18 giugno 2025

La storia del cinema coreano: un secolo di memoria, resistenza e meraviglia


Se oggi parliamo con entusiasmo di K-pop e Drama, è perché la Corea del Sud ha saputo costruire, passo dopo passo, una cultura visiva potente e capace di parlare al mondo. Ma il viaggio del cinema coreano non è cominciato con Netflix o con i successi di Cannes. È cominciato nel 1919, tra le mura dello storico Dansungsa Theater, con la proiezione di due opere diverse ma fondamentali: Uirijeok Gutu, a metà tra teatro e cinema, e il documentario Scenes of Kyongsong City. Era il 27 ottobre. Un giorno diventato simbolo, tanto che oggi è celebrato come la nascita ufficiale del cinema coreano. I kino-drama erano ibridi affascinanti, con attori che recitavano davanti a proiezioni di paesaggi reali: il più noto fu Fight for Justice, dove la lotta tra bene e male prendeva vita sul palco. Negli anni successivi, il cinema muto divenne il principale veicolo di espressione. Due anni dopo, nel 1921, venne realizzato il primo vero lungometraggio: Chunhyangjeon – Il racconto di Chunhyang – che già sperimentava qualche tocco di colore e suono. The Story of Jang-hwa and Hong-ryeon (1924), con le sue protagoniste uccise dalla matrigna e vendicate nell’aldilà, fu un successo immenso. I byunsa – narratori in carne e ossa che davano voce e anima ai film muti – diventarono vere celebrità. Era un cinema di emozione pura, condivisa in sala, tra parole sussurrate e musica dal vivo.

Ma i passi successivi non furono facili: la guerra di Corea (1950-1953), l’occupazione giapponese, la divisione del paese… tutti eventi che hanno ferito la società e, con essa, anche l’industria culturale. Durante il periodo coloniale giapponese, il cinema coreano fu soggetto a censura e repressione. I cineasti volevano raccontare storie di identità, orgoglio nazionale, libertà, ma il controllo era feroce. Tuttavia, nel 1926, Arirang di Na Woon-kyu riuscì a sfuggire a tutto questo. Raccontava la storia di un uomo disturbato che uccide il figlio di un collaborazionista. Era un atto artistico e politico allo stesso tempo. La canzone “Arirang” divenne l’inno non ufficiale del movimento indipendentista. Molti film prodotti nei decenni successivi sono andati perduti, a causa della guerra o della scarsa cura degli archivi. Il più antico film coreano oggi sopravvissuto è Crossroads of Youth (1934), un film muto di Ahn Jong Hwa ritrovato solo nel 2007 e restaurato con enorme cura. Un piccolo miracolo per una memoria collettiva troppo a lungo ignorata. Negli anni ’30, poi, con l’arrivo della tecnologia del suono, nacque il primo talkie coreano, The Story of Chun-hyang (1935). Ma il sonoro non cancellò del tutto il cinema muto, soprattutto a causa dei costi. Solo nel 1937, con Wanderer, il cinema parlato divenne lo standard.

Con la liberazione dalla dominazione giapponese nel 1945 e poi la devastazione della guerra di Corea (1950-1953), il cinema si fece portavoce del dolore e della speranza. Film come Viva Freedom! (1946) celebravano l’indipendenza, mentre documentari e cinegiornali raccontavano le ferite ancora aperte. Dopo la guerra, la modernizzazione e l’influenza americana portarono alla diffusione del colore, del 35 mm e alla crescita dei generi: commedie, melodrammi, musical, persino film aerei. Fu l’inizio dell’“era Chungmuro”, con Seoul al centro della produzione cinematografica. Tra il 1956 e il 1959, il numero di film prodotti esplose, e si sviluppò una vera industria culturale. Il cinema coreano divenne il principale intrattenimento della popolazione, con decine di milioni di spettatori ogni anno. Film come The Housemaid (1960) e Obaltan (1961) raccontavano la tensione sociale e psicologica di un paese in rapida trasformazione. Tuttavia, la dittatura militare di Park Chung-hee introdusse una legge cinematografica che limitò la libertà creativa, riducendo il numero di compagnie di produzione e imponendo una rigida censura. A causa delle leggi che obbligavano i distributori a finanziare tre film coreani per ogni film straniero importato, vennero prodotti film a basso budget e di scarsa qualità. L’industria cinematografica coreana entrò in crisi. Ma anche in questo clima difficile, ci furono gemme preziose: The March of Fools (1975), Winter Woman (1977), e film drammatici come Yeong-ja’s Heydays. Era un cinema che cercava, nonostante tutto, di parlare alla nuova generazione.

La forza dei film che raccontano la verità

Oggi il cinema coreano non è più solo intrattenimento: è memoria, denuncia, testimonianza. È arte che attraversa il dolore per restituirlo in immagini, per farlo arrivare a chi non c’era. Film che raccontano la fame del dopoguerra, le ingiustizie sociali, le rivolte, le tragedie, e anche – con una forza silenziosa – la dignità del popolo coreano.

Ci sono titoli che ogni appassionato dovrebbe vedere almeno una volta nella vita, per capire davvero che cos’è la Corea oggi. Ne cito alcuni tra i più rappresentativi:

  • Obaltan (1961), che mostra senza filtri le sofferenze del dopoguerra.

  • The Housemaid (1960), diventato negli anni un classico per la sua potenza visiva e narrativa.

  • A Day Off (1968), film vietato per decenni, ritrovato e restaurato solo nel 2005.

  • Sopyonje (1993), primo film sudcoreano ad attirare oltre un milione di spettatori.

  • Old Boy (2003), vincitore del Gran Premio a Cannes, oggi diventato cult.

  • Memories of Murder (2003), ispirato a un fatto vero, un thriller che ha salvato la sua casa di produzione dal fallimento.

