nei rituali religiosi e nei momenti di connessione spirituale.

Proprio come la Cina ha la cerimonia Gongfu e il Giappone la Chanoyu, anche la Corea custodisce la sua tradizione cerimoniale: si chiama Darye (다례), letteralmente “rito del tè”. Una pratica elegante e raccolta, portata avanti da più di mille anni. All’inizio veniva eseguita come offerta agli dèi o agli spiriti dei defunti, spesso in contesti buddhisti o durante rituali commemorativi per i re. Con il tempo, però, soprattutto durante la dinastia Joseon, la cerimonia del tè si è trasformata: è uscita dai templi ed è entrata anche nelle case dei reali e, in forme più semplici, nella vita del popolo. I reali la eseguivano in occasioni formali, mentre il popolo la integrava nella jesa (제사), la cerimonia che si tiene in memoria degli antenati. In passato, il tè aveva un ruolo centrale in questi momenti, anche se oggi non è più così comune.

La bellezza del Darye sta nei dettagli: si svolge su tavoli bassi, con movimenti lenti e misurati, quasi danzati. Ogni gesto è pensato per creare armonia, per trasformare il semplice gesto del bere in un momento di ascolto. L’ospite non solo prepara il tè con cura, ma spesso intrattiene una conversazione leggera con chi partecipa. L’atmosfera è rilassata, mai frettolosa. E a seconda dell’occasione, si usano diversi tipi di ceramica – dal bianco più semplice fino ai toni bronzo o verde giada. Anche l’occhio ha la sua parte, perché ogni dettaglio concorre alla creazione di un momento di equilibrio.

Nel corso della storia, anche i tipi di tè consumati in Corea si sono evoluti. Un tempo si usavano soprattutto Tea Bricks o Tea Cakes, spesso a base di tè nero. Ma con l’influenza cinese, il ventaglio si è ampliato: tè al crisantemo, all’artemisia, e infusi di ogni genere hanno iniziato a diffondersi. La Corea ha poi sviluppato una sua produzione più “locale”, come lo yujacha (유자차), fatto con la frutta yuja e trasformato in una sorta di marmellata da sciogliere in acqua calda. Questi tè, conservati nello zucchero e spesso serviti come rimedi naturali, sono diventati apprezzatissimi anche all’estero, soprattutto in Giappone. Oltre ad avere sapori delicati e variegati, portano con sé una forte componente terapeutica: leniscono, scaldano, curano.

Oggi, però, il tè non ha più lo spazio di un tempo nella vita quotidiana dei sudcoreani. L’invasione del caffè – elegante, veloce, modaiolo – ha relegato il tè in un angolo più intimo e silenzioso. Ma proprio per questo, in un’epoca in cui si corre sempre, il tè sta tornando. Sta tornando nei gesti di chi cerca pace, di chi si sente sopraffatto dallo stress, di chi desidera un attimo per respirare. Sempre più persone si stanno avvicinando alla cerimonia del tè non per nostalgia, ma per bisogno. Come un piccolo rito di benessere, per il corpo e per l’anima. Alcuni infusi vengono bevuti quando si è malati, altri sono più indicati in certi periodi dell’anno – come lo yujacha, che scalda cuore e mani durante l’inverno.

Il tè, in fondo, non è solo una bevanda. È un simbolo. È una pausa in un mondo che non si ferma mai. È un ponte tra passato e presente. E, anche se non è più al centro della quotidianità come un tempo, conserva ancora un posto speciale nella cultura alimentare coreana. I suoi sapori sono molti – amaro, dolce, aspro, salato, acido – come le emozioni della vita. Ed è forse proprio per questo che, oggi, in silenzio, il tè sta ritrovando il suo spazio: in una tazza condivisa, in un momento di ascolto, in quella lentezza che consola e che cura.

La vera storia dietro ai drama: Donne al potere – Amanti, regine e madri nella tempesta di Joseon

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Non c’è bisogno di una spada per fare la guerra. A volte bastano uno sguardo, una lettera, o il silenzio.
Nel regno di Joseon, le donne non sedevano sul trono, ma lo circondavano, lo proteggevano, lo minacciavano.
In Jang Ok Jung, Queen Insoo e King’s Woman, tre drammi storici ci raccontano le vite di tre figure femminili che hanno scosso il palazzo reale con la loro presenza. Donne che hanno amato, manipolato, regnato. E che alla fine, sono diventate leggenda.

👘 Jang Ok Jung – L’amante che voleva essere regina

Jang Ok Jung, nota anche come Jang Hui-bin, è una delle concubine più celebri e controverse della dinastia Joseon. Il drama ce la mostra in una luce diversa rispetto alla narrazione tradizionale, che l’ha spesso demonizzata: qui è una donna brillante, talentuosa nella moda e nell’arte, innamorata sinceramente del re Sukjong, e determinata a vivere il suo amore fino in fondo.

Storicamente, Jang Ok Jung riuscì davvero a diventare regina consorte, ma fu poi deposta e condannata a morte. Le lotte tra le fazioni politiche di corte (i Noron e i Soron) la travolsero. Si dice che tramò contro la regina Inhyeon, e che usò la magia nera per ottenere favori. Ma cosa c’era di vero?

Il drama ci restituisce una figura umana, che sogna e cade. Una donna in anticipo sui tempi, che ha osato desiderare più del posto che la società le aveva assegnato.

👑 Queen Insoo – La regina madre che voleva tutto

Queen Insoo non è solo una figura potente: è la personificazione della politica dinastica nella sua forma più cruda. Era moglie del re Deokjong (mai salito al trono in vita), madre del re Seongjong e nonna del re Yeonsangun. Tre generazioni di sangue reale passano attraverso di lei.

Il drama la mostra nel suo ruolo più iconico: quello di regina madre reggente. Donna intelligente, tenace e spietata se necessario, combatté contro rivali come la suocera Queen Jeonghui e la nuora Queen Yoon (che sarebbe diventata a sua volta vittima delle lotte interne).

Queen Insoo non fu solo madre: fu una stratega, una sopravvissuta. La sua influenza durò per decenni, eppure, a differenza di altri uomini del suo tempo, non lasciò grandi trattati. Solo silenzio e potere.

🌸 King’s Woman – La concubina perduta della giovinezza del re

Tra le figure più sfuggenti e dolci, troviamo la protagonista del drama King’s Woman, ispirato alla concubina preferita del re Seongjong nella sua giovinezza. Il drama è basato su racconti popolari e ricostruzioni più romanzate che storiche, ma il nucleo resta: la storia di una donna amata profondamente, ma costretta a lasciare la corte per pressioni politiche.

In un palazzo dove ogni gesto è controllato, e dove l’amore è considerato debolezza, lei rappresenta l’emozione pura. Il re non la dimenticherà mai. Nemmeno quando sarà circondato da consiglieri, doveri e altre regine.

Il suo ruolo nella storia è piccolo, ma nel drama diventa centrale: una ferita che non si rimargina, un ricordo che accompagna tutta la vita.


✨ Tre donne, tre destini. Un unico nemico: il palazzo

Jang Ok Jung ha amato troppo in alto.
Queen Insoo ha governato senza corona.
La donna del re ha vissuto solo nei ricordi.

Ognuna di loro è entrata nel cuore di un sovrano.
Ma nessuna è uscita indenne dal labirinto di Joseon.

Attraverso questi drama, la storia si fa intima, umana.
Le grandi date spariscono, restano solo loro: le voci femminili che hanno osato parlare, agire, vivere in un mondo che le voleva mute.
E così facendo, hanno lasciato il segno.