C’è una domanda che, prima o poi, tutti ci siamo fatti guardando un K-drama o una performance dei nostri idol preferiti: “Come fanno ad avere una pelle così perfetta?”
Ma questa domanda è solo la punta di un iceberg molto più grande, complesso e – a volte – doloroso.
La Corea del Sud, oggi, non è solo patria di smartphone, idol, drama e street food, ma è anche il centro nevralgico di un impero silenzioso che detta le regole della bellezza globale: il mondo della K-beauty. Un mondo fatto di rituali precisi, cosmetici innovativi, pelle diafana, linee delicate. Un mondo dove apparire giovani, puri e impeccabili non è solo un desiderio, ma quasi un dovere.
La pelle come specchio dell’anima (e della società)
Le radici degli attuali canoni estetici coreani affondano nella filosofia confuciana, in un’idea di purezza che un tempo riguardava non solo l’aspetto fisico, ma anche l’anima. Durante la dinastia Joseon, essere belle significava avere la pelle bianca come la giada, i capelli lunghi e intatti, il volto privo di trucco vistoso. Il corpo, considerato eredità della propria famiglia, doveva rimanere puro e integro.
E la bellezza? Non era frivola, ma riflesso di virtù: la figlia devota, la moglie fedele, la madre premurosa.
Nel tempo, questi ideali si sono trasformati, ma non sono mai scomparsi. Si sono solo adattati, silenziosi e radicati.
Dal colonialismo giapponese alla rivoluzione degli oppa
Un altro spartiacque è arrivato con la colonizzazione giapponese. In quel periodo entrarono in Corea prodotti cosmetici occidentali e giapponesi, considerati più “raffinati” rispetto a quelli tradizionali.
Le pubblicità cominciarono a mostrare modelli giapponesi e occidentali, dando vita a una narrazione sottile ma potente: per essere belli, bisognava somigliare a qualcun altro.
Poi arrivarono gli idol. E con loro, una bellezza nuova, giovane, levigata, costruita al dettaglio.
Kim Ji-soo, Irene, Jin, Kim Tae-hee, Shin Min-ah... nomi che oggi rappresentano la perfezione agli occhi del mondo. Ma anche icone di uno standard quasi impossibile da raggiungere: viso piccolo a forma di V, pelle chiara, occhi grandi, naso sottile, corpo snello, gambe lunghe, spalle a 90 gradi.
La bellezza coreana ha continuato a evolversi, mantenendo sempre un comune denominatore: apparire giovani, puri, perfetti.
Il prezzo del sogno: chirurgia, lookism e pressione sociale
A prima vista, la Corea può sembrare un paradiso della bellezza. I cosmetici sono ovunque, i trattamenti accessibili, la chirurgia estetica quasi un regalo di laurea.
A Seoul, Gangnam non è solo un quartiere, è un’industria del ritocco. “Gangnam Unnie” è il soprannome ironico con cui si indicano le ragazze che hanno rifatto più parti del volto. Ma sotto l’ironia, spesso, si nasconde un’inquietudine profonda.
Perché quando ti dicono continuamente che il tuo viso è “troppo tondo”, che il tuo naso è “troppo largo”, che i tuoi occhi “sembrano spenti”... prima o poi inizi a crederci. E allora la bellezza smette di essere piacere, e diventa ansia.
E questa ansia ha un nome: lookism, la discriminazione basata sull’aspetto fisico. Un fenomeno che può condizionare il lavoro, le relazioni, persino la propria autostima.
In Corea, non è raro vedere ragazze a dieta ferrea fin dai 14 anni, idol che svengono sul palco, giovani che spendono stipendi interi per “aggiustare” ciò che non va. Eppure, nonostante tutto, è raro trovare qualcuno che condanni chi si sottopone a questi interventi.
Perché in fondo, in una società che premia la bellezza, chi si rifà lo fa per sopravvivere.
Quando il trucco non è trucco
C’è però anche un’altra faccia della medaglia. Quella fatta di innovazione, ricerca, amore per la pelle.
In Corea, la skincare è cultura. Non un lusso, ma un rituale quotidiano. Si impara da piccoli, si fa in famiglia. La pelle non è solo estetica: è benessere, è rispetto per sé stessi.
Marchi come Etude House, TONYMOLY, Holika Holika non vendono solo cosmetici, ma raccontano un’idea di cura che va oltre il make-up.
È il famoso effetto “no-makeup makeup”: sembrare al naturale, ma con dietro ore di attenzione, prodotti specifici, formule leggere e tecnologie avanzate.
Il tutto con un vocabolario infinito: 화장 (Hwajang) per dire trucco, 스킨케어 (Seukinkeeo) per indicare la skincare, 쌍꺼풀 (Ssangkkeopul) per le doppie palpebre, e via dicendo.
Persino il concetto di “essence”, che da noi è quasi sconosciuto, in Corea è un passaggio essenziale, una fusione tra tonico e siero che potenzia ogni trattamento.
Bellezza o battaglia?
Negli ultimi anni qualcosa, lentamente, sta cambiando.
Alcuni idol iniziano a rompere gli schemi. Hwasa, con il suo look potente e provocatorio, Jennie Kim, con la sua unicità elegante, Felix degli Stray Kids, con la sua androgina bellezza fuori dagli standard... stanno aprendo spiragli.
Anche i giovani cominciano a interrogarsi: “È davvero questo il volto che voglio?”
Certo, il cammino è lungo. Gli standard sono ancora lì, ben saldi. Ma il fatto stesso che se ne parli, che si metta in discussione il dogma della perfezione, è un primo passo importante.
E noi, da qui?
Noi che guardiamo da lontano, affascinati, spesso non vediamo tutto. Ci perdiamo nei visi luminosi degli idol, nei drammi romantici pieni di visual da sogno, nei colori pastello delle maschere viso.
Ma dietro ogni BB cream, ogni linea di eyeliner perfetta, ogni sorriso candido... c’è una storia fatta di orgoglio culturale, innovazione, ma anche pressione e sacrificio.
Amare la Corea significa anche questo: conoscerne le ombre. E imparare, magari, a prenderci cura di noi senza inseguire modelli irraggiungibili.
Perché la pelle perfetta esiste. Ma quella vera, quella che parla di vita vissuta, di libertà, di identità... è ancora più bella.
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