  • The March of Fools (1975), una fotografia generazionale mutilata dalla censura.

  • Why Has Bodhi-Dharma Left for the East? (1989), opera poetica e filosofica, considerata una pietra miliare dell’estetica cinematografica coreana.

  • The Day A Pig Fell Into The Well (1996), esordio di Hong Sang-soo, che ha aperto una nuova via nel cinema d’autore coreano.

  • Good Windy Day (1980), un racconto corale di amicizia e speranza in tempi difficili.

Questi film non sono solo titoli: sono porte aperte su un passato che merita di essere raccontato e ascoltato. E tra tutti, ce n’è un gruppo che occupa un posto speciale nel mio cuore. Sono i film che parlano del Movimento Democratico Coreano, in particolare degli anni Ottanta.


18 maggio 1980: Gwangju e la lotta per la libertà

La Corea del Sud non è diventata una democrazia da un giorno all’altro. C’è stato un prezzo da pagare. Un prezzo altissimo. Uno dei momenti più tragici – e forse più ignorati dal pubblico occidentale – è la rivolta di Gwangju, iniziata il 18 maggio 1980. Per nove lunghi giorni, i cittadini della città si ribellarono contro la legge marziale imposta dal governo militare. Gli studenti, le famiglie, gli operai... tutti uniti per chiedere libertà. Centinaia furono uccisi. Migliaia feriti. Per anni, tutto questo fu silenziato. Solo nel 1987, con la prima elezione presidenziale libera, qualcosa cominciò a cambiare. Infatti,  quando la censura cominciò ad allentarsi, nacque una nuova ondata cinematografica. Film indipendenti come Oh, Dream Nation (1988) e Night Before the Strike (1990) raccontavano lotte operaie e rivolte studentesche. La storia entrava nel cinema. E il cinema diventava il modo per raccontare ciò che i libri di scuola tacevano. Anche i grandi conglomerati industriali (chaebols) iniziarono a investire, permettendo una nuova vitalità. E nel 1987, l’attrice Kang Soo-yeon vinse a Venezia: il cinema coreano cominciava finalmente a farsi notare nel mondo.

Oggi, grazie a film come May 18 (2007), possiamo rivivere quei giorni e – forse – comprenderne il peso. Il film ci fa entrare nella vita di un giovane qualunque, che si prende cura del fratello minore. Il 18 maggio è al cinema con Shin Ae, l'infermiera che ama in silenzio. Ma all’uscita, il mondo è cambiato. Le strade sono in fiamme, i soldati inseguono gli studenti, la città è nel caos. Da lì, il film segue i protagonisti per tutti i nove giorni della rivolta. Un racconto straziante, necessario.

Un altro film imperdibile è A Taxi Driver (2017), con uno straordinario Song Kang Ho. La storia è vera: un tassista di Seul, per soldi, accetta di accompagnare un giornalista tedesco a Gwangju. Non sa cosa troverà. Ma una volta lì, assiste in prima persona alla carneficina. Il giornalista è Jürgen Hintzpeter, che riuscirà a filmare ciò che il governo stava nascondendo. Un tributo a chi, con coraggio e rischio personale, ha scelto di raccontare la verità.

Poi c’è 1987: When the Day Comes, sempre del 2017. Il film si svolge sette anni dopo Gwangju. Un giovane studente, Park Jong Chul, muore durante un interrogatorio. Le autorità parlano di attacco cardiaco. I suoi compagni, però, sanno che è stato torturato. E non vogliono più stare zitti. Ne nasce un movimento collettivo, che porterà – finalmente – alle elezioni democratiche. 1987 è un thriller politico, un mosaico di volti e storie, una corsa contro il tempo per la verità.

Gli anni Novanta e Duemila furono un’epoca d’oro. Con la nascita del fenomeno Hallyu, i film coreani cominciarono a imporsi anche fuori dalla penisola. Swiri (1999), Joint Security Area (2000), Friend (2001) e Taegukgi (2004) furono successi al botteghino. Registi come Park Chan-wook (Oldboy, 2003), Kim Ki-duk (Samaria3-Iron), Lee Chang-dong (Oasis) vinsero premi internazionali. I multiplex si moltiplicarono, i festival coreani esplosero (Busan, Jeonju, Bucheon), e la Corea diventò un punto di riferimento nel panorama cinematografico mondiale. Dal 2012, con film come The Thieves e Masquerade, il cinema coreano ha superato i 100 milioni di spettatori. È diventato un’industria stabile, matura, capace di spaziare tra i generi, sperimentare, osare. Roaring Currents (2014) ha battuto ogni record di pubblico. My Love, Don’t Cross That River ha portato il documentario nel cuore delle masse. L’esplosione del VOD, dell’IPTV e delle piattaforme online ha cambiato il modo di vedere film, ma ha anche ampliato il pubblico. La Cina è diventata il principale importatore. E il cinema coreano, finalmente, ha cominciato a guadagnarsi il rispetto del mondo.

Un cinema che racconta l’anima

Da Obaltan a Parasite, da Arirang a Decision to Leave, la Corea ha raccontato se stessa. Con coraggio, con dolore, con ironia. Questi film non sono semplici pellicole. Sono memoria viva. E guardandoli, ho capito una cosa: non bisogna essere storici per avvicinarsi alla storia. Bastano il cuore e la voglia di capire. Il solo pensiero di ciò che hanno rischiato tutte queste persone, per poter vivere in un paese libero, mi fa venire i brividi. E mi spinge ogni volta a saperne di più. Oggi, non è solo il paese degli idol e dei drama. È un paese che ha saputo trasformare la propria storia in arte. Un paese che ha sofferto, lottato, amato. E che continua a parlare al mondo con la lingua più potente che esista: quella del cinema.

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